Cesare De Piccoli:
riforme da aggiornare,
non da annullare
L'on. Cesare De Piccoli, responsabile del Settore Imprese e Infrastrutture della Segreteria nazionale DS

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l ripensamento sulle prospettive dell’Unione europea messo in atto dalla mancata accettazione della nuova Costituzione europea sancita dai referendum svoltisi in Francia e in Olanda ha portato allo scoperto perplessità, dubbi e contrarietà in atto da tempo anche in Italia su una serie di vincoli, obblighi e direttive imposte dalla partecipazione ad essa all’economia in generale, ai consumatori, alle famiglie, al settore produttivo. Un malcontento diffuso che non ha esitato a manifestarsi in forma anche clamorosa, addirittura con la proposta avanzata dalla Lega Nord di abbandonare l’euro e di tornare alla lira.
Ma sotto esame non sono soltanto gli obblighi, particolarmente gravosi per il Meridione, imposti dall’Unione europea: vengono sempre più insistentemente alla ribalta le conseguenze negative e comunque indesiderate delle riforme introdotte in Italia a partire dal 1992: privatizzazioni di aziende pubbliche, sistema elettorale maggioritario, ordinamento della Pubblica Amministrazione ecc. A una dozzina di anni di distanza dalla fine della prima Repubblica si giustifica un bilancio dei miglioramenti ottenuti, delle promesse non realizzate, degli svantaggi insorti; e quindi uno sguardo alle prospettive e alle correzioni necessarie. Non una controriforma ma certamente un aggiornamento e un superamento della sfiducia crescente. Fa il punto sulla situazione e sulle prospettive l’on. Cesare De Piccoli, sottosegretario all’Industria nel II Governo Amato, attualmente responsabile del Settore Imprese e Infrastrutture della Segreteria nazionale dei Democratici di Sinistra.
Domanda. A una dozzina di anni dalla fine della cosiddetta prima Repubblica quale giudizio se ne può dare? Che cosa si può salvare?
Risposta. A volte uso questo paragone: un conto è considerare tutta la storia dell’Impero Romano o della Repubblica di Venezia, un conto giudicare solo la loro ultima fase, quella della decadenza. Così per la prima Repubblica: un conto è giudicarla nel complesso storico-politico dal 1946 in poi, un altro considerare solo la fase degenerativa di tangentopoli. Lo stesso per quanto riguarda i manager delle Partecipazioni statali: se esprimiamo un giudizio su che cosa quel sistema ha rappresentato e realizzato, a cominciare dalla ricostruzione del Paese, quindi su cosa hanno fatto quei manager e sulla cultura strategica che avevano, esso non può non essere positivo; se però li vediamo nell’ultimo periodo, dobbiamo dire che molti di loro hanno contribuito ad affossare l’industria di Stato.
D. Però si comincia a sentirne la mancanza, e sempre più spesso a rimpiangerli. Per quali motivi?
R. Perché il processo di globalizzazione costringe gli operatori economici a possedere una cultura strategica, a conoscere gli elementi essenziali della geopolitica; da questo punto di vista c’è bisogno di una cultura che definisco, appunto, strategica. Un manager delle scomparse Partecipazioni statali faceva parte di una grande impresa, spesso di dimensioni internazionali; dobbiamo giudicarlo anche in relazione al sistema politico nel quale si trovava ad operare, caratterizzato da una commistione tra i ruoli che è andata degenerando. Non vanno quindi aprioristicamente attribuite responsabilità ai manager, va prima stabilito se il loro operato sia stato causa o effetto della degenerazione intervenuta.
D. Non erano i politici che sceglievano i manager? Come si nominano adesso?
R. Certamente erano i politici, ma molte volte i manager finivano per accumulare tanto potere da superarli. Si creavano le cosiddette aree grigie. Quel sistema è finito ma oggi abbiamo un altro punto debole, costituito non solo da un’insufficiente preparazione della classe politica e amministrativa, ma da una carenza di dirigenti e di imprenditori. Come ignorare le lacune esistenti nello stesso imprenditorialismo privato? Il capitalismo privato è entrato in una fase di crisi, questo non significa che manchino elementi validi, di spicco; lo dimostrano operazioni come il recentissimo acquisto della Hypovereinsbank, la seconda banca tedesca, da parte dell’Unicredit.
D. Sono di più gli acquisti di aziende italiane da parte straniera; perché?
R. In tutti questi anni ci siamo un po’ troppo cullati nell’illusione che alla crisi della grande impresa dovuta al superamento del sistema delle partecipazioni statali si potesse ovviare con l’applicazione di un liberismo nostrano, un po’ casareccio, «fai da te». Questa formula poteva funzionare in un mercato protetto, con il puntuale ricorso, in caso di difficoltà economiche, alle svalutazioni della lira dirette a ripristinare la competitività dei nostri prodotti nei mercati esteri. Ma in un’epoca in cui la globalizzazione avanza e incombono colossi mondiali come la Cina, le aziende sono obbligate a compiere un salto dimensionale per superare la crisi e sopravvivere, e il management deve avere una cultura strategica e addirittura geopolitica per poter operare nei mercati mondiali.
D. Ma in quale maniera si può diffondere questa cultura?
R. Intanto bisogna creare l’ambiente nel quale possano formarsi nuovi manager, nuovi capitani coraggiosi. Ma se un Paese perde di vista la politica industriale, se smarrisce i propri asset, ossia i valori fondamentali per il proprio sviluppo, non costruisce un ambiente favorevole. Se invece esso si pone l’obiettivo non soltanto di contenere il costo del lavoro ma di riguadagnare la competitività, se si ricrea quei requisiti che hanno caratterizzato il Sistema Italia, può riconquistare in campo industriale le posizioni che aveva un tempo raggiunto.
D. Perché siamo arrivati all’attuale difficile situazione?
R. Per un’insufficiente capacità dell’attuale Governo e perché sono venuti al pettine vecchi problemi, alcuni risalenti addirittura alla crisi petrolifera degli anni 70; deficienze strutturali presenti da decenni nella storia del Paese. Bisogna ricostruire l’ambiente adatto allo sviluppo. È la stessa constatazione fatta in questi giorni dal nuovo presidente della Confindustria Luca di Montezemolo che sollecita un nuovo corso, ma anche dal sistema politico: molti partiti, compreso il mio, pongono al centro dell’attenzione il problema del recupero della competitività.
D. Che cosa occorre fare per ricreare la managerialità di un tempo?
R. Credo che un impulso importante debba venire anche dal mondo universitario con progetti di rinnovamento. Se la formazione e la conoscenza sono fattori fondamentali dello sviluppo, non possiamo continuare ad avere istituzioni accademiche avulse dalla realtà, dobbiamo mettere i risultati della ricerca in rete, a disposizione dell’apparato produttivo. Se creiamo obiettivi di interesse comune, nella nuova temperie culturale così realizzata possiamo innestare una scala di valori. Ma proprio per fare questo sorgono alcuni problemi.
D. Può fare esempi pratici?
R. Quando si propone, ad esempio, di uscire dall’Unione monetaria europea e di tornare alla lira, si sa già che questo non è possibile, ma il solo fatto di introdurre tale idea nel dibattito e di diffonderla rischia di demotivare l’azione politica diretta al superamento delle difficoltà. L’introduzione dell’euro ha avuto effetti positivi per esempio sul debito pubblico e sui tassi di interesse, mentre ha avuto conseguenze più critiche per i cittadini e per il sistema produttivo; l’aumento dei prezzi e lo sfavorevole cambio con il dollaro, non sono state certamente indolori, ma un conto è affrontare i problemi che la moneta unica ha determinato, un altro è tornare indietro: sono due obiettivi ben diversi.
D. Allora bisogna andare avanti nonostante i risultati negativi?
R. Occorre ricostruire un ambiente favorevole allo sviluppo. Se si ammette che i problemi sono posti oggi dalla globalizzazione dell’economia, non si può non riconoscere che l’Europa sia una necessità. Se non ci piace quella attuale, dobbiamo dire quale desideriamo, ma non possiamo tornare all’Italietta di un tempo; un conto è il manager che si forma nella cultura della lira riesumata e delle nicchie di mercato, un altro è quello che si forma nella sfida, nell’aggiornamento del nostro sistema industriale in parte spiazzato dall’industria manifatturiera cinese, e nella convinzione che l’Italia deve avere nuovi campioni industriali. La Cina, anzi, può costituire uno stimolo. In un recente convegno sull’economia marittima è emerso un aspetto interessante: mentre la Cina costituisce una seria concorrenza per il nostro sistema produttivo manifatturiero, ci offre nello stesso tempo opportunità straordinarie nel settore degli scambi commerciali, perché per arrivare a 500 milioni di europei gran parte dei suoi prodotti dovranno percorrere una strada obbligata, il Mediterraneo, che io definisco la via della seta del XXI secolo. Perché tutte le rotte intercontinentali tra la Cina e l’Europa dovranno attraversare Suez e il Mediterraneo, e da questo deriverà il ruolo strategico dell’Italia.
D. Dalla concorrenza della Cina avremo un vantaggio anziché un danno?
R. La globalizzazione non è mai a senso unico: penalizza ma crea anche opportunità. Una dirigenza illuminata deve essere capace di individuare in quale campo si rischia di perdere la partita e e si deve pertanto assumere un atteggiamento difensivo anche in riferimento alla politica sociale da attuare, perché non è detto che solo alcune categorie debbano essere colpite dai nuovi fenomeni; se una fabbrica italiana si trasferisce all’estero, perché devono essere i suoi operai a farne le spese? Vanno tutelati con un’adeguata politica di ammortizzatori sociali. Ma dove emergono nuove opportunità, occorre sfruttarle a fondo.
D. Quali sono questi campi?
R. Uno è il settore marittimo-portuale, un altro il turismo: è inconcepibile che l’Italia perda colpi in questo campo. Dobbiamo adeguare le strutture ricettive, adottare tariffe competitive rispetto alla Spagna, valorizzare il paesaggio e le città d’arte, sviluppare la predisposizione ad ospitare il turista, curare quanto la natura ci ha dato e i nostri antenati hanno costruito. Inoltre occorre porre persone valide nei posti di responsabilità; non ci si può occupare insieme del turismo e dell’industria, oggi si richiedono conoscenze, specializzazioni, capacità anche personali, soggettive.
D. Si riferisce ai Ministeri?
R. In alcuni di essi gli errori si sono sovrapposti: la loro guida è stata affidata a persone stimabili ma ignare dei problemi; e con una strumentale applicazione dello spoil system è stata decapitata la struttura dirigente. Oltreché bravi manager nelle aziende, è necessario formare una burocrazia di alto livello. Spesso invece si pensa di risolvere il problema copiando sistemi in vigore in altri Paesi, dando luogo a soluzioni ibride. Come è avvenuto per la riforma elettorale che ha creato un sistema in parte maggioritario e in parte proporzionale, abbiamo mutuato lo spoil system dagli americani innestandolo in una cultura di continuità della nostra Pubblica Amministrazione; se nel sistema americano funziona, in quello statuale sabaudo-borbonico italiano non ha dato grandi risultati; anzi, ha eliminato un patrimonio di conoscenze e di esperienze causando un danno alla struttura.
D. Non si possono eliminare almeno i punti negativi?
R. Un eventuale ripensamento dovrebbe essere frutto di un accordo bipartisan. Purtroppo il sistema maggioritario spinge la maggioranza verso soluzioni adottate unilateralmente; se poi queste si rivelano inadatte, non può pretendere che la minoranza collabori alla loro correzione. È un errore, perché non dovrebbe esistere una contrapposizione frontale su tutto, anche su obiettivi e valori comuni. Avendo superato le vecchie logiche di schieramento ideologiche, sarebbe auspicabile una collaborazione su soluzioni condivise. In Italia è stato praticato il consociativismo tra maggioranza e opposizione addirittura quando tra i due schieramenti era in atto una lotta frontale.
D. È diverso dal consociativismo lo spirito bipartisan?
R. Essere bipartisan significa riconoscere il ruolo e la responsabilità che compete a chi governa, e quello altrettanto importante di controllo e di contestazione a chi è all’opposizione. Questo sistema sarebbe ancor più necessario in un momento in cui l’Italia deve confrontarsi, sul piano esterno, con la concorrenza cinese nei mercati internazionali. Non dovremmo bruciare le nostre energie in contrapposizioni interne. Oltre che per le imprese manifatturiere, la concorrenza cinese è un problema per la nostra politica estera. Nel sistema bipartisan si riconoscono i ruoli diversi, ma nello stesso tempo si concordano alcune soluzioni.
D. Come e dove incominciare?
R. Abbiamo in programma un grande convegno sull’energia; accettiamo la proposta di un dibattito e di una ricerca di soluzioni bipartisan, trattandosi di politiche di lungo periodo che vanno oltre una legislatura. Ma non possiamo accettare la proposta di un altro referendum diretto alla riproposizione di centrali elettriche nucleari. Discutiamone, chiariamo che cosa significa, ma alla fine è chi governa che deve assumersi le responsabilità. Un accordo bipartisan presuppone uno spirito bipartisan, se questo manca, è difficile realizzarlo. Possiamo esprimere un giudizio positivo sull’operato di alcuni manager nominati da questo Governo, ma se esso compie scelte sbagliate è un altro discorso.
D. Non ritiene che la seconda Repubblica abbia deluso le aspettative?
R. Possiamo anche ammetterlo, ma non si correggono gli errori tornando alla prima, semmai preparandone una terza. Ma della prima non si possono cambiare i valori fondamentali e, della seconda, l’esperienza positiva di questi 10 anni. La logica di tagliare la storia con la cesoia non paga. In questi anni sono state varate leggi buone e altre pessime. Nel convegno sui porti, per esempio, gli operatori hanno giudicato ottima la legge 84 di riforma del settore; pertanto si sarà d’accordo nell’aggiornarla; altre, invece, sono proprio pessime leggi.
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