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UN PICCOLO MUSEO PER DUE GRANDI ITALIANI: MEUCCI E GARIBALDI

di Romina Ciuffa

ovrai accettare compromessi e umiliazioni. Dovrai pronunciare perfettamente una parola. Nessuno attenderà che tu finisca la frase se non sai bene l’americano. Non potrai farti valere. Dovrai essere aggressivo. Dovrai eludere i comandamenti. Dovrai farti scivolare addosso i dolori. Dovrai parlare appropriatamente nelle sedi giuste. Dovrai sentirti piccolo. Dovrai parlare di soldi. Dovrai fingere. Ti spiegheranno come funziona un computer e, se ti daranno la parola, tu a malapena riuscirai a renderli partecipi del fatto che in Europa non solo la luce e i computer sono arrivati, ma ad inventare il telefono è stato il fiorentino Antonio Meucci, che proprio a New York morì in povertà, nel 1889.

A 41 anni, all’Havana, quest’uomo infilò un tetrodo di rame nella bocca di un malato e gli lasciò l’altro nella mano. Quindi andò nella stanza vicina e attaccò i fili, uno all’apparecchio per l’elettroimpulso e l’altro sulla propria lingua. Giù la levetta. Il malato saltò sulla sedia; malgrado la distanza Meucci sentì sulla propria lingua le parole che l’altro diceva. E la fisiofonia divenne l’idea della sua vita: trasmettere la voce con un filo. Seguirono altri esperimenti, coi più teneri fili di rame e un cono di cartone e fiumi di denari spesi, finché un incendio non ridusse in cenere il suo teatro cubano e lo costrinse ad emigrare a New York.

Quando Giuseppe Garibaldi vi arrivò nel 1850, un anno dopo la caduta della Repubblica Romana e la morte di Anita a Comacchio, Antonio Meucci lo accolse e con lui intraprese un’attività capace di dar lavoro al massimo numero possibile di esuli italiani disoccupati; insieme trovarono una sistemazione in campagna, dove si potesse vivere con poco e non si fosse distratti dalla vita convulsa della città. Max Maretzek, amico del tenore Salvi, trovò la soluzione ideale: una casetta in campagna, denominata Forest Cottage, a Clifton, nell’isola di Staten Island. Nel terreno circostante venne costruita una fabbrica concepita da Meucci e destinata a produrre candele con una tecnica messa a punto da lui stesso. Il tenore Salvi venne convinto a mettere il capitale necesario per il terreno e l’edificio della fabbrica.

In quella stessa casa Meucci allestì un collegamento permanente, primo prototipo di telefono, tra il laboratorio nello scantinato e la stanza della moglie, che soffriva di un’artrite deformante, al secondo piano. Ma non poté commercializzare l’invenzione, pur avendone fornita una dimostrazione nel 1860 e avendola pubblicata sul giornale italiano di New York, e pur avendo ottenuto, nel 1871, un «caveat», documento a buon mercato che la descriveva e ne fissava la priorità. La povertà e la scarsa conoscenza dell’inglese e del mondo degli affari impedirono all’inventore, che viveva ormai dell’assistenza sociale, di finanziare il processo del brevetto.

Nel 1874 affidò i nuovi prototipi al vicepresidente della Western Union, società dei telegrafi, che in seguito disse di averli persi rifiutandogli il finanziamento per rinnovare la notifica nel 1874, e attribuì l’invenzione ad Alexander Graham Bell, che aveva lavorato sui prototipi di Meucci. Il 10 novembre 1885 la Compagnia Bell citò in giudizio Meucci dinanzi alla Corte distrettuale di New York per infrazione di brevetto; il Governo degli Stati Uniti avviò una serie di udienze pubbliche presso il Ministero degli Interni, presieduto da Lucius Q. C. Lamar, per accertare la fondatezza delle varie petizioni che chiedevano l’annullamento dei brevetti Bell, raccogliendo prove sufficienti in favore della priorità dell’italiano.

Lamar raccomandò al Procuratore generale ad interim, John Goode, di avviare un’azione legale, a nome del Governo degli Stati Uniti, per chiedere l’annullamento dei brevetti Bell. Il 13 gennaio 1887 il Governo degli Stati Uniti citò in giudizio la Compagnia Bell, che intanto otteneva dalla Corte distrettuale di New York una vittoria locale sulla Globe Telephone e su Meucci, con la sentenza del giudice William J. Wallace emessa il 19 luglio 1887, secondo cui Meucci avrebbe realizzato telefoni meccanici e non elettrici. Non fu sufficiente il dispositivo della sentenza emessa dalla Corte Suprema di Washington D.C. il 12 novembre 1888, con cui il giudice William H. H. Miller ammetteva: «Bell fu anticipato nella sua scoperta di un telegrafo parlante elettrico da Philip Reis, Cromwell Fleetwood Varley, Antonio Meucci, Elisha Gray, Thomas A. Edison, Ashael K. Eaton, e da molti altri».

Meucci morì il 18 ottobre 1889 nella propria casa di Clifton e il brevetto Bell, che scadeva nel 1893, non fu più contestato. Il processo Stati Uniti contro Bell fu chiuso nel 1897 per evitare al Governo degli Stati Uniti di aumentare ulteriormente gli enormi costi. Solo tre anni fa la Camera di Washington ha riconosciuto per acclamazione la titolarità del brevetto a favore di Antonio Meucci. In Italia, invero, una disputa è ancora accesa: fin dal 1849 il valdostano Innocenzo Manzetti avrebbe approntato un rudimentale apparecchio che poi perfezionò e presentò alla stampa nell’estate del 1865, sei anni prima del caveat di Meucci e 11 anni prima del brevetto Bell.

Si è detto che, mentre Meucci per parlare doveva tenere stretta fra i denti una lamina, Manzetti discorreva liberamente da una cornetta. Lo stesso Meucci, relativamente a tale invenzione, scrisse a un giornale newyorkese: «Io non posso negare al signor Manzetti la sua invenzione», e descrisse un proprio telefono che era meno perfezionato e qualitativamente inferiore a quello inventato ad Aosta. Si rimane sempre in territorio italiano.

Per Garibaldi, Meucci era un genio ma anche un gran brav’uomo, perciò morì poverissimo e in un mondo che non era il suo. Bell invece, a casa propria, fece il gioco del più forte e lo vinse. Secondo Emily Gear, giovane direttrice del Museo Garibaldi-Meucci di Staten Island, la saga dell’inventore fiorentino, arrivato a New York da emigrante senza conoscere una parola di inglese, rispecchia il dramma di tanti immigranti, ancora oggi discriminati e condannati al fallimento per non essere in grado di parlare la lingua del Paese che li ospita.

Emily Gear ha rilanciato il piccolo museo, da un secolo dedicato ai due personaggi che divennero intimi amici a Long Island dove anche Giuseppe Garibaldi, da lei definito «il George Washington italiano», visse un paio d’anni lavorando nella fabbrica di candele di Meucci. Il museo della Gear si prefigge di diventare il trampolino di lancio per la diffusione della lingua e della cultura italiana; esso è testimone della presenza degli italiani nella New York ottocentesca, conserva la camicia rossa indossata da Giuseppe Garibaldi durante la difesa di Roma nel 1849 ed espone il telettrofono di Meucci sperimentato nel 1849, quando Bell aveva appena due anni.

Scriveva Meucci al fratello, il 15 aprile 1863: «Sarete sempre poveri nelle vostre Speculazioni per voialtri, e sempre in mano di Stranieri, che fanno le speculazioni per voialtri; è proprio una vergogna! Dov’è la vostra libertà? Unitevi alle arti e al commercio, e sarete felici: niente manca alla Italia; mi dispiace che sono vecchio». E a Garibaldi, il 26 dicembre 1859: «Spero in un Dio che vi terrà tutti in salute acciocché al vostro desiderato intento per compire la Unione della bella Italia, Amico Generale, altro non desidero. La mia disgrazia, ossia quella di noialtri Italiani, è di essere in mano di Stranieri nel novo e vecchio mondo; io mi sono ridotto a lavorare come un garzone a 15 dollari alla settimana, vergogna per me, ma la mia situazione presente mi obbliga a questo».

All’amico Paladini di Lucca, pochi mesi prima di morire, scriveva: «Quantunque io manchi dall’Italia dal ‘35 in poi, mi è più cara la fama in patria che il successo fuori. A 82 anni, come spero e ti auguro cordialmente imparerai, i milioni dell’Usurpatore Bell non mi possono più solleticare, e non li desidero. Solo mi fa male il pensare che ladri del genio altrui vedono il nome loro portato sugli scudi da popoli che nel penoso arrabattarsi d’ogni giorno non hanno tempo di riconoscere chi pel popolo lavorò amandolo. Così vanno, del resto, quasi sempre le cose del mondo, né io me ne lamento. Sarebbe troppo tardi. La gran ventura di avere avuto l’amicizia di Garibaldi mi basta e la fortuna di vedere l’Italia - per cui nel ‘33 e ‘34 feci molti mesi di prigione con Guerrazzi - libera con Umberto, così umano e civile dopo Vittorio, che Garibaldi nel ‘51 mi dipingeva come Soldato di fegato e Italiano nell’anima». Una storia semplice, un uomo che ha cambiato le sorti della storia, un immigrato qualunque, un soldato di fegato e italiano nell’anima come tanti ce ne sono, oggi, a New York.
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