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FRANCESCO VALLI:
fumo, vanno rivisti alcuni
standard irrealistici

L’ing. Francesco Valli,
amministratore delegato
della British American
Tobacco Italia

«Nel rispetto
degli standard qualitativi
dell’aria, vanno riviste
alcune norme
per contenere i costi
di adeguamento tramite incentivi ai pubblici
esercizi; comprendiamo
che non è il momento
migliore per discuterne,
ma il problema
va affrontato
per l’economia
delle aziende
e per consentire
al consumatore
una scelta autonoma»


iffuso lo scorso mese dal Ministero della Salute, il «bollettino di guerra» contro il fumo relativo al primo anno di divieto nei locali pubblici ha annunciato cifre apparentemente positive se non addirittura trionfalistiche, ma che a un attento esame suscitano non pochi dubbi. Il numero dei fumatori sarebbe diminuito di 500 mila unità; come si è giunti a questo dato? Forse dal quantitativo di sigarette in meno acquistate. Ma allora sono diminuiti i fumatori o le sigarette fumate? Altro dato dubbio: si sono ridotti del 7 per cento i ricoveri negli ospedali per infarto del miocardio; questo 7 per cento sarebbe scampato all’infarto solo perché in così breve tempo in ufficio, al ristorante, al cinema, non ha fumato né ha dovuto respirare il fumo degli altri?

Ma anche se fossero diminuiti gli infarti, perché non si calcola l’aumento di raffreddori, riniti, sinusiti, nevralgie, bronchiti e altri mali dell’apparato respiratorio provocati dagli impianti di condizionamento installati in molti locali proprio in seguito alla legge anti-fumo? Un ulteriore inquietante risultato è emerso dal primo bollettino di guerra: «Il fumatore-tipo è maschio e poco istruito; il consumo di sigarette diminuisce con il crescere del titolo di studio». Come dire che i fumatori, 11.221.000 in Italia, sono quasi tutti ignoranti, non hanno studiato o l’hanno fatto poco; tutti gli altri sono diplomati, laureati, professori, professionisti, dirigenti ecc. E poiché lo stesso vale per le donne, casalinghe, commesse, sarte, operaie e contadine fumerebbero molto di più di diplomate, laureate, manager, dirigenti, donne in carriera ecc.

Certamente una riduzione del consumo c’è stata, perché è vietato fumare in tanti luoghi pubblici, e verosimilmente se ne è avvantaggiata la salute dei fumatori, ma quali sono le prospettive per il futuro? Nugoli di fumatori dovranno continuare ad uscire dai ristoranti, magari al gelo, per fumare una sigaretta? O addirittura dovranno fermare la propria auto e uscire all’aperto per fumare una sigaretta? Perché alcuni pseudo-difensori dei consumatori, in cerca di adepti e di voti per le loro carriere politiche, chiedono al Parlamento di estendere alle auto private il divieto di fumo, perché a loro dire la sigaretta accesa durante la guida provocherebbe incidenti. E se a fumare fosse un passeggero, il fumo potrebbe indurre il guidatore ad avere un incidente?

Un’operazione che poteva essere valida, utile e anche necessaria per la salute e la tasca delle persone, si sta rivelando una beffa per tutti, fumatori e non fumatori. Anche per questi ultimi. Lo dimostriamo con questa intervista a Francesco Valli, amministratore delegato della British American Tobacco Italia, del Gruppo BAT, British American Tobacco, la società più internazionale del tabacco. Valli ha curato la riorganizzazione della filiale italiana e l’acquisizione dell’Ente Tabacchi Italiani da parte della stessa BAT. Nato a Cesena nel 1963, laureato in Ingegneria e in Filosofia, esperto in Marketing e Comunicazione, ha ricoperto ruoli di responsabilità in aziende internazionali di beni di largo consumo.

Domanda. Come giudica la legge?
Risposta. Lo spirito è giusto e noi l’abbiamo favorita, perché fu proprio l’industria a volerne intavolare l’esame con le istituzioni. A mio parere però, durante la sua definizione e soprattutto nei giorni immediatamente precedenti la sua entrata in vigore, le norme attuative sono sfuggite di mano. Lo spirito resta lo stesso, ma le norme sono diverse rispetto a quelle realistiche che dovevano esservi. Questo per vari aspetti. Il primo è puramente tecnico: un articolo impone l’esistenza di aree separate per fumatori e non fumatori, dotate le prime di sistemi di areazione che consentano un accettabile grado di purezza dell’aria; ebbene, gli standard di ventilazione imposti in Italia vanno dal doppio al quadruplo di quelli previsti da altre legislazioni europee. Questo appesantisce notevolmente i costi per adeguarsi alla legge e soprattutto limita le possibilità di riservare spazi a impianti di ventilazione.

D. Quali sono le conseguenze?
R. Molti esercizi pubblici, soprattutto nelle grandi città e nei centri storici, sono impossibilitati a realizzarli, anche in presenza di disponibilità finanziarie. L’area separata, inoltre, deve essere dotata di quattro pareti alte fino al soffitto, deve avere porte scorrevoli di un certo tipo: insomma una serie di elementi proibitivi sia per il costo sia per le condizioni strutturali. La legge era partita per consentire ai non fumatori di non respirare aria intrisa di fumo, e ai fumatori di esercitare in un locale pubblico il proprio diritto e la propria libertà di fumare. Ad oltre un anno dalla sua entrata in vigore il risultato è la proibizione totale nei locali pubblici, perché solo poco più dell’1 per cento di questi è riuscito ad adeguarsi. In Europa solo l’Irlanda ha una legislazione simile alla nostra; in quel Paese la proibizione del fumo nei locali pubblici è totale. Negli altri esistono legislazioni molto meno restrittive.

D. Che cosa avete fatto dinanzi a questa situazione?
R. In questi mesi abbiamo cercato, sia con le associazioni degli esercizi pubblici sia con le istituzioni, di chiarire lo spirito della legge; ritengo che si debbano rivedere alcuni standard applicativi irrealistici, anche per contenere i costi pur garantendo un’adeguata purezza dell’aria; e che occorra, come l’attuale ministro della Salute ha talvolta accennato, prevedere incentivi fiscali per i gestori di pubblici esercizi, che potrebbero attenuare l’onere da sostenere. Ammissioni in tal senso sono state fatte, ma ci rendiamo conto che non è il momento migliore per discuterne, per una serie di ragioni molto più generali. Però credo che il problema vada affrontato sia per l’economia delle aziende commerciali sia, soprattutto, per dare la possibilità al consumatore di compiere una scelta autonoma.

D. Che cosa avviene in altri Paesi?
R. In Spagna per ristoranti, bar e altri locali con superfici inferiori a certi limiti vige una deroga rispetto alla legge, perché sia strutturalmente sia economicamente sarebbe impossibile adeguarsi ad essa. Esistono casi nei quali una legge, varata con gli stessi scopi della nostra legge Sirchia, ammette deroghe per venire incontro alle caratteristiche strutturali e di economicità. A me sembra che quando fu varata la nostra, non esistesse la predisposizione a favore di deroghe; e nella fase di attuazione siamo arrivati a interpretazioni assurde secondo le quali non si può fumare, ad esempio, nello studio di un commercialista, anche se non ha alle proprie dipendenze neppure una segretaria, perché potrebbe ricevere visite da persone che non lo gradiscono; o in un androne condominiale, anche se tutti i condomini sono fumatori e si accordano per fumare; o in un club privé i cui soci siano tutti fumatori, perché magari il cameriere addetto al bar non fuma. Nel periodo dell’emanazione della legge, soprattutto da parte di chi gestiva il Ministero in quel momento, in ogni dibattito pubblico veniva ripetuto il fantasioso discorso sull’esistenza di una lobby del fumo, che invece non c’è.

D. Il suo Gruppo non è soddisfatto dell’acquisto compiuto?
R. Per venire ad operare in maniera competitiva in Italia il Gruppo che rappresento ha pagato 2 miliardi 300 milioni di euro ma, appena versato quell’importo allo Stato italiano e compiuto altri investimenti, in un anno e mezzo ha subito un aumento fiscale sulle accise che non si verificava da almeno 10-12 anni, poi la legge Sirchia, una delle più restrittive d’Europa. Nei rapporti con la Pubblica Amministrazione non troviamo interlocutori; quindi se esiste una lobby del tabacco non è tra le più efficaci.

D. Quali sono i risultati finanziari?
R. La legge è stata applicata in questo contesto, e questo spiega l’andamento dei primi tre mesi, gennaio, febbraio e marzo dello scorso anno, durante i quali il mercato ha reagito in maniera scomposta registrando un calo di vendite del 12-13 per cento. Negli ultimi mesi il calo si è attestato tra il 2 e il 4 per cento, con una media finale del 6 per cento, quella che ci aspettavamo. In un primo tempo, quindi, la contrazione è stata notevole, poi si è registrato un certo adeguamento.

D. Vi rendete conto però di creare anche qualche problema. Non dovreste collaborare nella tutela della salute pubblica?
R. Con il fumo è facile fare della demagogia, però ci si dimentica di una serie di dati. Il primo consiste nel fatto che le aziende produttrici di tabacco, nel caso particolare la nostra, da anni sono consapevoli di trattare un prodotto dannoso per la salute; questa caratteristica è largamente nota; noi la rammentiamo a chiare lettere anche sui pacchetti e abbiamo adeguato la nostra attività interna ed esterna a determinati codici di autoregolamentazione. Dobbiamo però far sì che il consumatore adulto, conscio dei rischi cui va incontro, abbia la possibilità di scegliere e di usufruire del nostro prodotto, e noi, finché vendere sigarette sarà un’attività legittima, il diritto di offrire i nostri prodotti, sia pure previa preventiva informazione.

D. Ritenete di essere un’azienda responsabile?
R. La nostra responsabilità sociale comincia dalla scelta dei nostri fornitori e dai rapporti con la tabacchicoltura. Vanno chiariti alcuni aspetti poco conosciuti, precisamente che siamo l’unica azienda a produrre tabacco in Italia e a comprarne di più sul mercato italiano e che il ruolo di questa industria è fondamentale dal punto di vista economico e sociale, perché in Italia si occupano di tabacco direttamente più di 150 mila persone e indirettamente quasi 300 mila; un numero non indifferente.

D. Che peso ha il tabacco per l’Italia?
R. L’Italia è il maggior produttore di tabacco da foglia europeo, il quinto esportatore nel mondo in valore. In almeno due regioni, la Campania e l’Umbria, il prodotto interno è influenzato significativamente dalla sua raccolta. Le nostre manifatture, quattro di sigarette e due di sigari, impiegano quasi duemila persone nella produzione di sigarette che vengono distribuite da 300 piccole aziende e da 58 mila tabaccai. Parliamo di importi finanziari e di occupazione significativi. A questo si aggiunge il gettito assicurato al Fisco, che nel 2005 ha superato gli 11,5 miliardi di euro. Se assommiamo tutto, vediamo che il settore contribuisce all’incirca tra l’1,5 e l’1,7 al prodotto interno lordo italiano.

D. Qual è l’impegno del suo Gruppo?
R. Stiamo facendo il possibile per sostenere il settore e la libera scelta di chi vuole fumare. Abbiamo appena firmato lo scorso settembre con il Ministero dell’Agricoltura l’impegno ad acquistare nei prossimi cinque anni la maggioranza del tabacco italiano che a noi servirà per le nostre sigarette, principalmente le MS, le quali, essendo costituite da miscele, contengono in misura preponderante tabacco appunto italiano. L’impegno prevede l’acquisto di un minimo di 42 mila tonnellate che potranno essere di più; questo dà sicurezza al settore, tanto più che i sussidi dell’Unione europea andranno a diminuire negli anni, e occorrerà tempo per riconvertire le colture. Abbiamo anche inaugurato a Fiumicino, per dare un buon esempio, la prima smoking lounge in un aeroporto italiano ed entro l’anno in corso ne inaugureremo altre due.

D. Che cosa chiedete ai governanti?
R. Senza derogare al principio che il fumo può causare danni alla salute, credo giunto il momento in cui le istituzioni e i politici debbano valutare le prospettive di questa industria. Non credo che esistano molte altre industrie italiane che abbiano un impatto sociale ed economico così significativo. Inoltre ci siamo impegnati non solo ad acquistare il tabacco, ma anche ad investire per stimolare la ricerca diretta a migliorarne la qualità. Ma nel momento successivo al nostro investimento in Italia, uno dei più alti compiuti da investitori stranieri, sono sorte le difficoltà; eppure negli accordi di acquisizione fatti con il Ministero dell’Economia una clausola ci ha imposto, in assenza di intese con i sindacati, di mantenere per tre anni i livelli occupazionali preesistenti.

D. Avete rispettato questo impegno?
R. Quando noi abbiamo ereditato le manifatture di sigarette, la Philip Morris, che impegnava nella produzione dei propri prodotti lo stabilimento di Bologna, ha deciso di recedere anticipatamente dal contratto lasciando senza lavoro 250 operai. Inoltre la capacità produttiva delle manifatture al momento supera probabilmente più di tre volte il nostro fabbisogno di prodotti italiani; nonostante questo abbiamo cominciato a fabbricare in Italia anche prodotti per il nostro mercato internazionale. Comunque il surplus della capacità produttiva rimane.

D. Non avete ridotto il personale?
R. Nel novembre 2004 annunciammo ai sindacati un piano di ristrutturazione che prevedeva la chiusura delle manifatture di Scafati e di Bologna; con due organizzazioni trovammo un accordo pressoché immediato a Natale del 2004, basato sul reimpiego di tutto il personale con le stesse protezioni sociali e gli stessi criteri retributivi, ad opera di imprenditori e amministratori locali cui cedevamo le due strutture per un importo poco più che simbolico. L’operazione non richiedeva interventi finanziari dello Stato, al contrario di quanto avviene solitamente in questo Paese. Lo scorso dicembre, con l’accordo di tutti e tre i sindacati e del Ministero, abbiamo risolto positivamente la situazione a Scafati, garantendo soluzioni occupazionali. Per quanto riguarda Bologna invece, auspico che, sulla base di una nuova soluzione prospettata e attualmente in discussione, si trovi presto l’accordo, naturalmente sempre tutelando l’occupazione.

D. Quale giudizio dà sulla vicenda?
R. Non credo che essa costituisca un buon segnale per altre aziende straniere che volessero investire in Italia. Se si tengono presenti i provvedimenti legislativi adottati dopo la nostra acquisizione, la difficoltà di dialogare con le istituzioni, la storia travagliata della nostra ristrutturazione industriale, inevitabile ma fatta con tutta la responsabilità possibile, senza la perdita di un solo posto di lavoro e con tante risorse messe a disposizione, non credo che altre multinazionali straniere siano così invogliate a investire in Italia.

D. Come intendete collaborare con le autorità italiane?
R. Abbiamo dimostrato la nostra responsabilità sociale anche nel rapporto con la distribuzione delle sigarette, perché siamo stati i primi ad aver siglato un accordo con l’Amministrazione dei Monopoli di Stato per la lotta contro il contrabbando e contro la contraffazione, problemi annosi nel nostro settore. Nel giugno 2004 abbiamo organizzato un grande convegno con l’intervento dei responsabili politici e della Guardia di Finanza per esaminare insieme come agire; nello stesso mese abbiamo siglato un’intesa con il Monopolio per difendere il nostro marchio ma soprattutto per far sì che il consumatore abbia sempre marchi di qualità e che l’Erario non sia frodato. Ma la nostra responsabilità sociale va al di là di questo; nei primi mesi del 2004 il management italiano dell’azienda ha deciso di dar vita a una fondazione di impresa di utilità sociale, Operandi, la prima in Europa nel settore.

D. Quale scopo ha questa vostra nuova iniziativa?
R. Nel marzo 2005 essa ha ottenuto lo stato di onlus e ora si occupa di tre settori specifici: sociale, culturale e ambientale. Si parla molto di responsabilità sociale e di non-profit, ma in Italia siamo a livello embrionale, per cui abbiamo creato, insieme all’Università Cattolica di Milano, il primo Osservatorio nazionale sulla responsabilità sociale d’impresa. Pubblicandone i risultati cerchiamo di far conoscere sempre più le aziende italiane. Abbiamo stretto un accordo con l’Anffas che si occupa dei disabili intellettivi e relazionali quando rimangono soli perché i loro genitori invecchiano o vengono a mancare. L’Anffas costruisce residenze e offre volontari specializzati per affrontare questo problema che riguarda più di due milioni di famiglie in Italia. Noi lavoriamo con l’Anffas da oltre un anno, abbiamo ristrutturato una residenza a Roma sulla Via Aurelia Antica, che ospita di giorno fino a 100 ragazzi, di notte 30; lo scorso Natale abbiamo avviato una raccolta di fondi per costruire altre residenze e chi volesse essere informato sulla campagna «Una famiglia sola non basta» può contattare il numero telefonico 06/ 5287.7434; l’iniziativa, rivolta ai nostri fornitori, ai dipendenti e a chiunque lo desideri, culminerà in giugno con le Olimpiadi dei disabili. Operandi ha l’obiettivo di restituire alle comunità nelle quali operiamo parte dei benefici che queste ci danno lavorando per noi, producendo e vendendo i nostri prodotti.

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