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GIACOMO LEOPARDI:
LA VERITA' SU FARMACI
E FARMACIE

di Nicola Imberti




Il presidente della Federazione
degli Ordini dei Farmacisti
illustra i problemi
della categoria che interessano
indistintamente tutti i cittadini
per l’indissolubile legame
con la cura della salute

l parroco, il sindaco, il farmacista e, quando ci sono, il maresciallo dei Carabinieri e il medico. Sembra letteratura da Strapaese, roba di anni lontani, dell’Italietta arcaica e rurale. Invece, nel tessuto profondo del Paese le figure di riferimento delle piccole comunità comunali continuano ad essere queste. E non è davvero detto che sia un male». A molti potrà sembrare uno stereotipo ma quella di Giacomo Leopardi, presidente della Federazione degli Ordini dei Farmacisti, in realtà è una semplice fotografia. «Nonostante la scuola dell’obbligo abbia elevato il livello culturale delle persone, per cui non c’è più la mamma che va a farsi leggere dal farmacista le lettere del figlio militare–osserva Leopardi–; nonostante questo, soprattutto nei piccoli e medi centri la figura del farmacista svolge ancora una grande funzione, che si aggiunge a quella della semplice dispensazione del farmaco o del consiglio comportamentale. Il farmacista, infatti, è innanzitutto una figura rassicurante. Se dal medico si va con la paura della prognosi, dal farmacista si va con la speranza della guarigione. Il paziente può sempre ottenere dal farmacista una rassicurazione, una parola di speranza che, secondo il mio parere, concorre in maniera determinante alla terapia. Il farmacista è il fiduciario della gente».
Domanda. Cosa bisogna fare oggi per diventare farmacista? Com’è cambiata la formazione con la riforma del sistema universitario?
Risposta. Attualmente per diventare farmacisti occorre frequentare un corso di laurea in Farmacia o in Chimica e Tecnologia farmaceutiche. Il corso dura cinque anni alla fine dei quali si può sostenere l’esame di Stato per l’iscrizione all’Albo professionale. Il corso di laurea, quindi, non abilita automaticamente all’esercizio della professione; anzi per il laureati in Chimica e Tecnologia farmaceutiche è necessario compiere anche un tirocinio semestrale presso una farmacia aperta al pubblico o sotto la sorveglianza del servizio farmaceutico di un ospedale. La professione è cambiata molto in questi anni e l’Università ha dovuto adeguare la preparazione del farmacista alle modificazioni intervenute nell’esercizio professionale.
D. Quali differenze vi sono tra il farmacista di ieri e quello di oggi?
R. Un tempo il farmacista era colui che preparava e dispensava i farmaci. Oggi, invece, la professione si snoda lungo un arco che va dall’industria all’informazione tecnico-scientifica, all’ospedale, al Servizio sanitario nazionale, alla farmacia. Possiamo quindi dire che oggi la figura del farmacista è più che mai polifunzionale. Per questo, oltre a una formazione di base, ne occorre un’altra nelle diverse specializzazioni. Questa esigenza ha portato a una modifica del piano di studi e ritengo che il farmacista fruisca in modo positivo di questa nuova preparazione. Certamente vi sono materie che il farmacista deve comunque studiare dopo la laurea. L’informatore tecnico-scientifico, ad esempio, deve conoscere la scienza della comunicazione. Quello ospedaliero deve specializzarsi sulle modalità del rapporto tra il medico e il paziente. E anche il farmacista tradizionale, che gestisce la farmacia deve necessariamente conoscere qualcosa di economia.
D. Siete stati toccati dall’introduzione del «tre più due», ossia dalla riforma universitaria che ha introdotto la laurea breve di tre anni?
R. Il corso di laurea in Farmacia ha mantenuto la durata di cinque anni ma si è comunque aperto alle lauree triennali. L’augurio è che questi laureati triennali trovino spazio nel mondo del lavoro. Una direttiva europea stabilisce infatti che, per fare il «farmacista di farmacia», sono necessari cinque anni. Va da sé che questi giovani dovranno trovare spazio in altri settori attinenti alle discipline nelle quali si laureano. Purtroppo non vedo molti spiragli e la vera domanda resta questa: quale tipo di sbocco avranno i giovani che si laureano in tre anni?
D. Molti, soprattutto in Europa, vorrebbero eliminare gli Ordini professionali. Che cosa cambierà per i farmacisti con la prospettata riforma delle libere professioni?
R. L’iniziativa incontra una difficoltà consistente essenzialmente nell’impossibilità di intendersi. Infatti i punti di cui l’Europa contesta la legittimità degli Ordini professionali sono principalmente quattro: le tariffe professionali, la pubblicità, l’assetto della professione e l’accesso alla stessa. Per quanto riguarda le tariffe professionali, in Italia, non è fissato il compenso per il nostro lavoro. Abbiamo una tariffa dei medicinali che è approvata dal Ministero della Sanità, ma che non viene rinnovata da oltre 10 anni. Per cui l’unica tariffa professionale in vigore riguarda quelle ormai pochissime preparazioni che ancora vengono realizzate dal farmacista; si parla dell’1 o 2 per cento del fatturato. Per quanto riguarda poi l’assetto societario della farmacia, in Italia esso è già previsto e regolato dalla legge 362 del 1991. Lo stesso discorso vale per la pubblicità della farmacia, che è consentita dall’Antitrust. Infine non esiste nessun blocco per l’accesso alla professione. Lo dimostra il fatto che siamo oltre 65 mila.
D. Quindi l’Unione europea in sostanza che cosa contesta?
R. È difficile comprenderlo. Dei punti che la Commissione europea segnala come necessari per favorire la concorrenza e la competizione in un mercato più libero, non ve n’è uno che riguardi la situazione italiana. Diverso è discorso inerente l’accesso alla farmacia. Questo è un punto sul quale vale la pena soffermarsi. In Italia l’apertura di una farmacia deve sottostare ad alcune regole relative al rapporto tra le farmacie e gli abitanti, alla distanza tra gli esercizi, alla pianta organica. Queste regole limitano inevitabilmente il numero delle farmacie aperte al pubblico. Si tratta di regole che possiamo discutere, ma tutti i Paesi europei, esclusi Irlanda, Inghilterra, Olanda e Germania dove peraltro l’apertura degli esercizi è disciplinata, hanno una regolamentazione. Non si può infatti pensare che l’esercizio della farmacia sia consentito a chiunque.
D. Per quale motivo specifico?
R. Se così fosse, avremmo una situazione simile a quella che si è verificata in Grecia dove, dopo aver liberalizzato l’apertura delle farmacie, lo Stato è dovuto intervenire per bloccare una proliferazione indiscriminata, soprattutto nelle zone commercialmente più appetibili, come i grandi centri urbani, dove le farmacie erano diventate così numerose che non svolgevano più alcun servizio. Altra cosa è discutere di tutta una serie di regole, ad esempio quelle riguardanti le elezioni degli organi rappresentativi degli Ordini, che forse vale la pena rivedere. In questo campo, se vi sono aspetti da modificare siamo a disposizione. Ma il quadro resta quello che ho tracciato. L’importante è marcare la profonda distinzione esistente tra accesso alla professione e accesso alla farmacia.
D. Crede che possano esservi farmacisti stranieri che vengono in Italia a lavorare e farmacisti italiani che vanno all’estero?
R. I farmacisti stranieri possono già venire a lavorare in Italia, a patto che siano disposti a rispettare le nostre regole. Non c’è nessuno sbarramento per accedere alla professione; viceversa l’apertura delle farmacie in questo Stato, come negli altri, è regolamentata in nome di un interesse superiore, consistente nella necessità di svolgere un servizio pubblico capillare ed efficiente. Purtroppo non assistiamo a fenomeni di interscambio a causa di un problema che continua a sopravvivere: la conoscenza della lingua. Non vorrei sbagliarmi, ma mi sembra che, secondo un dato di alcuni anni fa, fossero appena mille i medici che si muovevano attraverso tutta l’Europa.
D. Il problema della lingua non può essere risolto attraverso una formazione più capillare dei farmacisti?
R. La Conferenza dei presidi delle facoltà di Farmacia si è già attivata per uniformare la preparazione dei farmacisti a livello europeo. Noi siamo ovviamente favorevoli, anche se già oggi, paragonando i corsi di studio dei vari Paesi, è facile accorgersi che essi sono sostanzialmente sovrapponibili. Tra l’altro una direttiva europea del 1985 stabilisce la durata e le materie che devono costituire il corso di studi. Mi preme dire, senza false modestie, che anche in questo campo la formazione dei farmacisti italiani è superiore a quella dei colleghi di altri Paesi.
D. Recentemente è stato detto che in Italia i farmaci costano troppo. È vero? E per quale motivo?
R. Innanzitutto vorrei dire che il farmacista, prima della logica del mercato, segue quella del cliente. Noi vogliamo che la gente stia bene e guarisca. Premesso questo, occorre una puntualizzazione. Quando si parla di aumento dei prezzi, normalmente ci si riferisce ai farmaci di fascia C, cioè a quelli il cui costo è a totale carico del cittadino. E si punta il dito contro i farmaci senza obbligo di prescrizione, i cosiddetti «otc». Eppure pochi sanno - cito i dati fornitimi dall’Associazione nazionale dell’industria farmaceutica dell’automedicazione - che nel 2003 i prezzi dei farmaci «otc» sono cresciuti appena del 3,7 per cento. Tra l’altro questi farmaci costano mediamente meno degli altri prodotti di fascia C. Il problema, semmai, riguarda quei prodotti che, pur classificati in fascia C, e quindi a carico del cittadino, sono soggetti alla ricetta del medico, che ovviamente li prescrive quando il paziente non può farne a meno.
D. Non è una situazione abbastanza complicata per l’assistito?
R. Occorre riconoscere che il problema dei prezzi in Italia è particolarmente complesso. In realtà il nostro è un mercato in cui un unico cliente, il Servizio sanitario nazionale, acquista quasi la maggioranza dei farmaci. Per questo il rapporto s’instaura tra l’industria farmaceutica e questo unico cliente. In questi anni il Governo ha attuato una serie di interventi diretti a limitare i prezzi dei farmaci concedibili in regime di SSN (Servizio sanitario nazionale) e quindi a carico dello Stato, approvando per contro una norma che prevede la libera determinazione del prezzo dei farmaci di fascia C a carico del cittadino che però può essere aumentato solo una volta l’anno. Purtroppo in alcuni casi questo ha causato aumenti indubbiamente rilevanti scatenando le polemiche di queste settimane.
D. Crede che l’assenza di un soggetto intermedio possa risolvere in parte questo problema?
R. È impensabile l’assenza di un intermediario. Il grossista svolge un servizio e non è un parassita. Dopotutto stiamo parlando di un bene che deve essere sempre e immediatamente disponibile sul mercato. L’industria non può garantire questa immediatezza, quindi serve un intermediario. Piuttosto sottolineerei, per quanto riguarda l’aumento dei prezzi, la necessità di una responsabilità tanto del pubblico quanto del privato. Un grave problema distributivo esiste a livello mondiale.
D. In che consiste in particolare?
R. Mi riferisco al dibattito sulla distribuzione dei farmaci contro l’Aids, una malattia che sta colpendo le popolazioni di numerosi Paesi in via di sviluppo. Fortunatamente noi siamo esenti da questa tragedia. Credo comunque che il farmaco essenziale vada garantito a tutti. Non si può pensare che in Africa, nel solo 2003, 3 milioni di persone siano morte a causa dell’Aids. L’ostacolo a risolvere questo problema è costituito dal brevetto. Io ritengo che, di fronte a certi fenomeni, serva un intervento solidale di tutti. Quei Paesi non hanno risorse finanziarie, non possono accedere alle cure, e le grandi industrie farmaceutiche si preoccupano di difendere il proprio diritto di gestire la proprietà dei brevetti. In questo modo i Governi di alcuni Paesi in via di sviluppo hanno aggirato il problema acquistando i componenti generici di quei farmaci prodotti da Paesi terzi. Credo che occorra chiedersi se vale di più la tutela economica di un brevetto o la vita di migliaia di persone. Certamente non possiamo minare alla base il sistema dei brevetti, ma occorre trovare un punto di equilibrio.
D. Potrebbero risolversi i problemi della ricerca e dell’esodo di studiosi italiani che vanno all’estero?
R. Dal punto di vista della ricerca farmaceutica l’Italia è un Paese fruitore. Non abbiamo grandi centri anche se la riforma del corso di laurea, con la creazione della specializzazione in Chimica e Tecnologia farmaceutiche, fornisce nuove leve al sistema della ricerca. Credo che, al di là del discorso relativo al nostro settore, la ricerca deve essere sostenuta anche attraverso il prezzo dei medicinali ma soprattutto attraverso interventi dello Stato. Essa è fondamentale per quel rilancio economico che un Paese occidentale deve necessariamente perseguire.
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