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ROBERTO SANTARELLI:

INDUSTRIA MECCANICA
IN RIPRESA, MA CALA
LA COMPETITIVITÀ

a cura di Viviana D'Isa

Operai metalmeccanici bloccano
una ferrovia nel corso
di una manifestazione di protesta
per il rinnovo del contratto di categoria


« Se noi abbiamo
accelerato il passo,
gli altri stanno correndo:
le nostre imprese sono
penalizzate dalla mancata
crescita dei margini
di guadagno.
La causa iniziale consiste
nella rivalutazione dell’euro
di questi ultimi anni nella
misura del 50 per cento,
oltre che nella bassa
produttività»


'all’inizio di quest’anno l’industria metalmeccanica italiana sta proseguendo nella fase espansiva registrata già nel 2006, anche se a ritmi leggermente più contenuti ma con prospettive comunque orientate verso un consolidamento, soprattutto grazie alla quota da indirizzare ai mercati esteri dovuta all’aumento delle esportazioni. Roberto Santarelli, direttore generale della Federmeccanica, mette però in guardia dai pericoli che gravano sulla nostra economia per la mancanza di competitività. La Federmeccanica è l’Associazione numericamente più importante della Confindustria: vi aderiscono circa 12 mila imprese, con quasi un milione di dipendenti.

Domanda. Quanto durerà questa fase di crescita? È congiunturale o strutturale?
Risposta. In Italia si prevede un proseguimento della fase espansiva, ma non bisogna dimenticare che la nostra ripresa produttiva si colloca nell’andamento favorevole più ampio che si registra a livello europeo e mondiale. Tuttavia, se noi abbiamo accelerato il passo, gli altri stanno correndo. Le nostre imprese sono penalizzate dalla mancata crescita dei margini di guadagno: la causa iniziale risale alla rivalutazione dell’euro avvenuta in questi ultimi anni della misura del 50 per cento, oltre che alla bassa produttività. Mi pare però che, dopo una fase di grande sofferenza, le imprese stiano rispondendo positivamente: migliorando la qualità, innovando i processi, ponendosi in una fascia più alta nel mercato o anche riconvertendosi in prodotti diversi. Lo sviluppo industriale e il mantenimento dei livelli di competitività dell’intero comparto industriale dipendono in larga misura dalla capacità del settore metalmeccanico di crescere e di rinnovarsi seguendo costantemente la politica dell’innovazione. Dietro questa valutazione positiva c’è stata, in realtà, una severa selezione delle imprese che è ancora in corso e che è stata di notevoli dimensioni.

D
. Può fare qualche esempio?
R. Settori che un tempo erano considerati maturi oggi sono tornati a crescere, ed è possibile ipotizzare tassi di incremento superiori alla media. Settori invece come l’informatica o le macchine per uffici, che pure avevano una forte tradizione nazionale se pensiamo all’Olivetti, sono quasi scomparsi. Alcuni segmenti hanno perso un ruolo, altri invece lo stanno accrescendo, specie quelli notevolmente innovativi come l’aerospazio, la difesa, l’aeronautica militare e civile, che si sta ritagliando un ruolo di primo piano. C’è anche una ripresa in alcuni settori tradizionali della metalmeccanica italiana negli ultimi tempi in calo, quali auto ed elettrodomestici; l’auto ha subito vicende negative, ma si sta riprendendo; negli elettrodomestici abbiamo una presenza consistente a livello sia nazionale che multinazionale, che dobbiamo riuscire a mantenere perché il principale rischio di questo settore oggi è la delocalizzazione. Negli altri Paesi l’hanno già capito. La globalizzazione l’ha dimostrato in maniera drammatica. Spariscono interi settori industriali per ricomparire in un’altra parte del mondo. Da un punto di vista del servizio al consumatore il risultato è lo stesso, ma dal punto di vista dei lavoratori non è davvero la stessa cosa.

D. Quali cambiamenti comporta questo processo di globalizzazione nella configurazione del mercato del lavoro?
R. La trasformazione per la globalizzazione comporta uno sconvolgimento negli assetti industriali interni. Da noi c’è ancora troppa resistenza a comprendere questa realtà. Fino a dieci anni fa operavamo sostanzialmente nel mercato interno, con una concorrenza tra imprese nazionali o al massimo europee. Oggi tutto questo è sconvolto. Il mercato è diventato mondiale: abbiamo concorrenti che vanno dagli Stati Uniti alla Cina, al Giappone, a tutta l’Europa dell’Est, che diventa una protagonista industriale tendenzialmente di una certa importanza. In Germania è in atto un fortissimo processo di trasferimento delle attività verso i Paesi dell’Est Europa: i sindacati e i lavoratori si sono resi conto di questa realtà e hanno sottoscritto accordi altrimenti impensabili.

D. In questo contesto si inserisce il rinnovo del contratto nazionale di categoria in scadenza in queste settimane. Qual’è la sua valutazione sull’ipotesi di piattaforma definita dalle segreterie nazionali dei sindacati Fim, Fiom e Uilm?
R. Non è rassicurante: si tratta di una piattaforma onerosa dal un punto di vista sia economico sia normativo. L’Italia soffre di un problema di competitività soprattutto legato a un basso tasso di crescita della produttività. Da noi la dinamica della produttività è molto lenta mentre negli altri Paesi sta crescendo. La ripresa economica in corso è trainata dalle esportazioni, che non aumentano però quanto quelle dei Paesi esteri: perdiamo così quote di mercato. Si è di recente aperto un Tavolo con il Governo per discutere dei vari strumenti, tra cui un’ipotesi di facilitazione degli straordinari che, a causa dell’eccessiva tassazione, diventano un disincentivo per i lavoratori e una penalizzazione per le imprese.

D. Può indicare qualche strumento per aumentare la produttività nazionale e diventare concorrenziali con gli altri Paesi?
R. Vorremmo introdurre la clausola d’uscita, che permette di derogare a livello aziendale ciò che è stato stabilito a livello nazionale. Il contratto nazionale fatica ad adeguarsi alle esigenze di tutti i tipi di impresa, diversi per dimensioni e tipologie. La derogabilità riguarderebbe solo la possibilità di procrastinare l’erogazione dell’ultima tranche contrattuale. In Germania, per esempio, esiste solo un livello di contrattazione, mentre in Italia ve ne sono due: nazionale e aziendale.

D. Quali sono i punti più caldi della piattaforma?
R. Cominciando dall’orario di lavoro, elemento più delicato sul quale registriamo una cauta apertura, è necessario il recepimento della direttiva europea per permettere una flessibilizzazione degli orari più aderente alle esigenze delle imprese e dell’economia, come è già avvenuto in altri Paesi. Occorre riadeguare quegli strumenti che anni fa consentivano di dare risposte positive, ma occorre farlo velocemente per evitare che i risultati non siano inutili. Il tempo non è una variabile indipendente rispetto alle esigenze del mercato: va avanti lo stesso. Ci muoviamo in un ambiente molto competitivo, non possiamo rimanere fermi né introdurre altri elementi di rigidità. Non siamo un’economia chiusa e non possiamo perdere quote di mercato, pena l’impoverimento del Paese.

D. Nella piattaforma sono contemplati anche altri punti, come inquadramenti professionali e flessibilità contrattuale. Che pensa del tetto ai contratti a tempo determinato posto da essa?
R. Occorre sfatare un mito: ossia che il mercato del lavoro italiano abbia subito una destrutturazione massiccia ad opera di alcune leggi, a partire dal pacchetto Treu del 1997 che fu la prima vera iniezione di flessibilità nel sistema economico. Se controlliamo i dati statistici, da allora ad oggi, vi sono circa un milione 600 mila occupati in più. Di questi, un milione 200 mila sono a tempo indeterminato, ossia stabili; solo 400 mila, cioè un quarto, sono a tempo determinato. Abbiamo avuto un aumento della forza occupata con contratto a tempo indeterminato, ma abbiamo anche un’attività stagionale che richiede ovviamente rapporti a tempo determinato, in quanto si svolge solo in certi periodi dell’anno, come nelle fabbriche di motocicli, di condizionatori ecc. La flessibilità nell’uso del lavoro è un’esigenza ineliminabile cui dare risposta, anche se siamo disponibili a discutere con il sindacato la regolamentazione contrattuale di questi istituti che già la legge regola e che in questi anni abbiamo adottato senza grandi traumi, tentando di evitare l’incancrenimento di rapporti di precariato eccessivamente protratti nel tempo. La trappola del precariato è proprio la reiterazione di più contratti, che nel nostro settore però è poco diffusa. Lo è di più nella pubblica amministrazione.

D. La pubblica amministrazione per la prima volta potrebbe condizionare le trattative per il rinnovo del vostro contratto nazionale di categoria? Gli aumenti richiesti nella piattaforma dei tre sindacati prendono a paragone quelli formulati dai sindacati per il pubblico impiego.
R. Purtroppo negli ultimi tempi in Italia si è consolidata la tendenza a trasferire nel settore industriale comportamenti e scelte compiuti nella pubblica amministrazione. Dico purtroppo, perché è un danno all’immagine, ed è l’esatto contrario di quello che succede negli altri Paesi. Non si possono imporre a settori che operano nel mercato, e che ai vincoli del mercato sono soggetti, scelte e comportamenti tipici di un settore che con il mercato nulla ha a che vedere, che non ne subisce le sanzioni e che, soprattutto,, agisce con regole completamente diverse. Noi dobbiamo rispondere ad esigenze e a vincoli essenzialmente economici, pur con un occhio rivolto alle conseguenze politiche, intese come politica sindacale. È invece necessario esportare nel mondo della pubblica amministrazione criteri e metodi dell’industria privata e dei servizi che vivono in un regime di concorrenza, non di monopolio. In Germania per esempio, per tradizione i contratti del pubblico impiego si rinnovano dopo quelli privati, tenendo presente i risultati conseguiti dal comparto perché danno il polso della situazione economica.

D. Che pensa del contratto di apprendistato ai fini della formazione nell’avviamento al lavoro?
R. L’apprendistato è uno strumento essenziale di inserimento qualificato nel mondo del lavoro. Dà al lavoratore quella formazione necessaria per inserirsi meglio e costruirsi le fasi per un futuro sviluppo di carriera. Con il sindacato, con cui non abbiamo solo momenti di tensione e di scontro ma anche di collaborazione, stiamo cercando di dare una risposta innovativa. Già dal 1997, con il pacchetto Treu, d’accordo con i sindacati stiamo cercando di ridefinire l’intera materia dell’apprendistato con un’intensa attività di sperimentazione. In un convegno svolto con il Politecnico di Milano e con il Ministero del Lavoro per la prima volta in Italia presentiamo un’offerta di formazione a distanza, via web. Con il sindacato abbiamo predisposto anche il Fondo complementare «Cometa», il più grande fondo pensione. Vorremmo sviluppare queste attività di servizio al sistema.

D. Nelle aziende metalmeccaniche aumenta l’occupazione ma anche l’assenteismo, che si attesta a più del 10 per cento tanto da equivalere a un mese di lavoro l’anno. Quali le cause principali?
R. Tra i segnali positivi c’è un lieve, ma significativo aumento dell’occupazione nella grande industria rispetto all’analogo periodo dell’anno precedente, oltre che la riduzione delle ore di cassa integrazione guadagni che nei primi tre mesi di quest’anno sono diminuite. Le cause di assenteismo hanno motivi diversi: malattia, attività sindacale, scioperi, maternità, allattamento, permessi. Ma è sempre presente un assenteismo anomalo, di breve durata, che vorremmo limitare tutelando invece le assenze lunghe per malattia.

D. E quale tutela prevede per gli infortuni sul lavoro, che in Italia colpiscono un’elevata percentuale di occupati tanto che il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha lanciato un appello?
R. Dalle statistiche risulta che gli infortuni sul lavoro dall’inizio dell’anno sono in diminuzione, nonostante l’attenzione prestata dai media. Ma dobbiamo stare attenti che gli eccessi di enfasi non facciano aumentare troppo le regole che penalizzano le imprese. Più che nuove norme, occorre un sistema di controlli efficace. Un contributo potrebbe venire anche dalla pubblica amministrazione, dove si potrebbe riconvertire il personale in eccedenza in questo tipo di attività. Ritengo anche positivo l’obbligo di denuncia di ogni nuovo contratto di lavoro.

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