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Giustizia 1)

Riforma sbagliata,
la Consulta boccia
la legge Pecorella

Giustizia 2)

Legittimo l’appello
del p.m. nei trattati
internazionali

di Antonio Marini

 


Giustizia 1)
Riforma sbagliata, la Consulta boccia la legge Pecorella

Quando poco più di un anno fa l’allora presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, si rifiutò di promulgarla, rinviandola alle Camere per una nuova deliberazione, furono in molti a sperare che ci ripensassero. Nel proprio messaggio del 20 gennaio 2006 al Parlamento scrisse a chiare lettere che quella legge sull’inappellabilità delle sentenze di proscioglimento era viziata di incostituzionalità e pose l’accento soprattutto sulla violazione di uno dei principi cardine del «giusto processo», basato sul contraddittorio delle parti in condizione di parità tra di loro davanti a un giudice terzo e imparziale, sancito dall’articolo 111 della Costituzione.

In particolare rilevò che l’articolo 1 della legge cosiddetta Pecorella dal nome del suo promotore, vietando al pubblico ministero di proporre appello contro le sentenze di assoluzione ma consentendo all’imputato di appellarsi contro la sentenza di condanna, determinava una «asimmetria», tra i poteri dell’accusa e della difesa, che si concretizzava in una vistosa disparità di trattamento, incompatibile anche con il principio di uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, consacrato nell’articolo 3 della Carta costituzionale.

In tutta risposta, con un equilibrismo tutto italiano, apportando poche e insignificanti modifiche al testo originariamente approvato, il Parlamento varò allora un nuovo provvedimento, che lasciava inalterata la situazione denunciata dal Capo dello Stato. E così il 9 marzo 2006 quel provvedimento, ancora affetto da incostituzionalità, divenne legge dello Stato. Per circa un anno la legge ha avuto alterne vicende, lacerando le coscienze dei giudici che in alcuni casi l’hanno applicata, in molti altri l’hanno invece disattesa, bollandola di incostituzionalità e rimettendo alla Corte costituzionale la risoluzione della delicata questione. A farne le spese sono state ancora una volta le vittime dei reati che, in alcuni casi, hanno visto cadere esterrefatti la mannaia della inammissibilità sugli appelli proposti dai pubblici ministeri prima dell’entrata in vigore della nuova legge, e in altri hanno dovuto assistere attoniti al rinvio dei processi in attesa della decisione della Consulta.

Il 24 gennaio scorso il giudice delle leggi si è finalmente pronunciato e, come era prevedibile, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale non solo dell’articolo 1 della legge 20 febbraio 2006 n. 46, nella parte in cui, sostituendo l’articolo 593 del Codice di procedura penale, esclude che il pubblico ministero possa appellare contro le sentenze di proscioglimento, ma anche dell’articolo 10 nella parte in cui prevede che l’appello proposto contro una sentenza di assoluzione dal pubblico ministero prima dell’entrata in vigore della legge deve essere dichiarato inammissibile. Veniva così resa giustizia all’ex presidente della Repubblica e a quella parte della magistratura (largamente maggioritaria) che l’aveva seguito nella sua appassionata denuncia di incostituzionalità della suddetta legge.

Con riguardo alla «asimmetria» tra accusa e difesa denunciata da Ciampi, la Corte costituzionale ha osservato che la sperequazione non era stata affatto eliminata né attenuata dalla previsione derogatoria in forza della quale l’appello contro le sentenze di proscioglimento era ammesso nel caso di sopravvenienza o scoperta di nuove prove decisive dopo il giudizio di primo grado: previsione non presente nel testo originario, ma introdotta soltanto di fronte ai rilievi critici del Capo dello Stato.

Sul punto la Corte ha precisato che la legge, mentre lascia intatto il potere di appello dell’imputato in caso di condanna, anche quando si tratta di reati «bagattellari» di poco conto, fa invece cadere quello della pubblica accusa anche di fronte a delitti gravissimi (magari commessi da terroristi o mafiosi), che destano allarme sociale e che coinvolgono valori di primario rilievo costituzionale.

La rimozione dell’appello del pubblico ministero anche in questi casi non trova, peraltro, alcuna specifica «contropartita» in particolari modalità di svolgimento del processo, essendo sancita in rapporto al giudizio ordinario nel quale l’accertamento è compiuto nel contraddittorio delle parti, secondo le generali cadenze prefigurate dal Codice. Né l’alterazione della parità delle parti può trovare giustificazione, in termini di adeguatezza e proporzionalità, nelle ragioni che si collocano alla radice della riforma. Secondo i suoi fautori, l’assoluzione nel giudizio di primo grado, rafforzando la presunzione di innocenza, impedirebbe che l’imputato già dichiarato innocente da un giudice possa essere considerato colpevole dal giudice di appello. La reiterazione del tentativo dello Stato di far condannare un individuo già risultato innocente verrebbe così ad assumere una connotazione «persecutoria», contraria ai principi di uno Stato democratico.

A queste obiezioni la Corte ha risposto che la sussistenza o meno della colpevolezza dell’imputato rappresenta la risultante di una valutazione, per cui la previsione di un secondo grado di giurisdizione nel merito trova la sua giustificazione proprio nell’opportunità di una verifica piena della correttezza delle valutazioni del giudice di primo grado, che non avrebbe senso presupporre esatte, equivalendo ciò a negare la ragione stessa dell’appello consentito invece all’imputato in caso di condanna.

In effetti, se il doppio grado di merito mira a rafforzare un giudizio di «certezza», esso non può non riflettersi sui diversi approdi decisori cui il giudice di primo grado può pervenire: quello di colpevolezza, appunto, ma evidentemente anche quello antitetico di innocenza. In tale ottica, l’appello del pubblico ministero volto alla verifica dei possibili (ma eventualmente anche evidenti) errori commessi dal primo giudice, non può qualificarsi in sé persecutorio, avendo come scopo istituzionale quello di assicurare la corretta applicazione della legge penale nel caso concreto e l’effettiva attuazione dei principi di legalità e di uguaglianza.

Giustizia 2)
Legittimo l’appello del p.m. nei trattati internazionali

Com'era prevedibile, la sentenza della Corte costituzionale cha ha cancellato la legge Pecorella sulla inappellabilità delle sentenze di proscioglimento, ripristinando il potere del pubblico ministero di appellarsi contro l’assoluzione dell’imputato, ha riacceso le polemiche (in verità mai sopite) tra i fautori e gli oppositori della scelta effettuata dal Parlamento nella scorsa legislatura. Tra i fautori più oltranzisti non è mancato chi, come Piero Ostellino sul Corriere della Sera del 27 gennaio 2007, è giunto a sostenere che «l’Italia è una Repubblica fondata sull’accanimento giudiziario» e che la sentenza della Consulta «perpetua la condizione di illegalità e illegittimità in cui versa il nostro sistema giudiziario».

Vi risparmio gli altri argomenti sullo Stato di diritto e sullo Stato etico cui si è abbandonato l’autore dell’articolo citato, secondo il quale la Corte costituzionale nella sentenza avrebbe sancito il principio della «presunzione di colpevolezza dell’imputato anche dopo che la sua innocenza è stata acclarata da un tribunale della Repubblica oltre ogni ragionevole dubbio». Evidentemente l’insigne opinionista non ha letto la sentenza o non ha ben capito le ragioni poste dalla Corte a sostegno della decisione.

Nello scrutinare le questioni di legittimità costituzionale sollevate a tal proposito, la Corte ha costantemente affermato che la disciplina delle impugnazioni, sia pure con le peculiarità che la caratterizzano, si colloca entro l’ambito applicativo del principio della parità delle parti, che non è suscettibile di un’interpretazione riduttiva quale quella che intende negare alla «parità delle armi» il ruolo di connotato essenziale dell’intero processo, per concepirla invece come garanzia riferita solo al procedimento di formazione della prova. E ciò al fine di desumere che l’unico mezzo di impugnazione, del quale le parti dovrebbero indefettibilmente fruire in modo paritario, sia il ricorso per cassazione per violazione di legge, previsto dall’articolo 111 della Costituzione.

Premesso che la garanzia del doppio grado di giurisdizione non fruisce, di per sé, del riconoscimento costituzionale, la Corte ha rilevato come il potere di impugnazione nel merito della sentenza di primo grado da parte del pubblico ministero presenti margini di «cedevolezza» più ampi rispetto a quelli che connotano il simmetrico potere dell’imputato. Il potere di appello dell’organo dell’accusa trova infatti copertura costituzionale entro i limiti di operatività del principio di parità delle parti, non potendo essere configurato come proiezione necessaria del principio di obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale, di cui all’articolo 112 della Costituzione; mentre il potere di impugnazione dell’imputato viene a correlarsi anche al fondamentale valore espresso dal diritto di difesa, garantito dall’articolo 24 della stessa Costituzione che ne accresce la forza di resistenza di fronte alle sollecitazioni di segno opposto.

Ciò non toglie, tuttavia, che le eventuali menomazioni del potere di impugnazione della pubblica accusa, nel confronto con lo speculare potere dell’imputato, debbano comunque rappresentare - ai fini del rispetto del principio di parità -, soluzioni normative sorrette da una ragionevole giustificazione, in termini di adeguatezza e proporzionalità, non potendosi ritenere anche su questo versante - se non a prezzo di svuotare di significato l’enunciazione di detto principio con riferimento al processo penale -, che l’evidenziata maggiore «flessibilità» della disciplina del potere di impugnazione del pubblico ministero legittimi qualsiasi squilibrio di posizioni, sottraendo di fatto, in radice, le scelte fatte dal legislatore in questa materia al giudizio di legittimità costituzionale.

Ora, a fondamento della scelta del legislatore di vietare l’appello del pubblico ministero contro le sentenze di proscioglimento è stata posta l’esigenza di uniformare l’ordinamento italiano alla Convenzione europea sui diritti e sulle libertà fondamentali, nonché al Patto internazionale di New York relativo ai diritti civili e politici. Poiché in questi trattati è previsto che ogni persona condannata ha diritto a un riesame da parte di un tribunale superiore, secondo i fautori della legge questo diritto verrebbe vulnerato nel caso di condanna dell’imputato in secondo grado conseguente all’appello del pubblico ministero contro la sentenza di assoluzione.

A questo proposito la Corte ha però rilevato che l’articolo 2 del Protocollo addizionale della Convenzione europea stabilisce che il riesame può avvenire anche quando la persona «sia stata dichiarata colpevole e condannata a seguito di un ricorso avverso il suo proscioglimento». Ciò implica il riconoscimento di un potere di impugnazione nel merito da parte dell’organo dell’accusa, potere che è quindi compatibile con il sistema di tutela delineato dalla Convenzione e dallo stesso Protocollo, come del resto conferma la legislazione vigente di buona parte dei Paesi dell’Europa continentale.

Quanto al rapporto «mediato» che il giudice di appello avrebbe con la prova, la Corte ha precisato che la presunta distonia tra il giudizio di primo grado, in cui il giudice assiste alla formazione della prova nel contraddittorio tra le parti, e il giudizio di appello, in cui il giudice fonda la propria decisione su una prova prevalentemente scritta, sussiste anche in rapporto alle sentenze di condanna appellabili da parte dell’imputato. All’obiezione, poi, che le possibili soluzioni alternative peserebbero negativamente sui tempi del processo, ha replicato agevolmente che neppure la ragionevole durata del processo - principio che va contemperato con il complesso delle garanzie costituzionali - può essere perseguita attraverso la totale soppressione di rilevanti poteri processuali di una sola delle parti.

E ciò a prescindere dalla possibilità - da più parti prospettata e che resta aperta alla valutazione del legislatore - di una revisione organica del regime delle impugnazioni intesa ad eliminare le tensioni connesse al mantenimento di impugnazioni di tipo tradizionale nell’ambito di un processo a carattere tendenzialmente accusatorio.

(Antonio Marini)

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