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Ivano Barberini, presidente dell'Alleanza Cooperativa Internazionale e dell'Archivio Disarmo |
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La grande crisi economica dei primi anni 90 è stata superata in virtù dell’accordo sindacale prima con il Governo Amato nel 1992, poi con il Governo Ciampi nel 1993, che ha retto per una decina di anni. L’abbandono della concertazione tra il Governo e le parti sociali non sembra la migliore delle politiche, di fronte a quella che Montezemolo ha definito «la più grave situazione economica dal dopoguerra». D’altronde le analisi e i giudizi convergenti sulla situazione economica italiana, espressi da quasi tutte le istituzioni competenti a livello nazionale, europeo e mondiale, forniscono un quadro ampio e preoccupante. Più che continuare a dividersi tra ottimisti e pessimisti, tra quanti minimizzano la crisi e quanti vedono un declino inarrestabile per il nostro Paese, è bene concentrarsi sulle cause, pensare ai rimedi e individuare i soggetti chiamati a realizzarli. Sono indispensabili idee e progetti che evitino un appiattimento attorno a una visione gestionale dell’esistente, un rischio più attuale che mai, che tende a ridurre il campo delle speranze per quanti non conoscono le regole del gioco o non sanno come attivarle. Oggi le persone e soprattutto i giovani non hanno il senso del futuro perché ne hanno paura, lo vivono come una minaccia, anziché come un possibile mondo migliore. E, come dice un antico adagio, un popolo che non ha «visione» è condannato al declino. Il vantaggio competitivo della Cina non è rappresentato solo dai fattori di costo e dalla vastità dei beni che produce ed esporta: conta molto, per rendere vitale il sistema, la diffusa convinzione che il Paese stia percorrendo la strada giusta verso il benessere. È la stessa motivazione che ha spinto, una cinquantina di anni fa, tanti operai italiani a diventare imprenditori. Erano dotati di scarsissime risorse ma avevano una meta da raggiungere e molta fiducia in se stessi. Le piccole imprese, quelle artigiane e cooperative, sono nate in quella situazione e con quella forte motivazione. Oggi sono circa 10-12 milioni le persone che lavorano in modo indipendente, e 10 milioni quelle che svolgono un lavoro dipendente. Non è sufficiente ribadire che l’Italia sarà sempre il Paese delle piccole imprese: occorre creare le condizioni perché esse possano sopravvivere e prosperare nella competizione globale, concorrendo, in tal modo, alla vitalità dell’economia. Lo sviluppo di reti di imprese e la costruzione di un efficace sistema-Paese rappresentano condizioni primarie per realizzare questi obiettivi. Vanno evitate le pericolose nostalgie di un passato durato troppo a lungo, di una politica economica basata sulla svalutazione. Ben prima dell’adozione dell’euro quella politica era divenuta impraticabile, mettendo in evidenza quanto illusoria fosse la solidità dell’economia italiana: il debito pubblico che essa ha contribuito a produrre rimarrà ancora per molti anni una pesante palla al piede del nostro sviluppo e un’eredità che nessun Governo può permettersi di ignorare. L’entrata nell’euro ha imposto una politica economica basata sul recupero di produttività: in sostanza una forte discontinuità favorita da una stabilità finanziaria derivante dalla nuova dimensione europea. Se è vero quanto scriveva Paul Kruman alcuni anni fa, cioè che la produttività è il fattore più importante di ogni economia nazionale, la situazione italiana appare decisamente grave. Negli ultimi cinque anni, dal 2000 al 2004, la produttività è diminuita di quasi un punto e mezzo, mentre in Germania è aumentata del 10 per cento e in Francia del 12: un divario che ha effetti negativi nella competizione globale e che prima o poi è destinato a produrre un più alto tasso di inflazione. Nel momento attuale il tasso di inflazione è rallentato dalla tendenza delle famiglie a limitare le spese in ogni settore dell’economia, in parte per contrazione del reddito e in parte per il tentativo di accrescere le loro riserve monetarie o patrimoniali. Accade però che la diminuzione della spesa finisca per provocare parallelamente la diminuzione del reddito, con gravi effetti sulla tenuta del tessuto produttivo e dell’occupazione. Sono tendenze destinate ad ampliare le distanze sociali e, di conseguenza, a intaccare la coesione sociale. Già ora risulta che il 10 per cento della popolazione detiene il 50 per cento della ricchezza nazionale. Perciò, guardando lucidamente e impietosamente i mali che affliggono il sistema economico, potremo scoprire che essi sono più seri di quanto i numeri esprimano. Le questioni sono tante e complesse, non risolvibili in tempi rapidi o con ricette miracolose. Il Paese ha un grande patrimonio di esperienze, di capacità umane e creative che devono essere valorizzate e attivate inquadrandole in una cornice progettuale e concentrando gli sforzi su poche ma innovative priorità. Il movimento cooperativo ha ampiamente dimostrato di essere parte di questo patrimonio, spendibile per ridare slancio all’economia, collocando lo sviluppo locale in un’ottica europea e globale e incoraggiando i giovani a intraprendere e progettare il loro futuro. |
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