CREDITO
E SOCIETA'. LA DIMENSIONE ETICA DELL'ATTIVITA' FINANZIARIA
del
senatore Riccardo Pedrizzi
sen.
Riccardo Pedrizzi
presidente della Commissione Finanze e Tesoro del Senato
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questa era di globalizzazione si avverte sempre di più il bisogno
di una finanza etica e, nello stesso tempo, di un’etica che ispiri
l’attività finanziaria nel complesso: quindi di una finanza
etica ma anche di un’etica nella finanza. Il Premio Sapio per la
ricerca italiana, edizione 2004, ha offerto a tutti un’importante
occasione per approfondire in un convegno un tema essenziale del nostro
tempo: «La finanza etica per lo sviluppo delle economie locali nel
processo di globalizzazione». Un grande premio per la scienza, quale
è il Premio Sapio, non poteva non cogliere l’esigenza di
un confronto che vedesse coinvolti esponenti del mondo politico, sociale
e della cultura accademica, sulla definizione di un nuovo modello di sviluppo
economico che possa dare «un volto umano–così suggeriva
il titolo di uno dei più recenti Rapporti sullo sviluppo umano
predisposti dall’Onu–al processo di globalizzazione».
Il recupero di una dimensione etica nella finanza e nel credito, a livello
sia di problemi di finanza globale sia di correttezza e trasparenza dell’agire
economico della singola impresa, costituisce parte rilevante delle sfide
che siamo chiamati ad affrontare. Desidero segnalare solo alcuni aspetti
dei temi affrontati nel corso del convegno. Innanzitutto, lo sviluppo
della finanza etica, senz’altro favorito da un’accresciuta
attenzione per i risvolti etici delle attività economiche, anche
in seguito agli scandali che hanno interessato il mercato finanziario
interno e internazionale. Invero lo sviluppo ha riguardato attività
finanziarie multiformi, non sempre pienamente fedeli ai canoni che devono
contraddistinguere le iniziative di finanza etica.
Senza voler indulgere in dogmatismi, è evidente che spesso vengono
poste in essere operazioni di marketing che tentano di approfittare dell’aggettivo
(o addirittura di una sorta di «marchio») etico solo per rendere
più appetibili e alla moda servizi sia finanziari sia di consumo.
In Italia una definizione di finanza etica più fedele ai giusti
principi ispiratori può essere rintracciata nel Manifesto presentato
nel 1998 dall’Associazione per la finanza etica (Afe, e fatto proprio
sostanzialmente dalla risoluzione n. 7-00275 approvata dalla Commissione
Finanze della Camera dei deputati nella seduta del 22 ottobre 2003, nella
quale sono individuate le caratteristiche che dovrebbero distinguere gli
operatori creditizi e finanziari etici.
In particolare, la finanza etica dovrebbe condividere e mettere in pratica
7 punti fondamentali: riconoscere il credito in tutte le sue forme come
un diritto umano; considerare l’efficienza una componente della
responsabilità etica; non ritenere legittimo l’arricchimento
basato sul solo possesso e scambio di denaro; assicurare la trasparenza
delle operazioni; prevedere la partecipazione alle scelte importanti dell’impresa
non solo dei soci ma anche dei risparmiatori; avere come criteri di riferimento
per gli impieghi la responsabilità sociale e ambientale; richiedere
un’adesione globale e coerente da parte del gestore, che ne orienti
tutta l’attività.
In base a questi principi, la finanza etica viene definita un’attività
economicamente vitale e che intende essere socialmente utile, e non una
forma di beneficenza. In particolare - come rilevava opportunamente il
professor Roberto Burlando dell’Università di Torino in una
sua recente riflessione sul tema -, «il principio di illegittimità
dell’arricchimento basato sul solo possesso e scambio di denaro
tende a negare valore e dignità etica alle attività prettamente
speculative e, nello stesso tempo, definisce il tasso di interesse come
una misura di efficienza nell’utilizzo del risparmio, cioè
una misura dell’impegno a salvaguardare le risorse messe a disposizione
dai risparmiatori e a farle fruttare in progetti che contribuiscono effettivamente
a migliorare le condizioni di vita, dei singoli e sociali».
In queste considerazioni si avverte l’eco dei problemi che hanno
interessato l’evoluzione del pensiero e della morale cristiana nel
corso dei secoli. Giuristi come Raimondo di Peñafort o teologi
come Tommaso d’Aquino o il francescano Pietro Olivi, tutti vissuti
nel florido XIII secolo, accettano il fatto che il danaro abbia una «fruttificabilità
virtuale». D’altra parte basta riflettere sull’esperienza
dei primi istituti di pegno, sorti inizialmente con il fine di calmierare
il prezzo del credito notevolmente cresciuto a seguito della depressione
che colpì tutta l’Europa verso la metà del ‘400.
Ed è con questo scopo che vengono istituiti, ad opera dei Francescani,
i Monti di Pietà per le cui spese di gestione viene ritenuto legittimo
il pagamento degli interessi sui prestiti erogati.
Di tale processo di riflessione rimane vivo ancor oggi il contributo fondamentale
per una visione umanizzante della finanza che contrasti un uso esclusivamente
utilitaristico della stessa, asservita a investimenti voluttuari e improduttivi,
e un uso spregiudicato della speculazione. Infine, non meno importante
per la finanza etica, è il principio di democrazia economica, che
richiede meccanismi democratici di partecipazione alle decisioni economiche
importanti da parte sia dei finanziati che dei finanziatori. Le istituzioni
della finanza etica hanno scelto in genere forme societarie cooperative
e di banche popolari - che prevedono lo stesso principio fondamentale
di democrazia riconosciuto quasi universalmente in ambito politico, «una
testa un voto» -, e prevedono meccanismi diretti di indicazione
delle preferenze nella destinazione dei fondi.
L’affermazione dei principi richiamati riveste un’importanza
fondamentale per lo sviluppo della finanza etica nell’ambito del
nostro Paese, ma anche nei rapporti finanziari internazionali. Per quanto
concerne quest’ultimo aspetto, desidero soffermarmi brevemente sul
fenomeno del microcredito, o microfinanza, come strumento di emancipazione
economica dei Paesi più poveri. Come ci ricorda un recente Rapporto
dell’Isae, i Paesi in cui larghi strati della popolazione vivono
con meno di un dollaro al giorno ricevono solo l’1,1 per cento del
credito mondiale; per i Paesi a medio reddito la percentuale raggiunge
il 5,5; il rimanente 93,4 per cento è a beneficio del 20 per cento
più ricco della popolazione mondiale.
All’ineguale distribuzione tra le Nazioni del mondo dei fondi disponibili
per l’investimento si sovrappone il problema del mancato accesso
al credito della quasi totalità della popolazione (90 per cento)
nei Paesi in via di sviluppo. Il credito è soggetto a razionamento:
le istituzioni finanziarie formali concedono la possibilità di
ottenere prestiti o altri servizi finanziari solo ai soggetti in possesso
di garanzie collaterali, come ipoteche o beni capitali. Si realizza in
tal modo un’ingiusta discriminazione a danno di una consistente
fascia della popolazione mondiale, in particolare Asia, Africa e America
latina, che, non potendo fornire le garanzie tradizionali a causa della
situazione di povertà in cui si trova, non è in grado di
mettere pienamente a frutto le proprie capacità e potenzialità.
Come rilevato da alcuni economisti, il rapporto tra povertà e incapacità
di ottenere assicurazione e credito rappresenta una via verso quella che
viene definita «trappola della povertà». Proprio per
uscire da tale trappola particolarmente efficace risulta lo strumento
del microcredito. Questo consiste nell’erogazione di piccoli prestiti
e di altri servizi finanziari o sociali a persone normalmente escluse
dai tradizionali circuiti finanziari, rispetto ai quali richiede minori
garanzie - ma in generale non ne richiede affatto -, e offre invece maggiore
flessibilità nelle procedure per ottenere il credito e nei tempi
di rimborso. Infatti le istituzioni di microfinanza (Mfi) si pongono come
obiettivo principale la riduzione della povertà promuovendo lo
sviluppo umano ed economico del luogo in cui operano.
Il Rapporto dell’Isae segnala che nel 2001 la microfinanza ha raggiunto
quasi 55 milioni di clienti, la maggior parte dei quali poverissimi. Numerosi
studi empirici relativi alla valutazione dell’impatto dei programmi
di microcredito hanno evidenziato che questo strumento ha permesso l’aumento
dei consumi delle fasce povere nei Paesi in via di sviluppo attraverso
un aumento del reddito; e, grazie alla scelta di privilegiare le donne,
ha provocato effetti positivi anche in altri aspetti dello sviluppo umano
come salute, istruzione, diminuzione della discriminazione in genere.
Guardando specificamente al nostro Paese, l’affermazione della finanza
etica, seppur in un’accezione ampia, ha trovato e trova condizioni
di sviluppo favorevoli nell’esperienza storica delle nostre Banche
popolari e Casse rurali, nate negli anni a cavallo tra la fine dell’800
e i primi anni del ’900 soprattutto nelle zone più povere
e di campagna, spesso ad opera di sacerdoti particolarmente illuminati,
come prima reale opportunità per la gente comune di utilizzare
servizi finanziari. Nel tempo l’attività di tali istituzioni
creditizie, e in particolare delle banche di credito cooperativo, si è
rafforzata e fornisce ormai un contributo determinante al sostegno delle
iniziative di carattere culturale, artistico, sportivo, di promozione
ambientale e di finanziamento del cosiddetto «terzo settore».
Dai dati dell’ultimo bilancio sociale e di missione consolidato
del credito cooperativo si evince che circa il 10 per cento dei crediti
destinati al terzo settore è erogato da banche di credito cooperativo.
L’originalità di tali istituzioni creditizie, che hanno trovato
impulso fondamentale nel Magistero sociale della Chiesa, merita di essere
preservata e valorizzata, ponendosi ancora oggi come punto di riferimento
ideale per quanti sono convinti che il profitto economico non sia l’unico
obiettivo del mercato.
Ma accanto alla finanza etica si avverte un’esigenza più
generale di recupero della dimensione etica nell’attività
finanziaria ordinaria e nell’agire economico d’impresa. Il
problema tocca le riflessioni che, soprattutto in sede parlamentare, si
vanno proponendo con riferimento alle vicende del sistema finanziario
italiano. Diffusa è ormai l’opinione che nel settore finanziario
la correttezza dei comportamenti non possa essere conseguita solo attraverso
l’autoregolamentazione dei soggetti, seppure questa rimanga essenziale
e fondamentale. Occorre delineare anche un nuovo contesto normativo e
un diverso e più efficace sistema di controlli che assicuri comportamenti
più corretti e trasparenti nell’agire d’impresa.
L’impresa è un’istituzione sociale che, in quanto tale,
ha un «diritto di cittadinanza» che la rende meritoria di
una serie di tutele e, in casi specifici, anche di sostegno. Questo stesso
diritto le impone, però, di soddisfare determinate aspettative,
che la comunità cui appartiene ha nei suoi confronti, attraverso
il rispetto delle regole di correttezza e trasparenza e l’attuazione
di comportamenti solidali. Tutto ciò vale, in particolare, per
le istituzioni finanziarie e creditizie. In proposito ricordo le parole
che il Santo Padre Giovanni Paolo II ha rivolto recentemente ai vertici
di un importante gruppo bancario italiano: «Il complesso mondo del
credito sollecita la riflessione della Chiesa per le numerose implicanze
etiche che lo riguardano. Sarebbe, infatti, decisamente insufficiente
limitarsi al perseguimento del massimo profitto; occorre, invece, far
sempre riferimento ai valori superiori del vivere umano se si vuole essere
di aiuto alla crescita vera e al pieno sviluppo della comunità».
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