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«Negli
anni 50 l’Alta Moda era riservata a un’élite: aristocrazia,
alta borghesia, cinema. Ma questo diffondeva nel Paese il desiderio di vestire
bene, di essere eleganti sia negli abiti che negli accessori. Esistevano
sartorie di notevole bravura che copiavano i modelli delle grandi case di
moda francesi. Le clienti compravano il tessuto e ne commissionavano la
confezione; non acquistavano abiti già pronti nelle boutiques, caso
mai andavano a Parigi». Questi erano, nel racconto del grande stilista
Roberto Capucci, i favolosi anni 50 e 60. «Con l’avvio del miracolo economico, nei primi anni 50, nacque l’Alta Moda italiana grazie al marchese Gian Battista Giorgini, che organizzò la prima sfilata a Firenze invitando sarti, compratori stranieri, giornalisti–ricorda Capucci–. L’iniziativa ebbe un grande successo, e da essa nacque l’Alta Moda italiana che dagli abiti passò a comprendere tutto: pellicce, cappelli, borse, scarpe, bigiotteria, guanti, calze, cinture. Intorno si muoveva un grande mondo produttivo e varie riviste cominciarono ad occuparsi del settore. Poi negli anni 70 scoppiò il boom del prêt-à-porter, ma questo tipo di sviluppo cominciò a distruggere l’eccezionale artigianato italiano». Una nota di malinconia vena la voce del massimo protagonista di quegli anni felici per l’Alta Moda italiana. Oltre che uno stilista Roberto Capucci è un grande artista, l’unico italiano che abbia portato l’Alta Moda italiana non solo nel mondo, ma nei più grandi musei e nei libri di storia del costume. Era giovanissimo quando negli anni 50 scoppiò l’Alta Moda italiana; in mezzo secolo è stato sempre in prima linea, non è sceso mai a compromessi con lo sfruttamento commerciale intensivo delle proprie, sofisticate creazioni. Ha rinunciato al facile successo finanziario ma è stato premiato dal tempo e dalla storia. In questa intervista compie un’acuta analisi dell’evoluzione del settore, dei successi italiani nel mondo di ieri, della mancanza di idee, di valori e di coraggio nel sistema produttivo di oggi. Domanda. Qual’è oggi la situazione? Risposta. La vera Alta Moda ha incontrato sempre più difficoltà per una serie di motivi. Tra i primi la scomparsa dell’artigianato, di tanti artigiani che, bravissimi nel realizzare le idee fornite dagli stilisti, lavoravano in una maniera eccezionale paglia, fiori di seta, piume, pelli. Alla progressiva scomparsa di questa categoria ha corrisposto una fioritura di industrie che producono tutto in serie: migliaia di pantaloni, camicette, tailleur, gonne. Oggi si aprono continuamente negozi di moda; il risultato è che, scomparse le piccole botteghe artigiane dalle quali i grandi ateliers si servivano anche per fare i bottoni, una città ricca di storia, di cultura, di monumenti come Roma è invasa da boutiques, pizzerie e gelaterie. D. La grande industria non può soddisfare le esigenze dell’Alta Moda? R. Segue criteri diversi, produce in serie, non si può chiederle di fabbricare, ad esempio, un cappello particolare. Oggetti o capi esclusivi possiamo realizzarli solo noi, ma i costi sono altissimi, a cominciare da quelli del personale. Un tempo numerosissime, le lavoranti sono sempre più rare, le giovani preferiscono i saloni di bellezza dove possono parlare, ascoltare i racconti delle clienti, rispondere ai telefonini, magari fumare. Da noi fumare è proibito, è un pericolo per i tessuti; l’uso del telefonino è consentito per i bisogni effettivi, regnano il rigore e il rispetto per il lavoro, come una volta. D. Non ci sono scuole di formazione per gli artigiani? R. Non sono sufficienti e comunque il problema è anche un altro. Oggi, se si assume una lavorante inesperta, oltre a retribuirla regolarmente bisogna destinare alla sua formazione una brava capogruppo, per cui si devono sostenere due costi improduttivi: per chi non sa ancora fare nulla e per chi deve insegnargli il lavoro. Con queste norme l’artigianato non è stato certo aiutato a sopravvivere. Inoltre l’industria ha sottratto moltissimo all’Alta Moda, a cominciare dalla clientela, perché prima o poi anche le clienti dei grandi ateliers finiscono per comprare l’abito pronto, senza sottoporsi a tante prove. In cinquan’anni è cambiato tutto. D. La fine dell’Alta Moda è quindi causata dal prêt-à-porter? R. È giusto che questo esista e che l’industria vesta le masse, ma dovrebbe anche offrire prodotti di maggiore qualità e soprattutto di buon gusto. Anche perché la moda stracciona, casual, volgare, se può andare bene per una giovinetta di 16 anni, non migliora certo la donna. Ma gli industriali temono di sbagliare, non proporranno mai abiti di determinati modelli e colori se pensano che non si venderanno e che resteranno in magazzino. Per cui ricorrono al nero, perché è certo che andrà sempre bene. Adesso poi molte fabbriche producono tessuti per metà sintetici, per cui le belle stoffe si trovano in quantità sempre minori. Si fabbricano prodotti commerciali anche perché è invalso il concetto di indossare solo poche volte l’abito acquistato. Giustificherei questa usanza se costasse poco, ma i prezzi sono notevoli e comunque con tali sistemi non potrebbero mai impiegarsi stoffe di alta qualità. D. Quindi non esiste la «materia prima» per gli abiti di Alta Moda? R. Molti tessuti pregiati non si trovano più, ad esempio il taffettà cangiante. Poiché vi sono ancora clienti desiderose di distinguersi e quindi contrarie ad acquistare abiti in negozio, chi vuole realizzare per esse abiti di Alta Moda come un tempo, incontra molte difficoltà nella ricerca dei tessuti. Per l’Expo di Lisbona del 1998, cui parteciparono 145 Paesi, il Ministero degli Esteri mi chiese di creare un modello per il Padiglione italiano. Il tema dell’esposizione era «Gli oceani, il mare del futuro» e tutto doveva ispirarsi ad esso. Oltre a cinque mesi di lavoro per cinque lavoranti, per realizzare il modello mi occorsero 120 metri di taffettà plissé e 1.200 lembi uniti per comporre tutte le sfumature, dall’oceano al mare, alla spiaggia. Dovetti cercarli in Italia, in Francia, in Germania, in India, ovunque; questo perché non esiste più un campionario contenente una vasta gamma di colori. Si deve prendere quello che si trova sul mercato e che piace alla massa. Ai fabbricanti non interessa soddisfare tutte le richieste; interessa solo la certezza di vendere. Puntano a conquistare il mercato offrendo ciò che questo chiede. Non c’è posto per la cultura. Inoltre il punto di riferimento è la televisione: le giovani chiedono quello che vedono in tv, vogliono vestire come le loro modelle televisive, le quali indossano solitamente abiti prestati da sartorie; chi compra un vestito e lo paga, giustamente pretende la massima qualità, ma quando l’abito è prestato, anche se non piace chi l’indossa non può obiettare nulla. Dispiace che un qualificato settore produttivo sia così mortificato. D. Non c’è la possibilità di influire in qualche modo sull’industria? R. L’Alta Moda ha contribuito molto allo sviluppo dell’economia italiana. Anche se il sistema è cambiato, non è detto che non possa ancora farlo e che non si possa cercare di raffinare ugualmente il gusto della gente. Ritengo che la massa non debba essere ghettizzata privandola di prodotti più raffinati nella presunzione che non li acquisti; sia pure lentamente, la sua cultura si eleva. I giovani sono molto recettivi, se conoscono prodotti di qualità li apprezzano; purtroppo sono bombardati dalla tv e dal cinema, che impongono modelli di cattivo gusto, capi brutti che loro indossano perché gli si dice che «vanno di moda». D. Ritiene possibile sottrarli a queste imposizioni? R. Lo credo difficile. Troppo cinema, troppa televisione, troppa moda, troppo di tutto, per cui alla fine non c’è niente di buono. I veri artisti sono pochissimi. Guardiamo che cosa espongono certe gallerie d’arte: un cavallo steso in terra, un cocomero comprato al mercato, un Garibaldi in ceramica ecc. Il gallerista spiega che sono opere d’arte e che producono emozioni. Io li considero infantili e squallidi inganni. Si definisce arte d’avanguardia il tentativo di «scioccare» in qualsiasi modo il pubblico. Di recente è stata presentata una collezione di abiti da uomo costituita tutta da gonne; poiché le donne indossano i pantaloni, i maschi potranno indossare la gonna? Sono previsioni senza senso: viviamo in un’epoca in cui è molto improbabile che l’uomo si metta ad indossare la gonna; se qualcuno la propone, lo fa solo per scioccare. D. Evidentemente ne ha un guadagno commerciale. Da che cosa dipende? R. Responsabile è anche la stampa che, descrivendo fenomeni negativi, li pubblicizza, per cui poi c’è sempre qualcuno che li segue. Una giornalista di moda e di costume negli anni 50 e 60, la bravissima Irene Brinn, se una collezione non era bella non ne parlava neppure male, la ignorava; per cui l’autore era costretto a cambiare o lo stile o il mestiere. D. La pubblicità influisce positivamente o negativamente? R. Si può creare la più bella collezione del mondo, ma se non si acquistano pagine di pubblicità su determinate pubblicazioni, non viene riconosciuta tale; così una brutta collezione, se è accompagnata da una ventina di pagine di pubblicità, può diventare il fenomeno della stagione. L’industria tessile acquista pagine di pubblicità sui giornali per importi notevolissimi. I giornalisti devono seguire le regole imposte dalla politica editoriale. A cavallo degli anni 70, assecondando la contestazione studentesca del 1968, molte giornaliste prima entusiaste dell’Alta Moda si misero a denigrarla, a sostenere che era finita, che non esisteva più. Dopo qualche anno la riscoprirono, ma la competenza tecnica è diminuita; alle analisi delle vere esperte sono subentrate cronache mondane, retroscena sui personaggi presenti alle sfilate, fatti privati delle indossatrici; eppure c’era e c’è tantissimo da scrivere sull’Alta Moda. D. Le presentazioni delle collezioni non servono più? R. Oggi alcune giornaliste non assistono neppure a tutte le sfilate; se le spartiscono, ognuna ne vede qualcuna, poi si scambiano le informazioni. Le giornaliste inglesi e americane non sono così, conoscono la tecnica, sono rigorose nella critica, i loro articoli influenzano il mercato, i buyers americani acquistano se il loro giudizio è positivo. Da noi basta comprare tante pagine di pubblicità per diventare un fenomeno; l’industria le compra, fa pubblicità, la riempie di contenuti a volte dissacranti. D. Che differenza c’è tra gli abiti di ieri e quelli di oggi? R. Quelli realizzati dai grandi stilisti erano «costruiti», quelli di oggi possono essere morbidi e piacevoli, ma non sono «costruiti», lo impediscono gli stessi tessuti usati. Sono tutti a sottoveste. La vera Alta Moda è la costruzione, è il taglio, che è assente nel prêt-à-porter. Un tempo si dava importanza allo stile, alla linea, alle proporzioni, al taglio; oggi al massimo si sente dire che un abito è giovane, sexy, alla moda, divertente, come se dovesse far ridere. A mio parere l’abito deve continuare ad avere stile, eleganza, purezza; e soprattutto proporzione, che invece non si conosce più, e colore, che è vita. Non si possono vestire le donne sempre di nero. Ricordo una sera a casa di un principe a Roma c’era tutta l’aristocrazia femminile capitolina vestita di nero; quando giunse mia sorella indossando un tailleur blu elettrico bordato di volpi nere, alcuni mariti esclamarono: «Meno male, è entrato un colore». D. Esistono ancora signore abituate a vestirsi bene? R. Certo, hanno gusto, indossano abiti confezionati per loro da grandi sarti, con belle stoffe; sono in prevalenza italiane, francesi, spagnole. Ma è una clientela destinata ad assottigliarsi anche a causa dei costi. Il personale incide moltissimo, paghiamo affitti da capogiro. Ultimamente ho realizzato un abito ricamato, da favola; ho impiegato mesi di lavoro, pregando la ricamatrice, seguendola, fornendole un disegno minuzioso, facendole regali. Ma se cambiano abitudini, mentalità, sistemi produttivi, l’Alta Moda è destinata a finire. Non potremo più vestire un’élite se non esisterà più un’élite, perché si sta livellando tutto. Emergono nuovi ricchi ma non hanno cultura. Un tempo le giovani imparavano a vestirsi da nonne e mamme, anche dai quadri e dalle fotografie. Per i 18 anni era d’obbligo l’abito in sartoria; poi veniva quello del matrimonio. Un mondo che scompare. D. Si potrebbe tornare alle tradizioni? R. Occorrerebbe un nuovo Rinascimento, ma in tutto. Non basta una bella collezione. Un bravo direttore di orchestra, un bravo attore, un bravo regista, da soli non producono una grande opera. Quando si è distrutto l’artigianato, come ricostituirlo? Occorrono dei maestri. Assumerei volentieri dei giovani, ma andrei incontro a una serie di difficoltà. Però aiuto quelli che vengono per preparare tesi di laurea: gli apro il mio archivio, 53 anni di lavoro. |
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