La Fiera di Cibus
Alimentare:
la riscossa
del made in Italy
di Alessio Gambino
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a parola più usata nell’ultima edizione di Cibus, fiera dell’alimentare made in Italy svoltasi lo scorso mese a Parma, è stata «internazionalizzazione». L’aggressività dell’Oriente e del falso «made in Italy», ossia dei nuovi Paesi produttori quali la Cina e l’India e di tutti i prodotti venduti con etichette e nomi italiani ma non realizzati in Italia, rischia di mettere in crisi il secondo settore più importante dell’economia nazionale. Secondo i dati della Federalimentare, la federazione che raggruppa gli imprenditori del settore alimentare, quest’ultimo regge la concorrenza dei Paesi stranieri ma le sue esportazioni non riescono a superare la soglia del 15 per cento della produzione.
Nonostante si siano manifestati lo scorso anno promettenti segnali di ripresa determinata anche all’aumento del 2,4 per cento dei consumi delle famiglie, in campo internazionale non si è registrato uno sviluppo di pari intensità e velocità di quello dei più diretti concorrenti. Nelle esportazioni alimentari perfino il Belgio ha superato l’Italia. Il che significa che le imprese italiane, nonostante raggiungano una produzione per un valore pari a 107 miliardi di euro, presentano ancora dimensioni troppo limitate, e di conseguenza sono poco presenti nei mercati internazionali. Il settore agroalimentare è uno dei più importanti per una serie di fattori - la produttività, l’innovazione, la qualità -, ma è composto per il 90 per cento da imprese che non raggiungono i 10 dipendenti.
Se da un lato questo contribuisce a mantenere tali imprese flessibili e in grado di conservare determinate caratteristiche qualitative nei processi produttivi, dall’altro questa eccessiva polverizzazione non permette una diffusione globale dei prodotti. La strada da percorrere, secondo il presidente della Confindustria Luca Cordero di Montezemolo intervenuto alla manifestazione, si basa su quattro grandi priorità.
Per prima cosa, le aziende italiane devono crescere dal punto di vista dimensionale attraverso aggregazioni, fusioni, joint venture e consorzi, magari anche attraverso incentivi fiscali. In secondo luogo, occorre che vi sia per l’estero una più efficace azione di comunicazione e di promozione da parte delle aziende nazionali. Terzo punto, è necessaria una maggiore presenza da parte di tutti gli operatori nei mercati stranieri attraverso validi progetti di internazionalizzazione che prevedano alleanze con partner stranieri.
E, in ultimo, è necessario realizzare una grande azione di marketing internazionale per far conoscere la qualità e la sicurezza del prodotto italiano.
Il Paese non può permettersi di perdere fette di mercato in uno dei settori che l’hanno sempre visto protagonista, come invece è accaduto negli ultimi anni per quello turistico. Ovviamente anche il Governo sarà chiamato a svolgere la propria parte favorendo la ripresa e la competitività e diminuendo il costo del lavoro e la pressione fiscale, ma la maggior parte dello sforzo ricadrà sempre, e inevitabilmente, sulle imprese.
Occorre superare ostacoli culturali, primo tra tutti quello costituito dall’eccessivo individualismo che continua a caratterizzare l’imprenditore italiano. Creatività, fantasia e propensione al rischio non sono certo assenti nell’imprenditoria nazionale; ciò che manca è la compartecipazione a programmi e ad opportunità per il lungo raggio, fuori cioè dai confini nazionali.
È impensabile che nell’era della globalizzazione e della contemporanea presenza in più mercati di uguali prodotti, individualismi e gelosie riescano ad aumentare la competitività delle nostre aziende. È impensabile, ad esempio, rimanere fuori dalla grande distribuzione verso la quale sempre di più i consumatori si rivolgono, e nella quale l’aggressività degli operatori stranieri si fa di giorno in giorno sempre più accesa. L’aggregazione nazionale e internazionale è l’unica strada percorribile dalle imprese per abbattere i costi e aumentare i fatturati. Serve, dunque, un’azione corale.
Alle imprese è affidato il compito di investire e di avere una maggiore presenza nei mercati stranieri; alle istituzioni pubbliche quello di difendere l’italianità dei prodotti dalla concorrenza sleale, dalle contraffazioni e dalle imitazioni, promuovendone la qualità e la sicurezza. I margini per fare bene esistono, bisognerà agire con intelligenza e con coordinazione, non lasciandosi superare da altri nel settore considerato il fiore all’occhiello dell’Italia.
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