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Le Coop non pagano
le tasse? Veramente
ne pagano più degli altri

Ivano Barberini, presidente dell'Alleanza Cooperativa Internazionale e dell'Archivio Disarmo

diffusa l’idea che le cooperative non paghino le tasse. Rilanciata a ondate ricorrenti dal dibattito politico secondo precisi calcoli di convenienza, questa affermazione ha un’indubbia efficacia comunicativa perché semplifica e riassume fatti complessi con la forza di uno slogan. Ma è proprio vero che «le cooperative non pagano le tasse»? La loro imponente crescita negli ultimi sessanta anni è il prodotto di un trattamento fiscale di favore? La risposta è no. Lo stesso onorevole Giulio Tremonti affermò alcuni anni or sono che il trattamento fiscale riservato alle cooperative altro non era che la compensazione degli svantaggi che esse avevano nei confronti delle altre forme di impresa. Le cooperative hanno progressivamente visto erodere ogni vantaggio fiscale in varie occasioni, come, ad esempio, con l’introduzione dell’Irap. Inoltre è sorprendente che si continui ad affermare, da parte degli stessi esponenti di Governo, che «le cooperative non pagano le tasse» a poco più di due anni di distanza dalla entrata in vigore della normativa fiscale riguardante le cooperative, predisposta dallo stesso ministro Tremonti.

Dovrebbe ormai essere riconosciuto che la cooperazione è cresciuta in virtù di altri fattori: il senso di appartenenza e la volontà dei soci, un’elevata capacità imprenditoriale, la stabilità finanziaria assicurata dall’accumulazione indivisibile degli utili. Le cooperative hanno beneficiato poco o niente delle politiche assistenzialistiche che hanno caratterizzato per un lungo periodo la vicenda economica e sociale del nostro Paese. I guasti di quella politica pesano ancora gravemente sulla competitività del nostro sistema economico.

Nei casi in cui alcune cooperative, soprattutto nel settore agricolo, hanno confidato sul sostegno pubblico sottovalutando la necessità di divenire imprese efficienti, alla fine sono scomparse dal mercato. Le cooperative hanno lungamente dimostrato di agire nell’interesse del Paese e di meritare il riconoscimento contenuto nell’articolo 45 della Costituzione. Esse si sono rivelate capaci di risolvere autonomamente le proprie crisi e di rivitalizzare imprese ordinarie, come testimonia l’attività della Compagnia Finanziaria Industriale, gestita dalle Centrali cooperative insieme al Ministero delle Attività produttive.

Per questa via si sono salvati migliaia di posti di lavoro; si sono trasformati dipendenti in imprenditori di se stessi; si sono utilizzati in modo produttivo gli ammortizzatori sociali. Il riconoscimento costituzionale ha indubbiamente gettato le basi per un ambiente favorevole allo sviluppo della cooperazione «a base mutualistica e senza finalità di speculazione privata». Il patto sancito originariamente con la legge Basevi del 1947 si è realizzato, nei decenni successivi, attraverso il «sacrificio» congiunto del socio della cooperativa e dello Stato: il primo ha assunto un insieme di vincoli, il principale dei quali è la rinuncia, per sempre, al beneficio personale degli utili conseguiti dalla cooperativa; il secondo ha moderato la pressione fiscale esonerando gli utili destinati a riserva indivisibile. In caso di scioglimento o di trasformazione in società ordinaria, la cooperativa ha l’obbligo di devolvere l’intero patrimonio sociale al fondo mutualistico nazionale per la promozione di nuove imprese cooperative.

Anche l’erogazione di dividendi ai soci sulla base della loro quota sociale e il ristorno ai soci stessi calcolato in base allo «scambio mutualistico», che costituisce l’essenza del patto associativo, sono soggetti a precisi limiti. La mutualità cooperativa presenta caratteri multiformi ed evolutivi. In Italia essa si è affermata come mutualità interna (servizio ai soci, tutela del potere di acquisto o tutela del lavoro ecc.) e mutualità esterna, vale a dire l’estensione ai non soci del vantaggio mutualistico accennato. Una variante della mutualità esterna è la mutualità di sistema che ha dato origine appunto al fondo per la promozione cooperativa.

La riforma del diritto societario, approvata nel 2003, ha introdotto cambiamenti profondi, con la modifica dei parametri di valutazione dei requisiti mutualistici. La riforma ha disegnato un tronco normativo unico con due ramificazioni, differenziando le cooperative sulla base della «mutualità prevalente e non prevalente». La cooperativa è a mutualità prevalente quando la sua attività è prevalentemente costituita: dal servizio ai soci nel caso della cooperazione di consumatori; dal lavoro dei soci, nel caso delle cooperative di produzione lavoro; dall’utilizzo degli apporti di beni e servizi, nel caso di cooperative di conferimento. Le cooperative che sviluppano meno del 50 per cento della loro attività con i soci o verso i soci sono considerate «a mutualità non prevalente».

Il nuovo regime fiscale, connesso alla riforma, riduce significativamente ogni residuo beneficio rispetto alle altre forme di impresa, soprattutto per le cooperative a mutualità non prevalente. I calcoli presentati da due professioniste della società di certificazione contabile Uniaudit - Linda Fagioli e Silvia Fiesoli - in una recente giornata di studio promossa dall’Associazione Italiana Revisori Contabili dell’Economia Sociale (Airces), forniscono un quadro chiaro della nuova situazione.

Le cooperative a mutualità prevalente mantengono inalterati i criteri di distribuzione degli utili, destinati in larghissima misura a riserve indivisibili. In ogni caso esse devono assoggettare a tassazione una quota almeno pari al 30 per cento degli utili, anche se le componenti oggettivamente deducibili superano il 70 per cento. Fanno eccezione a questa norma le cooperative agricole e le banche di credito cooperativo alle quali si applica una tassazione più ridotta, e le cooperative sociali che beneficiano interamente dell’esenzione dalle imposte sugli utili conseguiti, destinati a riserva indivisibile.

Nel caso della cooperativa a mutualità non prevalente si possono avere due differenti situazioni. Un primo caso riguarda una cooperativa il cui statuto prevede l’indivisibilità della riserva legale costituita con il 30 per cento degli utili. Il residuo 70, detratto il 3 per cento destinato a fondo mutualistico, è assoggettato a tassazione. Il secondo caso riguarda una cooperativa a mutualità non prevalente, il cui statuto non preveda l’indivisibilità della riserva legale. In questo caso la quota tassata diviene pari al 97 per cento (detratto soltanto il 3 per cento a fondo mutualistico) con un’incidenza fiscale pressoché analoga a quella delle imprese ordinarie.

Se alla tassazione si aggiunge l’erogazione del 3 per cento degli utili al fondo mutualistico, che per la singola cooperativa equivale a una sorta di imposta aggiuntiva, essa supera di due punti quella dovuta dalle imprese non cooperative. È appena il caso di ricordare che le società ordinarie controllate da cooperative non beneficiano di alcun trattamento particolare. Il regime fiscale delle cooperative è, perciò, lungi dal rappresentare un reale vantaggio competitivo, soprattutto in presenza dei maggiori costi, oltre che dei vincoli, che la gestione mutualistica comporta. Una discussione seria e documentata su questi problemi può concorrere a sfatare luoghi comuni e a individuare le condizioni realmente efficaci per lo sviluppo della cooperazione.

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