LE RIFLESSIONI DI UN MANAGER
 
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LESSICO ESTIVO. ASSE DEL NORD, CONCERTAZIONE, INFORMAZIONE
di Paolo di Damasco



Le vacanze favoriscono la riflessione: ma possono farsi riflessioni sul mondo della politica? Purtroppo solo amare, a cominciare da quelle su Silvio Berlusconi, per poi esaminare il ruolo dei sindacati e finire con il comportamento della stampa

ozio estivo favorisce la riflessione, ma si possono fare riflessioni sul nostro mondo della politica? Purtroppo solo riflessioni amare, a cominciare proprio da quelle su Silvio Berlusconi. Questo personaggio, come si è detto altre volte, è stato creato dalla sinistra che per anni ha tentato, al limite della forza fisica, di distruggerlo e di estrometterlo definitivamente dalla politica. Contro di lui sono state invero scatenate violente campagne di stampa (capeggiate dal quotidiano La Repubblica che ospita gli scritti di giornalisti irrimediabilmente ossessionati dalla figura di Berlusconi); robusti movimenti di piazza e «girotondi» in grado di mobilitare anche le più estreme fasce della sinistra antagonista e antisistema; accanite e ripetute iniziative di carattere giudiziario (le aziende del Gruppo Fininvest sono state oggetto negli ultimi 10 anni di quasi 500 perquisizioni e di altri accessi per l’acquisizione di prove a carico); una continuata opera di delegittimazione e denigrazione compiuta persino nelle sedi istituzionali e in quelle internazionali. Tutta questa violenza aggressiva, organizzata e accolta di buon grado dalla sinistra, ha fallito perché l’elettorato nel 2001 ha votato a piene mani per Berlusconi, che è uscito da quegli scontri ingigantito, rafforzato e rinvigorito nelle proprie convinzioni.
La vittorie riportate hanno però consolidato in lui la convinzione di possedere virtù taumaturgiche, di potere solo con il suo intervento tutto sistemare e indirizzare per il meglio. In Berlusconi probabilmente è sempre esistito un certo «pregiudizio milanese» nei confronti degli altri italiani, e probabilmente si è sempre cullato nell’illusione che attraverso il metodo del «ghe pensi mi» potessero essere risolti molti problemi della politica. Purtroppo l’antico pregiudizio e l’orgoglio di avere superato sfide esiziali gli hanno impedito, anche in occasione della verifica di Governo dello scorso mese di luglio, di prendere atto delle insofferenze covate nel seno della coalizione e soprattutto del deterioramento del clima politico.
Berlusconi si è così rivelato per quello che probabilmente è: un leghista per mentalità e cultura. Sono stati infatti smentiti coloro che pensavano che il suo affiatamento con gli allora ministri Umberto Bossi e Giulio Tremonti fosse frutto di un’astuta scelta politica piuttosto che di un’affinità di pensiero politico. Questo «asse del Nord» - costituito sulla base di una profonda condivisione del modo di operare e di risolvere i problemi della società civile ed economica -, è stato frontalmente attaccato dagli alleati Gianfranco Fini e Marco Follini. Silvio Berlusconi ha stentato a lungo a riconoscere le nuove realtà all’interno della coalizione e, ritenendo sempre di possedere doti taumaturgiche, invece di tentare una mediazione di alto profilo si è avventurato a proclamare che avrebbe mantenuto l’interim dell’Economia fino alla fine del 2004, oppure a minacciare Follini, durante un’affollata riunione della maggioranza, di scatenargli contro le televisioni di Mediaset.
Riuscirà Berlusconi a cambiare, prima delle elezioni del 2006, questo suo animo leghista e a convincere del cambiamento stesso i propri alleati e, soprattutto, gli elettori? Forse potrebbe anche riuscirvi perché l’uomo è intelligente e furbo e perché possiede anche la forza d’animo e la tenacia per migliorare alcuni aspetti della propria personalità. A questo scopo gli alleati della coalizione sono stati finora di scarso aiuto. Oltre a rifuggire dal «vento» leghista, hanno fatto ben poco. Si sono, invece, intestarditi nel rifiuto di assumersi responsabilità di Governo al fine di raddrizzare la barca e darle una rotta di comune soddisfazione. Hanno così rivelato una caratura veramente modesta, sia come politici di rango sia come leader di Alleanza Nazionale e dell’Udc.
Quest’ultimo è solo un rappresentante di Pierferdinando Casini, che gli ha assegnato il compito di «tenere occupata» la Segreteria del partito? Oppure, più verosimilmente, il personaggio, pur essendo molto acuto e di buono spessore culturale, non si sente in grado di ricoprire un incarico operativo temendo di bruciarsi definitivamente? Comunque sia, tanto Gianfranco Fini quanto Marco Follini hanno profondamente deluso perché sembra abbiano dimenticato che in politica, oltre ad enunciare progetti, si deve mostrare anche in prima persona la capacità di realizzarli. Per arrivare in buona salute alle elezioni del 2006 la coalizione di maggioranza deve rivedere nel proprio interno molti equilibri e, soprattutto, esprimere un’effettiva capacità di assumere concrete responsabilità nell’adempimento dell’attività di Governo.
Durante il periodo estivo non poteva mancare una riflessione sul tentativo di rilancio della «concertazione sindacale». Se la concertazione fosse solo una forma privilegiata di dialogo tra le parti sociali, non susciterebbe alcuna perplessità. E neppure se fosse il tentativo di riportare di attualità la «politica dei redditi» auspicata in passato da Ugo La Malfa. Di fatto la concertazione è stata però, negli anni del centro-sinistra, qualcosa di più inquietante: un secondo Governo-Parlamento, oltre a quello previsto dalla Costituzione. I sindacati, ricchi di risorse economiche, sono intervenuti non solo nel campo dei rapporti di lavoro, in rappresentanza dei loro iscritti, ma in tutti i campi di interesse del cittadino – dalla guerra in Kosovo a quella in Iraq, dal diritto di famiglia alla politica fiscale, dalle riforme costituzionali a quelle riguardanti l’ordinamento dello Stato –, arrogandosi quanto meno un diritto di veto.
Sembra si sia realizzato in quel periodo un cambiamento sostanziale e materiale della Costituzione. È opportuno invece ricordare che i sindacati non soltanto non sono soggetti ad alcun controllo democratico, ma neppure hanno una rappresentanza di tipo privatistico che li legittima a condizionare, spesso in modo decisivo, le scelte che attraverso le elezioni invece i cittadini hanno delegato ai propri rappresentanti in Parlamento. La concertazione, invocata da molti senza un minimo di buon senso, potrebbe rivelarsi un gravissimo ostacolo per il processo di riforma del Paese perché, sottraendoli a qualsiasi controllo democratico, verrebbe a conferire poteri ad organizzazioni, come appunto i sindacati, prevalentemente corporative. Non ci si deve poi stupire se la Cgil tende a dettare le regole della politica ai partiti della sinistra o si spinge a designare organigrammi politici che esulano totalmente dalla sua competenza.
Un’ultima riflessione estiva: gli accordi recentemente raggiunti dagli azionisti della società R.C.S., editrice del Corriere della Sera. I potentati economici e industriali hanno così completato scientificamente l’occupazione della stampa italiana. Il loro intento non è certo quello di compiere un investimento redditizio, ma soprattutto quello di utilizzare la carta stampata come una «leva di persuasione» per migliorare gli affari del proprio «core business». In pratica, non esistono in Italia editori puri e neppure imprenditori che considerino l’editoria un business a sé stante. Tutto questo con ripercussioni tremende sulla trasparenza e sull’attendibilità dell’informazione. Perché allora lamentarsi se gli italiani continuano a comprare, rispetto ad altri Paesi, pochissimi giornali, e soprattutto se danno scarsissimo credito a quello che leggono quotidianamente. Eppure i nostri giornali sono amanti degli scoop e delle notizie sensazionali. Fino al punto di inventarli, com’è accaduto ad esempio per il litigio tra due giocatori italiani in occasione dei campionati europei.
Un giocatore, Bobo Vieri, si è per questo motivo rivolto alle categorie dei giornalisti in modo tracotante e insultante. Ha sicuramente sbagliato e quindi sono state giuste le reazioni della categoria. Nessuno però ha stigmatizzato il fatto che l’episodio del litigio era stato inventato da alcuni giornalisti, e che questi avevano compiuto un’operazione scorretta di informazione. Un quotidiano diffuso in tutta Europa, l’Internationale Herald Tribune, quasi tutti i giorni pubblica un riquadro con le correzioni riguardanti le notizie sbagliate pubblicate in precedenza, chiedendo scusa, quando opportuno, ad eventuali interessati. Si è mai visto qualcosa del genere sui quotidiani italiani?
Troppi giornalisti - spessissimo molto bravi e capaci -, sono però anche molto cauti nel trattare le informazioni sia quando riguardano le attività economiche del loro editore, sia quando sono riferibili a determinati amici politici. Diventano, al contrario, molto disinvolti quando l’informazione si presta ad essere utilizzata per fini e scopi particolari, frequentemente tutt’altro che nobili. La disinvoltura diventa poi impudenza quando i giornalisti inventano le informazioni stesse. Come fanno tanti accreditati giornalisti a pubblicare il resoconto, virgolettandone anche le frasi, di colloqui avvenuti in sedi completamente al di fuori della loro portata? Può anche accadere di ricevere talvolta qualche confidenza. Ma tutti i giorni e tutte le volte che c’è un incontro importante?
Quando, nel luglio scorso, Berlusconi e Tremonti sono andati a Lugano a trovare Bossi in ospedale, il colloquio cui hanno partecipato in tutto cinque persone è stato riportato da alcuni giornali con dovizia di particolari. Eppure nessuno dei presenti, per quanto è noto, aveva fatto trapelare alcun contenuto. Questi giornalisti, è presumibile, hanno supplito alla carenza dell’informazione con il buon senso, immaginando la possibile agenda dell’incontro e i relativi scambi di idee tra i partecipanti. Poiché questa informazione impudente, anche se temperata dal buon senso e da un attento ascolto del gossip, è fatto pressoché normale sulla stampa italiana, ivi inclusa quella particolarmente qualificata, non può poi addebitarsi al lettore di dare scarso credito alla stampa stessa fino al punto talvolta di insinuare che una notizia, proprio perché pubblicata, ha fini diversi da quelli di fornire l’informazione.
D’altronde quando i giornalisti italiani si uniformano alla «linea editoriale» (molto legata agli interessi economici e agli inevitabili collegamenti con la politica), non sono soggetti a particolari censure né da parte dell’editore né, soprattutto, dal direttore del quotidiano. È come se ai giornalisti venisse data, purché rispettosi della «linea editoriale», una specie di «licenza di uccidere», o meglio una «patente di corsa» per fare i corsari in tutte le possibili acque del globo.
Come meravigliarsi allora che la pubblicità vada a finire, in Italia come però anche in alcuni altri Paesi europei, prevalentemente nelle televisioni? Se aumentasse la pubblicità sulla carta stampata, probabilmente non aumenterebbero i lettori. Perché questi, alla lunga, non sono allettati dai gadget in regalo o da una grafica più dispendiosa, ma dal modo di fornire l’informazione, dalla trasparenza e dalla veridicità della stessa, nonché, soprattutto, dall’impegno nel tutelare i valori fondamentali del vivere civile. Alla stampa che intende riflettere il nostro Paese - dilaniato dalle fazioni, dominato dalle corporazioni e diviso in un numero infinito di microcosmi -, si deve chiedere di comportarsi come uno specchio fedele, con pacatezza e obiettività. Ma essa, come avviene nei più evoluti Paesi del mondo, assolve anche il ruolo di identificare, rendere comuni e tutelare i valori fondanti della comunità nazionale. In Italia non assolve a questo ruolo perché è sempre portata a privilegiare la parte politica, la corporazione, il potentato economico, le radici locali. Se nel futuro intendesse assumere questo ruolo, dovrebbe prima di tutto rifondare molte testate.
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