LE RIFLESSIONI DI UN MANAGER
 
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LE RIFLESSIONI DI UN MANAGER
I SOLITI PERSONAGGI
DEL TEATRINO DELLA POLITICA?

In Italia, scomparsa la prima Repubblica e trascorso un decennio di «transito» verso una seconda (ancora in via di definizione), è possibile che tutto il centrosinistra non riesca a produrre un uomo nuovo e un progetto innovativo?

di
Paolo di Damasco



L'ex Presidente del Consiglio
Romano Prodi

a politica italiana celebra il rientro ufficiale da Bruxelles dell’ex presidente della Commissione europea Romano Prodi. In verità il ritorno di fatto è avvenuto da molti mesi, suscitando non poche perplessità a livello europeo e anche nel mondo italiano. Non hanno mancato di rilevarlo alcuni importanti giornali stranieri e, nel nostro Paese, alcune dure prese di posizione, tra le quali si distingue quella di Emma Bonino. Fare un bilancio di cinque anni trascorsi alla guida dell’Unione europea non può essere per Prodi un’operazione entusiasmante. Troppe accuse gli sono state rivolte, delle quali alcune certamente anche ingenerose.
Quello che però è certo è che non ha saputo suscitare nei cuori l’idea di Europa e che, anzi, presentandola spesso con una coloritura burocratica e farraginosa, ha fortemente demotivato, in quasi tutti i Paesi, l’ambizione di avviare un processo di graduale unificazione politica. Anche cambiamenti sostanziali come la realizzazione della moneta unica - che riguarda solo 12 Paesi - sono stati vissuti più come fatti riguardanti i banchieri, i mercati finanziari e commerciali, piuttosto che come il preannuncio di un nuovo soggetto europeo. Romano Prodi, insomma, non è riuscito a dare un’anima all’Europa, e forse non era neppure interessato a farlo, perché troppo impegnato a coltivare i propri interessi politici, soprattutto quelli italiani, per conquistare la leadership del centrosinistra.
A carico di Prodi si può comunque addebitare un grave errore di impostazione politica: quello di aver anticipato l’allargamento ad altri 10 Paesi rispetto all’introduzione di una nuova Costituzione. Questo allargamento - tanto gradito agli Stati Uniti che così vedono diluire nel tempo il processo di unificazione europea - ha reso tutto più difficile per vari motivi, riducendo la nuova Carta di Europa (non è possibile chiamarla Costituzione) a un compromesso di basso livello, soggetto per di più al referendum in almeno 9 Paesi. Il mercato europeo si è allargato, ma l’idea di Europa ha subito un duro colpo, forse ancora peggiore di quelli subiti nel campo della politica internazionale in occasione dell’intervento della Nato nel Kosovo o della guerra degli Stati Uniti all’Irak.
Romano Prodi è riuscito a dare la prova provata, caso mai ve ne fosse stato bisogno, che l’Europa non esiste, e che il processo per trasformare un mercato integrato in un nuovo soggetto politico è lunghissimo e passa attraverso molte - e forse troppe - generazioni di individui. Gli Stati Uniti ne hanno preso atto con soddisfazione e, in attesa, si sono dedicati ad approfondire i rapporti in Oriente con la Cina e con l’India. Per quanto riguarda l’Italia, poi, la presenza di Prodi a Bruxelles non ha portato alcun beneficio. Come Mario Monti, anche Romano Prodi ha tentato di accreditare la propria immagine nella Comunità presentandosi come un «super partes». Monti è riuscito molto bene nell’impresa ed è giusto il plauso che gli ha riservato l’Europa. Prodi non ha convinto nessuno, tanto era preso nelle proprie beghe personali. Il nostro Paese farebbe bene ad imparare la lezione e per il futuro, come fanno tutti gli altri Paesi, a scegliere non dei «super partes» ma dei veri e propri rappresentanti degli interessi italiani.
Che cosa significa per la politica italiana e in particolare per il centrosinistra il ritorno di Prodi? Prima di tentare una risposta bisogna ricordare che egli incarna - probabilmente insieme a Giuliano Amato - la più sofisticata espressione del «trasformismo politico». È riuscito a presentarsi nel 1996 come un volto nuovo della politica italiana, nonostante fosse immerso totalmente nelle politiche e nella cultura di sottogoverno della prima Repubblica (già ministro dell’Industria con il Governo Andreotti, due volte presidente dell’Iri, privatizzatore della Sme con l’accordo con Carlo De Benedetti, consulente di Gruppi industriali criticati ecc.).
Vinte le elezioni, ha esercitato il ruolo di presidente del Consiglio fino al 1998, quando un «piccolo golpe» lo ha detronizzato sostituendolo con l’odiato Massimo D’Alema. Si è deciso allora a creare un partito politico che ha aderito alla Margherita e, insieme ai Ds, ha formato la lista elettorale dell’Ulivo. La linea politica di Romano Prodi è sempre stata quella della ricerca del potere, aperta ad avvalersi di qualsiasi strategia finché questa si presentasse come la migliore per conquistare il potere stesso.
È solo il potere, infatti, che gli interessa, a prescindere dai veri e propri contenuti della proposta politica. Come spiegare altrimenti gli stretti rapporti che oggi sono stati intrecciati da lui con Fausto Bertinotti, Armando Cossutta, Oliviero Diliberto e Alfonso Pecoraro Scanio? Prodi naturalmente condivide - o finge di condividere - non solo le posizioni pacifiste espresse da quest’area della sinistra, ma anche la politica economica invocata (inclusa un’imposta patrimoniale), l’abolizione della legge Biagi nei rapporti di lavoro, l’intoccabilità del sistema penitenziale, la politica sull’immigrazione clandestina, il sistema di tassazione, la fecondazione assistita ecc. ecc. Tutte queste materie vedono su posizioni molto differenziate sia i Democratici di sinistra, almeno quelli che oggi rappresentano la maggioranza, e ancor di più i partiti della Margherita.
Si è reso conto Prodi che anche la Cgil, confermando di essersi trasformata in un vero e proprio movimento politico, ha formulato il proprio programma che riprende, aggravandoli in qualche caso, tutti i contenuti già enunciati dalla sinistra più vera e pura? Tutta questa sinistra massimalista si va compattando intorno a un progetto che, in parte, tenta di far rivivere le convinzioni e le idee della metà dello scorso secolo e che, proprio per questo, non appare facilmente collocabile in sintonia con una politica di ammodernamento e di sviluppo da realizzare nel ventunesimo secolo.
E allora perché Romano Prodi finge per ora di credere in queste proposte estremiste? Per la semplice ragione che è consapevole che, senza quest’area della sinistra, non riuscirà a vincere le elezioni politiche nel 2006. È costretto, quindi, a legarsi a questo mondo nella speranza sia di poterlo ammorbidire con il tempo sia, soprattutto, di mantenere per il momento il titolo di unico aspirante alla leadership del centrosinistra. Prodi confida, infine, nelle proprie capacità di presentare in modo sfocato tutta la materia agli elettori. Chi non ricorda che, nella campagna elettorale del 1996, più volte assicurò agli elettori che non avrebbe mai governato con l’apporto determinante di Rifondazione Comunista, il tutto, come noto, smentito platealmente dai fatti?
Francesco Rutelli, che sembra ami sempre di meno il proprio amico Romano Prodi, sta creando fin da ora ostacoli verso questa linea strategica volta a catturare l’adesione della sinistra estrema e poi, forte di questo accordo, trovare un compattamento con le posizioni più moderate. Rutelli, infatti, seguita non solo a dare una priorità al programma da concordare tra le forze politiche (piuttosto che a formule organizzative quali le federazioni), ma soprattutto a sottolineare a Prodi che la scelta del leader avverrà solo dopo le elezioni regionali del 2005. In queste azioni di contrasto Rutelli ha trovato non pochi sostenitori e, molto probabilmente, è riuscito a reclutare anche sostenitori occulti nell’area dei Ds. Non perché si abbia intenzione di far cadere la candidatura di Prodi, ma perché si preferisce limitarne l’autonomia e sottolinearne la dipendenza dai partiti della coalizione che sono determinanti nell’acquisizione del compenso elettorale.
Per dirla in poche parole, Prodi ha capito che non esiste per il momento alcuna candidatura alternativa alla propria e quindi si affanna - talvolta con le esternazioni e tal’altra con i silenzi - a stringere una santa alleanza con quel 13 per cento dell’elettorato rappresentato dalla sinistra massimalista, per poi «incastrare» la restante parte della coalizione incapace di individuare altri percorsi politici o di formulare diversi programmi. Prodi sembra ormai suggerire a tutti di lasciare che Bertinotti, la Cgil e amici abbozzino un programma, e di sedersi dopo a un tavolo per cercare di tirare fuori una linea comune che confermi la leadership di Prodi stesso e costituisca la base della formula federativa, almeno a livello di lista elettorale.
I punti di forza della strategia di Prodi sono, come si è detto, che non esiste alcuna seria candidatura alternativa e che, in effetti, l’«aggancio» alla sinistra massimalista è indispensabile per un’eventuale vittoria elettorale. Il punto di debolezza di questa strategia è uno solo: l’incertezza che il metodo trasformista continui a funzionare anche questa volta e che gli elettori non si accorgano di votare un centrosinistra più spostato a sinistra e di portare al Governo uomini ancora permeati di ideologie superate.
E poi Bertinotti - oggi apparentemente tanto vicino e dialogante con Prodi - come reagirebbe una volta stretto da una accordo che include anche la Margherita? Probabilmente resterebbe «stretto» in questo accordo, solo se le elezioni politiche del 2006 si presentassero come una facile passeggiata per il centrosinistra. In questa eventualità, infatti, i conti li farebbe - compresi tutti gli interessi - in sede di Governo del Paese, come è già avvenuto nel passato. Se però le previsioni elettorali non fossero così rosee, non è improbabile che Bertinotti continui a coltivare la vecchia strategia di fuggire a sinistra e di non farsi mai raggiungere. Con questa strategia ha finora creato un partito di una certa consistenza, e con questa strategia si pone nelle condizioni migliori per raccogliere i voti di protesta di tutta la sinistra, a cominciare da quella massimalista. A questo punto viene spontaneo farsi una domanda: in Italia, scomparsa la prima Repubblica e trascorso un decennio di «transito» verso una seconda Repubblica (ancora in via di definizione), è possibile che tutto il centrosinistra non riesca a produrre un uomo nuovo e un progetto innovativo? Infatti nessun uomo è nuovo in questo centrosinistra.
Non lo sono Prodi e Amato, ma neppure D’Alema, Rutelli, Franco Marini o Luigi Castagnetti. Lo sono solo in modesta parte Piero Fassino e Walter Veltroni, soprattutto per una ragione di età, perché hanno fatto carriera nei ranghi del partito, trasformandosi da funzionari in direttori. Chi resta? Forse l’acerbo Enrico Letta e pochissimo d’altro. Viene quasi da pensare che il vero rinnovamento l’abbia fatto Silvio Berlusconi, che ha portato in politica uomini e idee nuove, anche se non tutte apprezzabili e non tutte percorribili. Ma almeno, viva la faccia, il «teatrino» non continua a ripetere all’infinito le stesse litanie e gli stessi riti.
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