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Giustizia 1

La Consulta
boccia il lodo Maccanico

Giustizia 2

Salve le intercettazioni casuali dei parlamentari

di Antonio Marini

 


La Consulta boccia il lodo Maccanico

Non capita spesso che la Corte Costituzionale intervenga per ben due volte a bollare di incostituzionalità una legge dello Stato. È capitato alla legge varata dal Parlamento il 20 giugno 2003, la cosiddetta legge Boato, che dispensava prerogative processuali alle più alte cariche dello Stato e ai membri del Parlamento, in attuazione dell’articolo 68 della Costituzione. Che fosse una legge destinata ad entrare nel mirino della Consulta era facilmente prevedibile, vista la sua manifesta incostituzionalità.
Dopo la sua approvazione, numerosi furono gli appelli al Capo dello Stato affinché rinviasse il provvedimento alle Camere per una nuova deliberazione. Fallito questo tentativo, venne avanzata la richiesta di un referendum abrogativo su iniziativa di un comitato promotore guidato da Antonio Di Pietro. La richiesta venne poi a decadere proprio in seguito alla prima sentenza della Corte Costituzionale del 20 gennaio 2004, n. 24, con la quale venne dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’articolo 1 della legge, che si intendeva sottoporre a giudizio referendario.

Tale articolo, che recepiva un disegno di legge comunemente noto come «lodo Maccanico», vietava di sottoporre a processo penale le cinque più alte cariche dello Stato (i presidenti della Repubblica, del Senato, della Camera dei Deputati, del Consiglio dei ministri, della Corte Costituzionale) durante il loro mandato, disponendo la sospensione dei processi in corso, in ogni fase, stato e grado, per qualsiasi reato, anche riguardante fatti antecedenti all’assunzione della carica o della funzione, e fino alla cessazione delle medesime. Venivano esclusi soltanto i reati di alto tradimento e attentato alla Costituzione previsti dall’articolo 90, nonché i reati ministeriali previsti dall’articolo 96 della Costituzione.
Senza sconfessare del tutto la ratio della norma, dopo aver rilevato che il bene che essa intendeva tutelare era ravvisabile nell’assicurazione del sereno svolgimento delle rilevanti funzioni esercitate dalle alte cariche dello Stato e quindi poteva essere tutelato in armonia con i principi fondamentali dello stato di diritto, la Corte ha spiegato in modo lineare e chiaro, nella motivazione della sentenza, perché tale norma, incidendo sui principi del processo, sulle posizioni e sui diritti in esso coinvolti, violava gli articoli 3 e 24 della Costituzione. In particolare ha spiegato come la sospensione ivi prevista fosse generale, automatica e di durata non determinata.

Essa, infatti, concerneva i processi per imputazioni relative a tutti i reati ipotizzabili, in qualunque epoca commessi, che fossero extrafunzionali, cioè estranei all’attività inerenti alla carica. Inoltre essa avveniva senza alcun filtro, quale che fosse l’imputazione e in qualsiasi momento dell’iter processuale, senza possibilità di valutazione delle peculiarità dei casi concreti. Infine, predisposta com’era alla tutela delle importanti funzioni di cui si è detto, e quindi legata alla carica rivestita dall’imputato, subiva, per quanto concerneva la durata, gli effetti della reiterabilità degli incarichi e comunque della possibilità di assumerne più di uno tra quelli indicati. Basti pensare alla concreta possibilità che il presidente della Camera diventasse presidente del Consiglio e, dopo ancora, presidente della Repubblica: in questo modo egli non avrebbe potuto essere sottoposto a procedimento penale per un tempo irragionevolmente lungo. Tutto ciò contrasta non solo con il fondamentale principio della parità di trattamento davanti alla giurisdizione, ma anche con il parametro della razionalità della scelta legislativa.
Peraltro, l’automatismo generalizzato della sospensione incide, menomandolo, anche sul diritto di difesa dell’imputato, al quale viene posta l’alternativa tra continuare a svolgere l’alto incarico sotto il peso di un’imputazione che, in ipotesi, può riguardare gravi reati particolarmente infamanti, oppure dimettersi dalla carica ricoperta al fine di ottenere, con la continuazione del processo, l’accertamento giudiziale che egli può ritenere a sé favorevole, rinunciando a un diritto costituzionalmente garantito come quello previsto dall’articolo 51 della Costituzione. Sacrificato risulta, altresì, il diritto della parte offesa del reato che, pur ammessa la possibilità di trasferimento dell’azione in sede civile, deve soggiacere alla sospensione prevista dall’articolo 75 del Codice di procedura penale.

All’effettività dell’esercizio della giurisdizione non sono poi indifferenti i tempi del processo. Sul punto la stessa Corte ha avuto già modo di rilevare, ancor prima che il principio della sua ragionevole durata fosse sancito nell’articolo 111 della Costituzione, come una stasi del processo per un tempo indefinito e indeterminabile vulnerasse il diritto di azione di difesa, e che la possibilità di reiterate sospensioni ledesse il bene costituzionale dell’efficienza del processo medesimo (sentenze numeri 353 e 354 del 1996).
Ma v’è di più: la norma censurata viola l’articolo 3 anche sotto un altro profilo. Essa accomuna, infatti, in un’unica disciplina cariche diverse non soltanto per le fonti di investitura, ma anche per la natura delle funzioni, distinguendo per la prima volta sotto il profilo della parità riguardo ai principi fondamentali della giurisdizione i presidenti delle Camere, del Consiglio dei ministri e della Corte costituzionale rispetto agli altri componenti degli organi da loro presieduti. Ora, mentre vengono fatti salvi gli articoli 90 e 96 della Costituzione, nulla viene detto a proposito dell’articolo 3 della legge costituzionale 9 febbraio 1948 n. 1, che ha esteso a tutti i giudici della Corte costituzionale il godimento dell’immunità accordata dall’articolo 68 ai membri del Parlamento. Con la conseguenza che, anche sotto questo aspetto, la norma in esame appare viziata da elementi di intrinseca irragionevolezza. Bene ha fatto, quindi la Corte, a dichiararne l’illegittimità costituzionale, cancellandola per sempre dal nostro ordinamento.


Salve le intercettazioni casuali dei parlamentari

Il secondo intervento della Corte Costituzionale sulla legge n. 140 del 2003 è più recente e risale a qualche mese fa. Questa volta a cadere sotto la mannaia della Consulta è stato l’articolo 6 della legge stessa, che disciplinava le cosiddette intercettazioni «casuali» di conversazioni alle quali abbia preso parte un membro del Parlamento, colto a dialogare con indagati o imputati. La norma «colpita» dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale prevedeva la necessità dell’autorizzazione della Camera di appartenenza del parlamentare anche nei casi in cui tali intercettazioni dovessero essere utilizzate nei confronti di terzi, imponendo la distruzione della documentazione relativa entro dieci giorni dal diniego dell’autorizzazione.
Con la sentenza n. 390 del 23 novembre 2007 la Corte ha fatto piazza pulita di questa disciplina, ritenendola in contrasto con gli articoli 3, 24 e 112 della Costituzione. Secondo la Corte, tale disciplina finiva per estendere, senza alcuna plausibile giustificazione, anche a soggetti diversi dai parlamentari una garanzia che, essendo riconducibile all’area dell’articolo 68 della Costituzione - il quale stabilisce che nessun membro del Parlamento può essere sottoposto ad intercettazioni, in qualsiasi forma, di conversazione o comunicazione senza l’autorizzazione della Camera di appartenenza -, in tanto può avere senso in quanto sia diretta a tutelare i parlamentari da illegittime interferenze giudiziarie nell’esercizio delle loro funzioni.

In particolare, la norma costituzionale mira a proteggere il parlamentare dal rischio che strumenti investigativi di notevole invasività o atti coercitivi delle sue libertà fondamentali possano essere impiegati con scopi persecutori, di condizionamento e comunque estranei alle effettive esigenze della giurisdizione. Di contro, nessuna ragione di questo tipo può esservi per accordare un’analoga garanzia a favore di soggetti terzi per il solo fatto che alle intercettazioni nei loro confronti abbia occasionalmente preso parte un membro del Parlamento.
In questo caso, l’eventualità che l’esecuzione dell’atto sia espressione di un atteggiamento persecutorio o comunque di un uso distorsivo del potere giurisdizionale nei confronti del membro del Parlamento, volto ad interferire indebitamente sul libero esercizio delle sue funzioni, resta di regola esclusa proprio dalla accidentalità dell’ingresso del parlamentare nell’area di ascolto. Né può ritenersi che il nulla osta successivo del Parlamento all’utilizzazione di tali intercettazioni sia imposto dall’esigenza di evitare una surrettizia elusione della garanzia dell’autorizzazione preventiva, elusione che si realizzerebbe attraverso la sottoposizione a controllo di utenze telefoniche appartenenti formalmente a terzi, ma che possono presumersi utilizzate dal parlamentare del quale si intende, in realtà, captare le conversazioni.

Al riguardo, occorre precisare che l’articolo 68 della Costituzione vieta di sottoporre ad intercettazione, senza autorizzazione, non le utenze del parlamentare, ma le sue comunicazioni, per cui ciò che conta non è la titolarità o la disponibilità dell’utenza captata ma la direzione dell’atto di indagine. Se quest’ultimo è volto, in concreto, ad accedere nella sfera delle comunicazioni del parlamentare, l’intercettazione non autorizzata è illegittima, a prescindere dal fatto che il procedimento riguardi terzi o che utenze sottoposte a controllo appartengano a terzi.
Nell’ambito del dettato costituzionale vanno ricomprese, perciò, anche le intercettazioni «indirette», intese come captazione delle conversazioni del parlamentare effettuate ponendo sotto controllo le utenze dei suoi interlocutori abituali. Diversamente deve ritenersi per le intercettazioni «fortuite», rispetto alle quali, proprio per il carattere imprevisto dell’interlocuzione del parlamentare, l’autorità giudiziaria non potrebbe, neanche volendo, munirsi preventivamente dell’autorizzazione da parte del Parlamento. La norma che impediva il loro utilizzo anche nei confronti di soggetti non parlamentari finiva per configurare, senza alcuna base di legittimazione costituzionale, un’immunità a vantaggio di soggetti che non hanno alcuna ragione di usufruirne.

La stessa norma introduceva, peraltro, una disparità di trattamento non solo tra il parlamentare e i soggetti diversi, ma tra gli stessi terzi, in quanto le intercettazioni eseguite nel corso di un procedimento penale possono contenere elementi utili o addirittura decisivi sia per la tesi dell’accusa che per quella della difesa. Inoltre, per neutralizzare gli effetti della diffusione delle conversazioni del parlamentare casualmente intercettate, la norma censurata delineava un meccanismo integralmente e irrimediabilmente demolitorio, omettendo qualsiasi apprezzamento della posizione dei terzi, anch’essi coinvolti in quelle conversazioni, con evidenti ricadute sul principio di obbligatorietà dell’azione penale e sulle garanzie del diritto di difesa, nei casi di inutilizzabilità delle suddette intercettazioni a carico o, rispettivamente, a discarico di tali soggetti, a seconda che alle conversazioni intercettate abbia partecipato o meno, in via del tutto occasionale, un deputato o un senatore.
La declaratoria di illegittimità costituzionale comporta che l’autorità giudiziaria non è più tenuta a richiedere l’autorizzazione al Parlamento, qualora intenda utilizzare le intercettazioni anzidette solo nei confronti dei terzi. Nel caso in cui, invece, voglia far uso delle intercettazioni sia nei confronti dei terzi che del parlamentare, dovrà richiedere ancora l’autorizzazione alla Camera di appartenenza, ma l’eventuale diniego non comporterà più l’obbligo di distruggere la documentazione delle intercettazioni, le quali potranno essere utilizzate nei confronti dei terzi. Tanto basta per ridare un po’ di fiducia a una giustizia sempre più imbrigliata da lacci e laccioli, che la rendono incapace di soddisfare, anche sotto il profilo dell’equità, le esigenze dei cittadini.

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