"VOGLIO UNA VITA SPERICOLATA, PIENA
DI GUAI"
di
Giorgio Fozzati

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a droga è sparita dalle cronache, se ne parla poco e solo a corollario di altri titoli, come la difficile situazione delle carceri piene di spacciatori. I servizi sui morti da droga, così devastanti nei telegiornali degli anni 80, sono un ricordo in bianco e nero. Le retate per catturare gli spacciatori, i grandi carichi sequestrati sulle navi, le analisi di mercato sui miliardi del narco-traffico: tutto è svanito, solo ogni tanto un accenno, quasi di routine, un paio di mezze colonne sui quotidiani. Forse è l’effetto delle leggi permissive, introdotte anche nel nostro ordinamento.
E la bugia della modica quantità va a braccetto con l’altra menzogna sul «comune senso del pudore», offeso e vilipeso. Ci inganniamo non guardando e, vedendo, non vogliamo capire. Pensiamo, come i bambini, che sia sufficiente nascondere il vetro rotto del bicchiere sotto il tappeto, perché il bicchiere non sia più rotto. Ci dava fastidio sentir parlare così tanto di droga e siamo stati accontentati: silenzio stampa. A lavorare come disperati nelle comunità di recupero sono rimasti in tanti, ma sempre insufficienti, con uno Stato miope che non aiuta nemmeno, per esempio, con una legge che premi le donazioni agli enti no profit.
Vasco Rossi cantava «Voglio una vita spericolata, piena di guai»: detto fatto, basta leggere le statistiche dei morti per ectasy, per incidenti stradali notturni al rientro dalle discoteche dove si continuano a consumare cocktails micidiali. Ma il problema, invece, sembra essere l’orario di chiusura. E Vasco Rossi, in buona compagnia, pontifica dai giornali e continua a vendere le proprie ricette di morte, ben intonate.
Un povero commissario di Polizia mi confidava che, dietro a questi delitti aberranti di figli che ammazzano i genitori e i fratellini, e di genitori che ammazzano i figli, c’è tanta droga che ha consunto i cervelli e le anime. Ma il problema sembra essere il disagio, e così tutto diventa inspiegabile. Di droga e dei suoi effetti non si deve più parlare, ordini di scuderia. Viviamo in un’epoca nella quale il desiderio e il sogno non conoscono più l’attesa: voglio e realizzo, subito, tutto, non m’importa il prezzo che devo pagare.
Se chiamo al telefono voglio trovarti dovunque tu sia, qualsiasi cosa tu stia facendo: mi infastidisce che tu non abbia il telefonino. Non so più aspettare: le ciliege le voglio a Natale e le arance ad agosto. Quando maturano i pomodori? Non ci sono più le stagioni perché le abbiamo cancellate dal calendario. E quando non riesco ad avere ciò che voglio mi drogo: mi illudo di vivere in un altro mondo, provo sensazioni che mi appagano. E anche la droga deve essere pronta all’uso, eliminata anche la siringa e il cucchiaino da caffè. Il giornale non lo leggo, lo sfoglio: non ho tempo, mi fermo ai titoli, non approfondisco. Preferisco rimanere in un nirvana intellettuale di chi sa tutto senza conoscere niente: parlo per sentito dire, ripeto clichè, mi infastidisco quando incontro qualcuno che mi contraddice o mi coglie in contraddizione. Leggo solo quello che leggono tutti, vado al mare dove vanno tutti, mi incolonno in autostrada sapendo che trascorrerò ore in coda. Sono supino suddito dell’automobile.
Mi drogo con le medicine perché non sopporto il dolore. Ci sono persone che per un banale mal di testa prendono bustine di Aulin come se fosse zucchero in polvere. Detesto la decadenza del mio corpo, la mia apparenza; ho bisogno del consenso di chi mi sta accanto per sopravvivere. È il senso della vita, della mia vita, che si è appannato: chi sono, da dove vengo, dove vado?
Accetto che di me, del mio essere umano, la «scienza» dica che derivo da una grumo di cellule. Accetto che, come nel gioco delle tre carte, mi sfilino sotto il naso i concetti di individuo, persona, vita, morte. Accetto che vengano cambiate le leggi di natura, sovvertendone l’ordine in nome del progresso scientifico. Accetto che i medici non curino più, ammazzino. Accetto ormai che chiunque dica di me, del mio popolo, della mia nazione, della mia storia, tutto e il contrario di tutto: mi hanno tagliato le radici da sotto i piedi e non protesto. Accetto che non ci sia futuro, che tutto sia solo e immediatamente presente. Così l’amore si trasforma negli amori, l’amicizia è temporanea, dura la fermata di un tram. Vivo una vita provvisoria. La droga mi ha ucciso l’anima. Condurre una «vita normale» non basta più: oggi bisogna irrobustirsi con un atletico altruismo a tutto campo.
Non si può continuare a vivere la vita come una partita di tennis da fondo campo, a palleggiare: bisogna fare partita. Ritroviamo la pace e l’armonia quando riusciamo a cambiare i parametri: la malattia diventa occasione per curare; la povertà è il distacco dai beni materiali e accessori; i miei interessi convergono con quelli degli altri: prevale il win to win, che vinca almeno la reciprocità. Quando viviamo una vita di interesse per chi ci sta accanto, di servizio, di verità nell’amicizia e di fedeltà nell’amore; quando riusciamo a mettere il mondo così, sottosopra, allora i conti tornano con il sorriso sulle labbra e la pace nel cuore. |