CARO
PRESIDENTE, ANCHE LEI E' SVEGLIO COME ME, STANOTTE?
di Romina Ciuffa
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Presidente - e di Presidente ce n’è uno solo -, sono qui
a scriverLe come una semplice cittadina quale sono. Le cose sembrano andar
male in Italia e nel mondo. Siamo tutti tormentati da immagini di guerra
e di violenza che sono sempre esistite ma che, ora soprattutto, finiamo
per vedere anche nei sogni. Non Le nascondo, signor Presidente, che faccio
fatica, a volte, ad addormentarmi. Chi mi conosce sa che non ho mai dormito
sonni tranquilli: sarà per la mia irrequietezza, dicono, ma in
questo periodo è, singolarmente, una delle cose che mi accomuna
a tanti altri. E sono convinta che anche Lei, allora, ha qualcosa in comune
con me. E se prima ero strana, quando non prendevo sonno e trascorrevo
intere notti nel pensatoio, ora non lo sono più. Diciamo che sono
entrata nella media.
Sono certa che anche Lei non dorme tranquillo. Tutti penseranno che nella
ricchezza si fanno sonni ininterrotti e non si hanno incubi. Ma io so
che anche a Lei è capitato di svegliarsi sudato, nella notte, con
qualche incubo nella testa che lì per lì non riesce a ricordare.
Probabilmente la ricchezza non è tutto. Addormentarsi mentre qualche
speaker, alla televisione, parla di sangue non è facile per nessuno.
Il sangue c’è sempre stato, ci scorre nelle vene, rosso o
blu, ma a vederlo così, sempre, dappertutto, e sentirselo ripetere
nel dormiveglia, non è facile. Ti rimane attaccato alla retina
quel colore rosso che per un toro significherebbe morte certa in pochi
attimi e applausi di un pubblico pagante.
Per noi no, signor Presidente. Non siamo tori, non lo siamo mai stati,
e ciò ci distingue dagli animali, a volte. Per questo è
insopportabile sentire urlare il pubblico perché ti uccidano, e
poi vederlo straziarsi se è il torero a morire. Sarà stato
forse più facile per coloro che, nelle prime due guerre mondiali,
ascoltavano poche frequenze radio e non godevano di effetti speciali.
Anche se, uscendo di casa, a volte si trovavano a dover scavalcare i corpi
caduti di alcuni conoscenti o a giocare con le bombe distrattamente lasciate
dai soldati per le strade. O ad avere addosso cicatrici indelebili di
cui ancora portano il segno e di cui narrano ai propri figli i quali,
sempre sbadigliando, sono costretti ad ascoltare mentre pensano a cosa
indossare per la serata. Non erano le bombe di oggi, quelle: erano bombe
che esplodevano e il sangue scorreva. Le bombe di oggi, invece, non le
senti nemmeno esplodere mentre le vedi piegarsi ad altri scopi. La guerra
c’è sempre stata, ma ora è radioattiva, ora è
nucleare. Ora le sue onde si propagano sino ai nostri cervelli anche attraverso
le immagini. Sarà che adesso mi trovo a New York e guardo
un cantiere che prima quasi toccava il cielo. Lo sa che anche io ho una
gemella?
È proprio vero, signor Presidente, che occhio non vede e cuore
non duole. Sono certa che il Suo occhio vede e il Suo cuore duole. È
difficile accettare tutto questo e so che lo è anche per Lei. Non
manca giorno in cui non ci si chieda chi sarà il primo a morire
o a lasciarsi esplodere una bomba addosso. Non manca giorno in cui non
ci si domandi, infilando un piede nella metropolitana, se sarà
sicura o se non sarebbe stato meglio pagare l’assicurazione dell’auto,
per quanto troppo costosa. Non manca giorno in cui non assistiamo allo
strazio. Non passa notte in cui il cuore non si faccia ancora più
rosso e grosso e non mi lasci dormire.
Scriveva al proprio Presidente l’autore francese Boris Vian, il
disertore, che in guerra non ci voleva andare perché non era lì
per ammazzare la gente più o meno come lui, e che avrebbe gridato
a tutti di non partire più e di non obbedire per andare a morire
«per chi non importa». Un altro che non riusciva a dormire.
«E dica pure ai suoi–aggiungeva–se vengono a cercarmi,
che non sono armato e che possono sparare».
Sono aumentati gli attacchi di panico, lo dicono i dottori, lo confermano
le statistiche: ci sarà un motivo. Lo stress, il duemila, il lavoro,
le pensioni, il traffico, la durezza della società, la sordità.
Lei ha mai avuto un attacco di panico, caro Presidente? A volte mi chiedono
cosa voglia dire, e non c’è occasione in cui io non ripeta:
solo chi l’ha provato almeno una volta può capire cosa sia.
Altrimenti non è qualcosa che si possa spiegare a parole. Nemmeno
un neurologo potrebbe far comprendere, a chi non l’ha mai avuto,
cosa esso rappresenti. È qualcosa che supera in picchiata la paura
ed entra nella pelle, sino all’animo, e vibra quasi ad ascoltare
la morte, e si dipinge di un rosso infrangibile.
Ci siamo persi tutti, e la strada è difficile da ritrovare. Stavolta
Pollicino non aveva pane da seminare o qualche spavaldo uccello ha già
mangiato ogni briciola che ci riporti a casa. Siamo fortunati ad essere
nati ora? O forse sarebbe stato meglio bruciare con Nerone, o pasteggiare
con i dodici Apostoli? Chissà. Anch’essi hanno visto qualcuno
tradire e qualcun altro morire. È macabra la vita, vista da questa
prospettiva, vissuta da quaggiù.
Si potrebbe salire su uno shuttle in partenza da Houston con Roberto Vittori
e guardare meglio il nostro pianeta, chiedersi perché l’acqua
non cade e perché a stare nell’emisfero sud non venga mal
di testa. Ma non si può. Si vedrebbe, però - questo è
certo - un mondo blu e verde, e il rosso lo si potrebbe lasciare solo
ai pittori. Questa notte spero di fare sogni d’oro, e non di rosso.
Buonanotte, signor Presidente. E se non riesce a dormire, stanotte, mi
chiami. Lascerò, per Lei, il telefono acceso.
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