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Corsera Story

QUANDO L'EDICOLA PROSPERA SUL TRIVIO


L’edicola sul trivio di Fontana di Trevi


orse che nell’antica Roma non esisteva la Suburra, quel malfamato rione alla confluenza di tre dei Sette illustri Colli - Quirinale, Viminale ed Esquilino -, popolato di taverne, osterie e relativa fauna umana? Nella Suburra non si parlava certamente il latino di Giulio Cesare, che pur abitava nei pressi, ma si intercalavano parolacce, come di certo avveniva nelle migliori famiglie romane se non proprio negli epigrammi di Marziale, che abitava anch’egli nei dintorni. Proprio come avviene oggi nelle migliori famiglie italiane, per non dire del mondo. Ma un conto è l’osteria, un conto è la famiglia che quanto al linguaggio usato oggi può essere la stessa cosa, un conto è il Corriere della Sera.

Quando vi entrai io, e per tutto il tempo in cui vi rimasi, non ebbi mai occasione di leggervi, né voglia di scrivervi, parole da Suburra, o sia pure da «famiglia moderna». Perché in primo luogo non v’era alcun bisogno di farlo; in secondo luogo certi termini non aggiungevano proprio nulla al contenuto di articoli, servizi, inchieste. Non era necessario usarli neppure quando si doveva spiegare, per esempio, che un magistrato aveva condannato un imputato per aver apostrofato con una certa parola qualcuno.

Non era ipocrisia. Non c’era proprio da essere ipocriti. Tutti conoscevano tutto, anche termini e modi di dire scurrili, ma non si sentiva affatto l’esigenza di scriverli, semmai quella opposta, di non usarli. Non solo perché non arricchivano di informazioni o di idee il contenuto degli articoli, ma perché toglievano semmai qualcosa, anzi molto: innanzitutto la proprietà del linguaggio, poi lo stile, la signorilità, la correttezza, il rispetto per la sensibilità delle persone, a cominciare dai lettori.

Oggi, proprio ipocritamente, ci si sforza di evitare altri termini scrivendo ad esempio «diversamente abile» in luogo di «disabile,» aggettivo quest’ultimo che costituiva già una versione edulcorata dell’altra, pure riveduta e corretta, di «handicappato». Un tempo le menomazioni e malformazioni altrui si indicavano brutalmente con termini assai crudi e crudeli: disgraziato, infelice, storpio, sciancato, cieco, gobbo, deficiente, subnormale. Per evitare giustamente di urtare la sensibilità di queste sfortunate persone e dei loro cari, è invalso l’uso di perifrasi al punto di dire addirittura il contrario: forse si finirà per chiamare «atleta in sport particolari» un paralitico; «diversamente intelligente» uno scemo; «differente osservatore» un cieco, termine già sostituito da non vedente ecc.

Tranne l’eccesso di ipocrisia, ciò non dà fastidio. Ma sarebbe ridicolo leggere nei libri di storia che il gappista Rosario Bentivegna, quando il 23 marzo 1944 compì l’attentato di Via Rasella a Roma, anziché da scopino si era travestito da «operatore ecologico» per fare pulizia di 40 persone - 32 tedeschi e 8 romani -, causandone l’eliminazione di altre 325 per rappresaglia alle Fosse Ardeatine; e che aveva nascosto il tritolo in un «box tecnologico» anziché in un carrettino della mondezza.

Ma non è questo il discorso che voglio fare. Negli ultimi giorni dell’infuocata campagna elettorale dello scorso aprile l’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi ha usato una parola scurrile per definire quanti non l’avrebbero votato; se l’ha fatto spontaneamente è riprovevole, ma non ha alcuna colpa se è un lettore del Corriere della Sera che, proprio in quei giorni, era disseminato di termini ben più scurrili. E non certo a causa del surriscaldamento elettorale.

Il Corriere pubblica ormai da tempo termini triviali, senza alcun bisogno. È possibile che, dai suoi amministratori al direttore, dai capiredattori ai capiservizi e ai redattori, nessuno pensi che quei termini possano urtare, se non proprio offendere, la sensibilità quanto meno di una parte dei lettori? I quali potrebbero anche non acquistare più il giornale, aggiungendosi alle decine di migliaia che l’hanno fatto in seguito al pronunciamento ufficiale pro-centrosinistra del direttore Paolo Mieli in occasione delle elezioni politiche dello scorso aprile. Perché, senza bisogno di censure, ordini di servizio, direttive della direzione, si evitano termini come handicappato, zoppo, sciancato, monco, sordomuto ecc.? Per non urtare certe sensibilità.

Ma se si evitano questi termini, perché si usano quelli più volgari e scurrili che offendono la sensibilità di altre categorie? Forse quanti li scrivono li ritengono non solo pregevoli, ma necessari alla loro aulica prosa. Allora gli chiedo: hanno mai provato a toglierli? L’informazione o il commento ne sono risultati menomati, privi di informazioni indispensabili? Giungono in redazione lettere di protesta dei lettori, dirette a sollecitarli? Se il grande Corriere e i suoi redattori ritengono così emancipata la società odierna da poter usare correntemente un linguaggio da bettola, deduco che l’userebbero anche nel Corriere dei Piccoli, se esistesse ancora, e che lo darebbero a leggere ai loro bambini.

Non è una giustificazione valida il fatto che dalle pendici del Quirinale la Suburra si sia oggi trasferita in quelle di Saxa Rubra, sede della tv pubblica, diventata una sentina di volgarità, cattivo gusto e ignoranza; anzi proprio per questo il maggior quotidiano d’Italia dovrebbe continuare ad essere quella scuola di stile, di gusto, di correttezza e di serietà di un tempo, nella quale hanno insegnato maestri che mai hanno scritto scurrilità che pure esistevano. Io rimproverai, ad esempio, addirittura Indro Montanelli per aver definito «marrano screanzato» il presidente libico Gheddafi; ma Indro non si sarebbe mai sognato di usare i termini oggi in voga nel Corriere.

Domenica 30 aprile scorso un servizio a pagina 9 del Corriere della Sera su Clemente Mastella era uno stillicidio di trivialità che ci guardiamo bene dal pubblicare. E per di più era firmato da una donna. Forse alcuni giornalisti pensano che più scurrilità scrivono, più bravi li ritengano; e alcune colleghe sono convinte che più sboccate si dimostrano, più preparate appaiano. Fortunatamente la categoria non è tutta così, anzi non è proprio così.

Un correttore di bozze dell’Osservatore Romano negli anni 50, all’epoca di Pio XII, non si avvide che nella frase «Culto dei Santi» pubblicata con rilievo in un titolo del quotidiano vaticano, era saltata la «t»; il giornale uscì così, e il proto fu licenziato. Dal numero crescente delle scurrilità pubblicate dal Corriere dovrebbe presumersi, invece, che gli autori, anziché puniti, vengano premiati, facciano carriera più rapidamente; che la stampa diventerà come la tv, dove si crede che la volgarità e l’incultura sviluppino l’audience; e che quindi sul trivio prospereranno le edicole. In effetti nei trivi hanno sempre prosperato le edicole, ma quelle con l’immagine della Madonna.
(V. C.)

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