Commercio
I problemi
del made
in Italy
di Alessio Gambino
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lla fine del gennaio scorso si sono svolti a Milano due importanti avvenimenti: la convention dell’Istituto per il Commercio con l’Estero e la III Conferenza nazionale sul commercio estero organizzata dal Ministero delle Attività produttive. Ad entrambe le manifestazioni, organizzate nel nuovo polo fieristico milanese, hanno partecipato i più importanti esponenti della politica, delle istituzioni e del mondo imprenditoriale. Dagli interventi dei protagonisti sono emerse le tante sfaccettature del sistema produttivo italiano e del suo rapporto con i mercati stranieri.
Da una parte, secondo i dati dell’Istat, il saldo della bilancia commerciale con i Paesi al di fuori dell’Unione Europea ha segnato nel 2005 un deficit pari a 8 miliardi 336 milioni di euro; dall’altra, quello con i Paesi dell’Unione ha registrato un aumento del 3,4 per cento, pari a 15,5 miliardi di euro per le sole esportazioni. La bolletta energetica ha svolto la sua parte negativa nel valore degli scambi, ma i problemi del made in Italy sono tanti e congeniti.
Come sottolineato dal presidente della Confindustria Luca Cordero di Montezemolo, per rilanciare il prodotto italiano sui mercati esteri occorre prima di tutto razionalizzare la miriade di uffici, istituzioni, rappresentanze che, a vario titolo, si occupano di assistere le imprese ma che nella maggior parte dei casi contribuiscono soltanto a creare confusione. Per Montezemolo, inoltre, l’Ice andrebbe riformato in senso privatistico e dotato di personale più attivo, nella gestione del quale prevalga la meritocrazia.
Dall’altra parte il viceministro alle Attività produttive Adolfo Urso ha evidenziato come l’Italia abbia aumentato gli investimenti diretti esteri e come il suo sistema produttivo, nelle tante missioni organizzate nel 2005 in India, Cina, Bulgaria, Turchia, Serbia e Thailandia, abbia dimostrato tutta la propria forza ed efficienza. Ovviamente, a seconda dei punti di vista il bicchiere apparirà sempre mezzo pieno o mezzo vuoto. Quello che vi è di sicuro è la coscienza presente in tutte le parti che molto ancora deve essere fatto affinché il made in Italy si espanda nel mondo.
Obiettivamente, tralasciando numeri, percentuali e statistiche varie, quello che ancora manca in Italia è la cultura internazionale. Sono troppo poche le imprese che allargano il numero dei Paesi cui esportare, e addirittura sono ancora di meno quelle che decidono di produrre direttamente all’estero. Esiste un problema di mentalità spesso accompagnato dalla dimensione troppo piccola delle imprese che, inserite in un contesto mondiale, diventano addirittura micro. L’euro e l’aggressività dei Paesi emergenti hanno contribuito ad affossare chi era già piccolo, e a mettere in crisi anche le imprese più grandi. Sono gli effetti della globalizzazione e di una legge naturale vecchia più dell’uomo: «quella del pesce piccolo divorato dal pesce più grande».
Se si pensa che negli ultimi anni marchi storici del settore agroindustriale italiano come Galbani, Bertolli, Carapelli, Perugina, per citare i più conosciuti, sono passati in mani straniere, ci si accorge che evidentemente qualcosa non va. A ben poco servirebbero l’auspicato ritorno del Ministero per il Commercio con l’Estero e la trasformazione dell’Ice in unica agenzia di promozione nel mondo, se prima di tutto non si interviene all’interno. Occorre «fare squadra» tra istituzioni e mondo imprenditoriale. Occorre difendersi con lealtà dagli attacchi esterni e fare fronte comune quando all’attacco vanno le aziende italiane.
Chi decide di creare fare e svolgere attività all’estero? Gli imprenditori. E allora su questi bisogna intervenire fornendo loro, prima di tutto, la cultura e la preparazione per investire fuori confine, poi l’assistenza e gli strumenti finanziari adeguati. Se la Sace, società che fornisce i servizi assicurativi per il commercio estero, e la Simest, società italiana per le imprese all’estero, chiudono i loro bilanci in utile, vuol dire che l’imprenditore investe fuori quando sa di avere l’apporto delle istituzioni.
Ciò non deve trasformarsi in una regola, altrimenti c’è il rischio di ritornare a forme di assistenzialismo di altri tempi. Gli aiuti sono giustificati quando sono funzionali alla crescita delle piccole e medie imprese che in Italia rappresentano il 90 per cento del tessuto economico; così pure forme di aggregazione in consorzi e distretti. Non bisogna dimenticare però la necessità di intervenire sulla cultura di fare impresa all’estero, senza la quale ogni politica di rilancio è destinata al fallimento.
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