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FINANZIARIA 2005. NECESSARIE MODIFICHE E INTEGRAZIONI

di Marco Paolo Nigi

 



Marco Paolo Nigi
Segretario generale della CONFSAL

24 miliardi di euro stanziati per la legge finanziaria 2005 costituiscono l’equivalente di una coperta troppo corta in relazione alle necessità attuali del Paese. Da qualsivoglia parte la si strattoni, essa lascia sempre scoperte zone nevralgiche da dove, poi, sale forte e legittima la protesta. E non potrebbe essere diversamente, perché la crisi economica che sta attraversando il Paese colpisce tutti i cittadini indistintamente, anche se a farne le maggiori spese sono naturalmente i meno abbienti. Ma si tratta di una Finanziaria «di guerra» perché molto contenuta nelle disponibilità, che offre pochi spazi a proposte altenative ma sulla quale, comunque, ancora si può lavorare e incidere attraverso il «collegato» alla stessa, per eliminare, per quanto è possibile, taluni squilibri abbastanza evidenti.
In linea generale si può, infatti, tranquillamente affermare che il tetto del due per cento all’aumento della spesa posto dalla Finanziaria per tutti i capitoli di bilancio rientranti in determinate categorie di spese, anche se in sé è condivisibile «per il conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica stabiliti dall’Unione europea», non può essere acriticamente, e spesso innaturalmente, esteso in maniera uniforme a tutte le situazioni esistenti, che tra loro presentano differenze anche sostanziali.
Tale limitazione, ad esempio, viene imposta agli Enti locali, lasciando loro in cambio la discrezionalità totale di aumentare le tasse di propria competenza. Cosi le realtà territoriali, strangolate dalle limitazioni di spesa loro imposte, saranno costrette inevitabilmente a cercare nuove risorse attraverso imposizioni fiscali di varia natura, che andranno ad aggravare l’addizionale Irpef, gli estimi catastali, il bollo auto, i ticket sanitari, la nettezza urbana e, naturalmente, l’Ici. Questo significa contribuire non poco a diminuire ancor più il potere d’acquisto di retribuzioni e pensioni già largamente taglieggiate dalla crisi economica in atto.
Vi è poi, ma non certo ultimo, il problema del Mezzogiorno che risentirà oltre misura della limitazione programmata della spesa particolarmente nel settore dell’edilizia pubblica, che nel 2005 avrebbe dovuto consentire un’ampia ripresa degli investimenti con significativi risvolti di crescita economica e occupazionale. Proprio per favorire gli investimenti nel Mezzogiorno, invece, andrebbe ridotta in maniera significativa l’Irap, un balzello decisamente demotivante per chiunque abbia intenzione di intraprendere un’attività industriale.
Ettore Artioli, vice presidente della Confindustria e reponsabile per il Mezzogiorno, l’ha detto chiaramente: «Perché un imprenditore italiano o straniero dovrebbe investire nel Sud e non in Irlanda, nell’Est europeo o nel North Carolina, tutte zone in cui i Governi locali offrono fortissime convenienze?». Un’ottima domanda che necessita di una consequenziale risposta che, fino ad oggi, nessuno ha lontanamente formulato. Eppure solo ipotizzare che il mondo dell’industria sia spinto ad investire nel Sud per motivi altruistici, umanitari o patriottici, è pura utopia. Chi investe lo fa per ricavarne un guadagno, e se tale guadagno non è realizzabile, lo si va a cercare altrove. È una legge di mercato ineludibile. Quindi il prospettare investimenti con possibili utili sembra l’unica strada percorribile per rilanciare in modo concreto l’economia del Mezzogiorno del Paese.
Una nota positiva della Finanziaria 2005, invece, è rappresentata dalla revisione al rialzo dei cosiddetti studi di settore validi per individuare il reddito dei lavoratori autonomi. È indiscutibile, infatti, che nello sconvolgimento monetario verificatosi nel Paese in seguito all’introduzione dell’euro, i danni maggiori li abbiano subiti i ceti più deboli della popolazione, primi fra tutti i lavoratori dipendenti e i pensionati, le cui perdite si sono trasformate in lauti guadagni per una miriade di piccoli e medi esercizi commerciali.
Sembra quindi più che giusto che questi ultimi debbano ora contribuire in modo più sostanzioso a sostenere gli impegni di spesa della Finanziaria. Un’altra annotazione ci sembra d’obbligo. Il famigerato tetto non riguarda gli organi istituzionali che, pertanto, potranno continuare ad aumentarsi a piacimento retribuzioni che nell’Italia di oggi, dove i nuovi poveri aumentano a ritmo vertiginoso, appaiono a dir poco scandalose nella loro entità. Quirinale, Senato, Camera dei deputati e Corte Costituzionale potranno quindi far crescere i propri bilanci ben oltre il 2 per cento consentito ai peones nostrani. Si dirà: l’impatto economico è modesto e quindi poco determinante ai fini prefissati. Tutto vero, ma sono proprio gli organismi istituzionali che, con il loro esempio, dovrebbero indicare ai cittadini la strada del sacrificio per consentire al Paese di risalire la china della crisi economica.
Un’ultima riflessione. Non si vede traccia alcuna nel documento governativo di quei pilastri fondamentali necessari per il rilancio dell’azienda Italia che sono rappresentati dal potenziamento di infrastrutture, dalla scuola e dalla ricerca. Eppure almeno un timido segnale in tale direzione sarebbe stato più che opportuno. Dunque, solo per limitarci ai temi trattati, una Finanziaria «di guerra» quella messa a punto dall’Esecutivo e che, tuttavia, deve diventare più equilibrata e comprensibile per essere almeno «sopportata» dai cittadini. Una Finanziaria che attraverso il «collegato» può essere resa più equa per superare il momento contingente e guardare anche a quel benessere futuro del Paese che deve essere, poi, l’obiettivo primario che qualsivoglia Governo deve porsi.

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