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GIANCARLO LANNA:

CON SIMEST
ALLA CONQUISTA
DEI MERCATI STRANIERI


Giancarlo Lanna,
presidente della Simest

«Pur raggiungendo
risultati significativi,
la Simest è utilizzata
essenzialmente
dalle grandi imprese
per le nuove iniziative
da realizzare all’estero;
occorre incentivare
il ricorso ad essa
da parte delle piccole
e medie, ampliare
la platea di quelle
che usano i suoi servizi
perché tutte devono
aver assistenza
per operare all’estero»


isogna lavorare di più sull’innovazione, sui processi tecnologici, sulla ricerca, sullo sviluppo e, soprattutto, bisogna consentire alle imprese italiane di competere sui mercati esteri mantenendo la testa dell’azienda in Italia ma godendo di condizioni non penalizzanti rispetto a tedeschi, francesi, inglesi, americani». Da due mesi alla guida della Simest, la finanziaria che dal 1990 svolge attività per lo sviluppo e la promozione delle imprese italiane all’estero, Giancarlo Lanna espone la propria ricetta per difendere il made in Italy nel mondo. Napoletano, avvocato, presidente dell’Isb, l’Italian System for Business, Lanna era già nel consiglio di amministrazione della Simest, società controllata al 76 per cento dal Governo italiano e partecipata dalle principali banche italiane, da associazioni imprenditoriali e di categoria. Da oltre quindici anni la Simest aiuta le imprese italiane a stare nei mercati internazionali e ad aprirsi ai nuovi territori emergenti dell’export, primo fra tutti il profondo Oriente.

Il neo presidente non nasconde le difficoltà per il sistema Italia: «Ci sono segnali positivi, ma si può e si deve fare molto di più. In percentuale non c’è dubbio che abbiamo perso quote nei mercati mondiali, ma i volumi hanno mantenuto una loro consistenza. Mi auguro che, contestualmente a un miglioramento del quadro complessivo economico nazionale, si possa puntare a un miglioramento della nostra capacità esportatrice, considerando che spesso i due aspetti vanno di pari passo. Maggiore è la capacità delle nostre imprese di produrre, maggiore è la capacità di stare in condizione di particolare forza, resistenza e tenacia nei mercati stranieri». Anche grazie alla creazione di luoghi fisici, sportelli, palazzi dell’export, che permettono di assistere gli imprenditori nelle loro attività all’estero, uno dei progetti sui quali Lanna punta con decisione e che illustra in questa intervista.

Domanda. Quali saranno le linee portanti della sua azione?
Risposta. Innanzitutto incentivare quanto più possibile l’uso da parte del sistema delle imprese, in particolare da parte delle piccole e medie, degli strumenti offerti dalla Simest perché, pur avendo raggiunto risultati significativi e consistenti, questa è conosciuta e utilizzata essenzialmente dalle grandi imprese italiane, per lo meno per la parte di partecipazione al capitale per le nuove iniziative da realizzare all’estero. Dobbiamo ampliare la platea delle imprese che possono ricorrere ai nostri servizi, perché è evidente la necessità che tutto il sistema trovi un’adeguata assistenza per l’internazionalizzazione in termini sia qualitativi sia quantitativi. Va inoltre tenuto presente che la nostra è un’azienda che possiede un capitale in maggioranza pubblico, e quindi svolge una funzione di natura istituzionale nell’accompagnare e nell’aiutare le imprese italiane a operare all’estero.

D. Le imprese italiane sono pronte a sfruttare le opportunità che offrite per internazionalizzare l’attività?
R. Lo scarso ricorso alle agevolazioni finanziarie o alle opportunità che la Simest offre è legato anche al livello dimensionale del sistema delle piccole e medie imprese italiane. Spesso il loro management non ha una particolare sensibilità per i processi di internazionalizzazione; le dimensioni aziendali sono tali per cui si ritiene che sui mercati stranieri non si riesce a stare, ed esiste anche il timore di affrontare situazioni difficili e particolari, in condizioni di eccessiva competitività. Sotto questo profilo occorre attuare due azioni: la prima consiste nel far conoscere meglio i servizi e gli strumenti della Simest e quindi creare un meccanismo formativo su processi così dettagliati, sofisticati e di particolare complessità. Già adesso svolgiamo un lavoro di accompagnamento e di conoscenza degli strumenti, ma si deve fare molto di più e occorre l’ausilio degli altri soggetti che operano nel campo dell’internazionalizzazione; mi riferisco ad esempio alle Regioni, alle Unioncamere estere, alla Sace, all’Ice. La seconda azione consiste nel creare le condizioni per una maggiore associazione del sistema delle piccole e medie imprese. Se queste si muovono singolarmente possono incontrare maggiori difficoltà nell’operare nei mercati esteri; se sono inserite in una struttura associativa, come consorzi, associazioni temporanee d’impresa o altre iniziative tipo industrial hotel e distretti, riescono a superare queste difficoltà e a imporsi nei mercati internazionali.

D. Il tessuto dinamico di micro e piccole imprese in passato è stato un fattore di sviluppo per l’Italia. Pensa che oggi la minidimensione possa rappresentare un gap?
R. Sì, anche se alcuni prodotti e iniziative particolari, in nicchie di mercato, se adeguatamente assistite, anche se micro, possono comunque trovare una propria collocazione internazionale. Il problema è creare le condizioni per sostenerle all’estero, soprattutto uscire dalla logica della singola impresa e ragionare in termini di pluralità di soggetti, perché in questo modo si potrebbe superare l’elemento dimensionale. Faccio un esempio. Quello che più ci viene chiesto all’estero è la creazione dei distretti industriali, un fenomeno tipicamente italiano che nasce addirittura in forma spontaneistica e poi acquisisce un carattere coordinato e organizzato e, con le ultime norme, anche un riconoscimento giuridico di particolare rilevanza. Penso a un sistema di questo tipo quando propongo di mettere insieme una serie di attività che, prese a se stanti, non potrebbero stare sui mercati esteri, ma che, collegate a un gruppo rilevante, possono avere una loro consistenza.

D. Esistono grandi differenze tra imprese del Nord e del Sud?
R. Sì. Malgrado esistano punti di particolare fermento e di eccellenza nel Sud, non c’è dubbio che il Meridione sia ancora abbastanza distante rispetto al Nord per numero di imprese che svolgono attività imprenditoriale all’estero. Il gap esiste e bisogna affrontarlo. Il Sud ha tante attività di prim’ordine che potrebbe esportare, soprattutto nell’altra sponda del Mediterraneo. Da parte nostra, sotto questo profilo qualcosa abbiamo fatto, perché gestiamo per conto del Ministero delle Attività produttive fondi di venture capital destinati ad aree geografiche specifiche. Uno di essi, il Finmed, che interessa il Mediterraneo e l’Africa, dispone di un finanziamento per 64 milioni di euro che consente di applicare alle imprese italiane un tasso d’interesse a condizioni particolarmente convenienti. Se il progetto da esse presentato è valido, viene da esso finanziato in aggiunta ai fondi ordinari, e consente alla Simest di partecipare con una quota fino al 49 per cento alla nuova iniziativa imprenditoriale all’estero, con un meccanismo che non richiede garanzie: non chiediamo fideiussione bancaria o assicurativa, che invece abbiamo l’obbligo di chiedere per la parte ordinaria della nostra attività, ma puntiamo sulla validità del progetto, sulla capacità di operare, di avere un valore industriale, di stare sul mercato e di competere.

D. Quale tipo di servizi offrite alle imprese?
R. Servizi ad ampio spettro. Svolgiamo attività di vera e propria merchant bank, cioè di partecipazione al capitale e alle iniziative di imprese italiane che operano all’estero. Attraverso la quota ordinaria e quella di venture capital sosteniamo le nostre aziende in aree geografiche piuttosto vaste: oltre al Mediterraneo e all’Africa con la Finmed, abbiamo un fondo specifico per la Cina, un altro per la Russia, l’Ucraina e alcuni Paesi caucasici; ancora un fondo per l’area balcanica comprese la Romania e la Bulgaria. Stiamo studiando la possibilità di gestire fondi di venture capital per operare in India e nei Paesi sudamericani. Questi interventi sono attuati con grande flessibilità da parte della Simest: possiamo creare nuove società all’estero con il partner italiano, acquisire partecipazioni in società già costituite, entrare in una società attraverso l’apporto dell’aumento di capitale.

D. Gestite anche le agevolazioni finanziarie pubbliche?
R. Sì, ci muoviamo in una gamma abbastanza ampia, dalla stabilizzazione del tasso di interesse sull’export credit, al sostegno alla penetrazione commerciale di imprese italiane all’estero; finanziamo la partecipazione a gare internazionali e sosteniamo gli studi di prefattibilità. Infine svolgiamo un’attività di service nella formazione, nella ricerca di partner stranieri particolarmente affidabili e che abbiano la capacità di intraprendere con imprese italiane nuove iniziative e in condizione di parità rispetto ai concorrenti. Svolgiamo un’ulteriore attività attraverso società strumentali come la Isb, per realizzare i «palazzi italiani» all’estero: è il tentativo di mettere assieme i soggetti pubblici che si muovono intorno ai processi di internazionalizzazione e i soggetti privati, grandi marchi, medie imprese, consorzi, per creare un luogo fisico nel quale siano insieme il settore pubblico e quello privato. Il primo tentativo lo stiamo facendo in un «palazzo» a Berlino, che dovrebbe essere inaugurato entro l’estate.

D. In questa attività di ricerca di partner siete presenti anche in Iraq. Com’è la situazione in quel Paese?
R. Abbiamo svolto un’attività di esplorazione per le nostre imprese. Abbiamo invitato quindici aziende di notevoli dimensioni a un incontro con imprenditori e autorità irachene per verificare la possibilità di costituire joint venture o consentire a imprese italiane di insediarsi. Resta il problema della sicurezza, però abbiamo creato concreti contatti per consentire alle imprese italiane di non restare fuori da questo mercato che riteniamo diventerà attraente quando la situazione politica e militare si sarà stabilizzata e vi saranno migliori condizioni generali.

D. Verso quali Paesi si concentra principalmente la vostra attività?
R. In base alle norme vigenti verso tutti i Paesi non appartenenti all’Unione Europea. In testa, per investimenti a sostegno delle imprese italiane, c’era la Romania, che però in questo momento sta per essere battuta dalla Cina, in grande crescita per un numero di insediamenti di imprese italiane. Abbiamo iniziative di rilievo in Russia, in Ucraina, in tutta l’area balcanica. Oggi si registra un grande interesse degli imprenditori italiani verso i Paesi emergenti, Cina, India e Sudamerica, in particolare il Brasile.

D. Ma la Cina costituisce un’opportunità o è soltanto un concorrente molto temibile?
R. Non c’è dubbio che rappresenti una grande opportunità. È chiaro, però, che presenta difficoltà obiettive. Per questo la funzione di accompagnamento della Simest, dell’Ice e della Sace è particolarmente preziosa quando si intende promuovere un’iniziativa. Le altre questioni che riguardano i rapporti commerciali nel loro complesso riguardano non solo l’Italia, ma l’intero sistema del mercato comune europeo e mondiale.

D. Cosa esportiamo in Cina?
R. Principalmente macchinari necessari ai processi lavorativi dei vari settori produttivi. E c’è un motivo: i cinesi hanno una grande capacità di produzione, ma non possiedono il know-how tecnologico adeguato. Ecco perché le macchine utensili italiane sono particolarmente richieste.

D. Ma il made in Italy è in crisi?
R. Esiste un dato di fatto obiettivo: abbiamo perduto quote di mercato per due elementi di fondo. Il primo è costituito dal fatto che sono saliti alla ribalta Paesi che prima non stavano neanche nel mercato mondiale, ossia la Cina, l’India, il Brasile. Ci scontriamo con altri concorrenti, eppure nonostante questo riusciamo ancora ad avere una presenza significativa. Il secondo elemento è questo: buona parte delle esportazioni e dei risultati del made in Italy, al di là della qualità che rimane particolarmente alta, era dovuta alle periodiche svalutazioni della lira rispetto alle monete forti, che assicuravano la competitività dei nostri prodotti. Con l’euro questo vantaggio non c’è più. Nonostante questi due effetti negativi, i dati rivelano il mantenimento delle posizioni. Non c’è dubbio che nella quantità dei prodotti e in una serie di fattori che incidono sul prezzo - il costo del lavoro e soprattutto quello delle materie prime, che è ancora più penalizzante per l’Italia - incontriamo momenti difficili. Ma la qualità e la capacità del made in Italy di rappresentare l’eccellenza sui mercati mi sembrano inalterate.

D. Quali sono i settori di punta nelle esportazioni italiane?
R. Quello delle macchine utensili, l’agroalimentare, la moda, le ceramiche, l’arredamento. Ma si assiste a una grande effervescenza in tutto, maggiormente dove possono svilupparsi la valorizzazione qualitativa e il particolare pregio dei nostri prodotti.

D. Le iniziative di espansione commerciale nei mercati stranieri attuate dalle Regioni aiutano le nostre imprese o si sovrappongono all’azione svolta a livello centrale?
R. In questo momento, senza un raccordo, possono creare momenti di confusione. Pur essendo meritoria l’attività promozionale attuata dalle Regioni, è indubbio che si pone la necessità di uno stretto coordinamento con gli altri soggetti che si muovono nella stessa direzione. Il progetto di costruire i «palazzi» dell’export italiano all’estero, cercando addirittura di mettere nello stesso spazio fisico più soggetti operanti nell’ambito di questo settore, risponde all’esigenza di organizzare un mondo che spesso è frastagliato. L’ultima riforma costituzionale, istitutiva della devolution, restituisce allo Stato la competenza delle Regioni in materia di internazionalizzazione. In qualche modo un raccordo andrà fatto, tenendo conto che esistono esigenze di carattere generale prioritarie rispetto a quelle delle singole Regioni, che pure in qualche caso possono svolgere un’attività utile per l’apertura di mercati e la presentazione di particolari nicchie di mercato regionale. Ma spesso si rileva l’esistenza di una tale frammentarietà che rischia di far perdere di vista l’obiettivo principale: che è quello di far conoscere il Paese, più che le singole Regioni.

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