Bioetica
Dieci giuristi
a consulto
sul Testamento
biologico
Il direttore dell’Istituto Superiore
di Polizia Prefetto Mario Esposito
con i Commissari del secondo anno
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urato dal Comitato Scienza e Diritto della Fondazione Umberto Veronesi, il volume «Testamento biologico - Riflessione di dieci giuristi» presentato all’inizio di questo mese, e che segue il volume su «La fecondazione assistita», vede alcuni tra i più insigni giuristi delle materie civilistiche impegnarsi in un dibattito di scottante attualità: il diritto e il potere di ogni individuo di decidere il proprio destino anticipatamente rispetto al momento in cui, per condizioni di salute o di età, non fosse più in grado di farlo. Si cimentano nell’arduo problema nomi illustri: Salvatore Patti, Pietro Rescigno, Guido Alpa, Lorenzo D’Avack, Luigi Balestra, Rossana Cecchi, Gilda Ferrando, Michele Sesta, Diana Vincenti Amato, Giovanni Bonilini. I pareri possono così riassumersi.
Come ricordato nell’introduzione Maurizio de Tilla, presidente della Cassa Forense e dell’Associazione fra gli enti di previdenza dei professionisti, nonché coordinatore del Comitato Scienza e Diritto, attraverso il testamento biologico e la compilazione di direttive anticipate un individuo può indicare i trattamenti sanitari che intende ricevere o rifiutare quando non sarà più in grado di prendere decisioni autonomamente; può, inoltre, indicare un proprio fiduciario che, in tali situazioni, dovrà chiedersi se egli avrebbe voluto che la sua vita fosse prolungata o no; in caso di mancata conoscenza, si dovrebbe decidere in base al suo migliore interesse apparente.
Ma è errato ritenere che le dichiarazioni anticipate implichino di per sé l’ammissibilità dell’eutanasia; si tratta di problemi diversi e indipendenti, che vanno trattati separatamente. Le dichiarazioni anticipate che servono a indicare la volontà del paziente sono utilizzabili quando questi non può far valere di persona le proprie scelte, non hanno nessuna implicazione eutanasica; possono prevederla ma escluderla, quando anche fosse legislativamente riconosciuta; secondo Lorenzo D’Avack, potrebbero indicare di proseguire le cure contro il parere del medico di evitare l’accanimento terapeutico.
Quando si parla di dichiarazioni di volontà anticipate non si richiede il comportamento attivo di terzi per mettere fine alla vita; anche se cristallizzato nel tempo, il rifiuto del trattamento medico vale, secondo Guido Alpa, a esercitare il diritto alla salute garantito dall’articolo 32 della Costituzione. Le dichiarazioni anticipate rafforzano l’autonomia individuale nelle scelte mediche o terapeutiche, tanto più che grazie alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e alla Convenzione sui diritti dell’uomo e sulla biomedicina questi principi coinvolgono i doveri professionali e la legittimazione dell’atto medico, e confermando il diritto del cittadino all’integrità della persona e al rispetto delle sue decisioni.
Ma il testamento biologico può considerarsi valido nel nostro ordinamento? Secondo Pietro Rescigno, la risposta può essere positiva in quanto sono leciti gli atti di disposizione del corpo se non diminuiscono l’integrità del corpo e non ledano l’ordine pubblico, il buon costume e la riservatezza. Nel dicembre 2003 il Comitato nazionale per la Bioetica ha affermato che le «dichiarazioni anticipate di trattamento» rientrano nel processo di adeguamento del concetto di atto medico ai principi di autonomia decisionale del paziente. Nonostante la presentazione di vari disegni di legge da parte dei parlamentari Tomassini, Acciarini, Ripamonti, Del Pennino, Benvenuto e altri, l’istituto giuridico del testamento biologico non è presente nel nostro Paese; gli autori del volume hanno affrontato obiettivamente l’argomento, anche con tesi contrastanti, sulla possibile attuazione dell’istituto.
Ma il progresso della tecnologia medica impone di prendere decisioni. Secondo alcuni, la sospensione o mancata somministrazione di terapie è un normale esercizio dell’attività medica e non equivale all’eutanasia o al suicidio medico assistito; mentre rientra nella futilità medica una terapia non in grado di portare miglioramenti alla qualità della vita. In molti casi la terapia del mantenimento in vita viene continuata contro la volontà del paziente, in circostanze talmente gravi da far pensare che si stia negando al malato una morte dignitosa, prolungandogli una sofferenza insostenibile. È fuorviante parlare di «lasciar morire» quando si sottrae il paziente a un trattamento ormai inutile.
Diana Vincenti Amato pone interrogativi su come accertare la volontà del paziente e su quale peso dare alla volontà dei parenti. Il testamento di vita può rispondere a questi interrogativi indicando un preventivo consenso o dissenso al trattamento sanitario; bisogna dire che «sospensione della terapia» non è «cessazione di ogni trattamento»; il concetto ha aspetti che rientrano nell’esercizio della pratica medica, riconoscendo che in alcuni casi la morte dovrebbe essere resa più «sostenibile» per il paziente.
Occorre adoperarsi per dare sollievo al malato. Numerose forme di sospensione della terapia sono compatibili con i principi di buona pratica della medicina e con il rispetto dell’individuo: rivolte nella giusta direzione, dovrebbero soppiantare gli argomenti sull’eutanasia. Ma se questa è incompatibile con il buon esercizio della pratica medica, infliggere una terapia per il mantenimento in vita con il solo risultato di aumentare la sofferenza del paziente è altrettanto deplorevole.
Molti simpatizzanti dell’eutanasia definiscono moralmente irrilevante la distinzione tra eutanasia attiva e passiva, tra far morire e lasciar morire, ed equiparano l’eutanasia all’interruzione della terapia di sostegno vitale. È una distinzione squisitamente semantica. Esistono motivi convincenti perché l’atto col quale si nega una terapia di mantenimento in vita e quello col quale si causa il decesso del paziente vengano distinti. La discussione sul tipo di terapia che si nega o si applica appartiene a una categoria morale diversa dagli argomenti relativi all’atto di «consentire» o «causare» la morte.
Nell’ambito delle tesi favorevoli all’introduzione negli ordinamenti giuridici di norme che disciplinano il testamento biologico è agevole affermare che ogni persona ha diritto alla non interferenza sulle scelte che riguardano gli aspetti più intimi della sua vita. La salute e il prolungamento della vita non sono valori in sé, ma in quanto facilitano il perseguimento del proprio piano di vita: in molti casi la scelta tra trattamenti alternativi non può essere determinata indipendentemente dalle preferenze del paziente; in prossimità della morte sono particolarmente forti i timori di andare incontro a sofferenze incoercibili, di perdere il controllo e di vedere compromessa la propria dignità.
Con il volume si è tentato di dare una risposta ai quesiti riguardanti il testamento biologico e le direttive anticipate che costituiscono, secondo la maggior parte degli autori, un modo corretto per risolvere problemi che toccano marginalmente i confini dell’eutanasia. Gilda Ferrando si chiede: «Quando una persona si trova in stato vegetativo permanente, è lecito interrompere l’alimentazione forzata? Dato che il malato è in una condizione di perdita irreversibile della coscienza, c’è qualcuno che può fare questa richiesta al posto suo?». E risponde affermando che deve essere rispettata la scelta del paziente di non intraprendere certe terapie o di sospendere quelle iniziate. Se il paziente non è in grado di esprimersi, la regola deontologica prescrive al medico di proseguire la terapia fino a quando lo ritenga «ragionevolmente utile». Allo stato attuale della legislazione italiana, quando vi sia una perdita irreversibile della coscienza, l’unica soluzione è tener conto delle direttive anticipatamente espresse.
Luigi Balestra asserisce che il testamento biologico colma, sia pure in modo parziale, la frattura che la sopravvenuta incapacità dell’individuo determina nel rapporto con il sanitario. Per Balestra è fuorviante sostenere che nel dibattito sul testamento biologico la posta in gioco sia la legalizzazione dell’eutanasia; la posta in gioco è il tentativo di rivestire di nuovi contenuti la relazione medico-paziente. Per Michele Sesta è evidente l’impossibilità di prescindere dalla volontà dell’interessato, che dovrà essere rispettata sia se diretta a ottenere un trattamento terapeutico, sia se finalizzata al rifiuto.
Giovanni Bonilini afferma che il rifiuto del trattamento sanitario non può innestare la procedura di interdizione o di amministrazione di sostegno; è di assoluta gravità che si pretenda di sovrapporre la decisione di un’altra persona a quella che ha deciso altrimenti: chi rifiuti l’amputazione di un arto, preferendo lasciarsi morire, non può essere raggirato dall’attivazione di uno strumento che legittimi altri a decidere al posto suo. Rossana Cecchi si richiama alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea per la quale la dignità umana è inviolabile e ogni individuo ha diritto alla vita e alla propria integrità psico-fisica.
Salvatore Patti sottolinea che il vuoto legislativo solo in parte può essere colmato con il ricorso ad alcune norme dettate con riferimento a singole fattispecie oppure ai principi generali; si riscontra tuttavia un’accresciuta sensibilità nei confronti dell’autonomia del paziente: nella prassi si perviene spesso a forme di collaborazione tra paziente terminale e medico in una specie di alleanza terapeutica. Patti non vede positivo l’istituto del testamento biologico sollevando interessanti obiezioni. Nel febbraio 1993 il Parlamento olandese è andato ben al di là del testamento biologico, ammettendo la pratica dell’eutanasia a condizione che si provi la richiesta «persistente» da parte del paziente. In Olanda l’autorizzazione all’eutanasia non prevede il ricorso a direttive anticipate o alla delega, è legalmente ammessa solo la richiesta del paziente.
Nel diritto olandese una peculiare dottrina consente che alcune pratiche, sebbene non legittimate dal diritto scritto, vengano tollerate dai magistrati; questa dottrina permette che la pratica si sviluppi grazie a una diffusa tolleranza, per poi venire formalmente legalizzata. Questa prassi è diversa dalla tendenza che si riscontra in Inghilterra e negli Usa ad affrontare una problematica sociale direttamente con la legge. In alcuni Stati americani si fa ricorso a una procura speciale, attraverso la quale il rappresentato nomina un procuratore. L’istituto del fiduciario «della salute» consente al paziente di indicare al medico il proprio delegato o sostituto. In alcuni Stati americani la decisione del procuratore può prevalere su quella dei familiari. La Law Commission of England interpreta le direttive anticipate come decisioni anticipatorie, distinguendole dal testamento di vita. Ma tanto negli Usa quanto in Inghilterra la legittimazione morale delle direttive anticipate consiste nel promuovere l’autonomia individuale, e sebbene il documento possa indicare la scelta di ricevere o meno specifiche terapie, le direttive anticipate sono associate all’opportunità di rifiutare l’ultima terapia nel timore di un accanimento terapeutico.
Con una magistrale espressione il cardinale Dionigi Tettamanzi, facendo appello al «morire con dignità umana e cristiana», sottolinea che «l’uomo è uomo anche di fronte alla morte e nella morte stessa: questa da evento inevitabile è chiamata a divenire per l’uomo un fatto personale, da assumere e da vivere (vivere la morte!) da uomo, ossia coscientemente e liberamente, dunque responsabilmente. In questo senso, morire con dignità umana significa affrontare la morte con serenità e coraggio».
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