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ENRICO LETTA:
LA RICETTA DEL CENTROSINISTRA
PER LA
RIPRESA ECONOMICA

ntervista al responsabile economico
della Margherita




L’ex ministro per le Attività produttive, ora responsabile
economico della Margherita,
illustra le misure che, a parere
del centrosinistra,
andrebbero adottate per stimolare
lo sviluppo

 

l Governo e la maggioranza di centrodestra non solo hanno compiuto oltre metà del cammino, ma sono ormai quasi alla fine: occorre infatti considerare sia la stasi dell’attività determinata dalle elezioni europee di giugno e dal successivo periodo feriale, sia il fatto che, subito dopo le ferie estive del 2005, comincerà praticamente la campagna elettorale per le politiche del 2006 che comporterà un nuovo lungo fermo dell’attività parlamentare. Gli esperti sanno per esperienza che solo pochi mesi, dal prossimo settembre al giugno 2005, sono rimasti al Governo e alla maggioranza per approvare provvedimenti di rilievo. E questo vale di più nei settori economico e sociale nei quali l’Esecutivo, anche se potrà contare sulla concordia, compattezza e determinazione dei partiti del centrodestra, dovrà confrontarsi con i sindacati, interessati ad approfittare del periodo pre-elettorale per dare battaglia inasprendo tensioni sociali e contrapposizioni politiche. Sia pure per motivi indipendenti dalla propria volontà e dalle proprie azioni, la maggioranza parte svantaggiata perché le difficoltà economiche di origine internazionale, esasperate dall’incauta introduzione dell’euro, determinano nelle masse una reazione contro chiunque sia al Governo, accusato quanto meno di non avere limitato i danni di politiche precedenti. Il centrosinistra quindi, benché ancora diviso, potrebbe raccogliere consensi insperati. Ma quale politica economica propone? Lo chiediamo a uno degli esponenti più obiettivi, preparati e autorevoli, l’ex ministro delle Attività produttive on. Enrico Letta, ora responsabile del settore Economia della Margherita.
Domanda. Qual è il suo giudizio sulla situazione economica attuale e sulle prospettive di ripresa?
Risposta. Siamo in presenza di una crisi economica internazionale molto profonda e che, soprattutto, dura ormai da tempo. È una crisi economica che ha forti legami con la politica. È derivata dagli avvenimenti internazionali, dall'attentato alle Torri Gemelle di New York dell’11 settembre 2001, dall’invasione americana dell’Afghanistan, dalla successiva guerra all’Iraq, dalla perdita di fiducia complessiva registratasi nei mercati finanziari occidentali e che in Italia è stata aggravata dai casi della Cirio e della Parmalat. Stiamo assistendo, pertanto, a un momento di grande difficoltà per l’economia italiana, accentuatasi per di più negli ultimi anni a causa della forte concorrenza che i Paesi in via di sviluppo esercitano sui nostri prodotti.
D. Trattandosi quindi di una serie di fattori internazionali, le difficoltà oggi presenti nel sistema italiano non possono attribuirsi all’attuale maggioranza governativa di centrodestra. È così?
R. Obiettivamente si deve riconoscere che la situazione è complicata da motivi esterni al nostro Paese, ma detto questo, bisogna aggiungere che l’Italia non ha reagito a questa crisi ricorrendo a tutte le proprie risorse. A mio parere esisteva ed esiste un margine notevole di manovra per recuperare il terreno perduto, e comunque per fare molto più di quanto è stato fatto in questi ultimi tre anni. Questo è il motivo per il quale ci siamo impegnati a presentare un’alternativa rispetto alla politica economica seguita dal Governo.
D. Che cosa hanno fatto gli altri Paesi europei, quali provvedimenti hanno adottato per fronteggiare la crisi economica internazionale che ha colpito, quindi, anche loro?
R. Si sono divisi in due grandi categorie. Alcuni hanno puntato a difendere dall’inflazione i salari più bassi, anche a costo di raffreddare lo sviluppo economico; fanno parte di questa categoria la Francia e la Germania, che hanno mantenuto un po’ più bassa l’inflazione anche se hanno registrato una crescita pari pressoché a zero. Altri Paesi, invece, hanno puntato allo sviluppo economico anche a costo di favorire un tasso di inflazione più elevato. E fra questi figurano la Spagna, l’Irlanda e la Gran Bretagna.
D. Nella critica situazione che si è determinata che cosa hanno fatto, o che cosa invece non hanno fatto i governanti italiani?
R. L’Italia non è riuscita a stabilire una propria linea di politica economica. In sostanza si è trovata a reagire a questa crisi internazionale senza scegliere una delle due suddette strade. Cosicché ha finito per subire un’inflazione più alta della media verificatasi negli altri Paesi europei ma con la crescita più bassa fra gli stessi. Quindi crescita bassa e inflazione alta, un risultato che dimostra l’inadeguatezza della politica attuata in questi anni. Inadeguatezza che, a mio parere, è consistita innanzitutto nell’errato metodo seguito in materia di relazioni sociali e sindacali. Precisamente sono state varate o avviate riforme senza una concertazione preventiva con le categorie interessate e in particolare con i sindacati, determinando tensioni, agitazioni, proteste e scioperi che hanno ridotto la competitività del sistema produttivo. Un altro errore è consistito nell’erogare al sistema imprenditoriale, con la legge Tremonti bis, incentivi a pioggia. Ed anche l’annunciata riduzione delle imposte si presenta come un intervento a pioggia.
D. Se questa non è la politica giusta, quale linea, a suo parere, avrebbero dovuto seguire il Governo e la sua maggioranza?
R. Per aiutare le imprese occorre cambiare il modello di sviluppo, puntare sull’innovazione e sulla qualità. Queste due dovrebbero essere le parole d’ordine. Puntare sull’innovazione e sulla qualità vuol dire cambiare il modo con il quale produciamo, le dimensioni delle nostre imprese, il loro rapporto con i centri di ricerca, la presenza sui mercati internazionali. Ma per fare questo le politiche pubbliche non possono essere indifferenziate, non selettive; non dobbiamo continuare ad aiutare settori e segmenti che saranno sicuramente perdenti dinanzi alla concorrenza cinese che ci batte producendo a bassissimi costi. Continuare su questa strada è sbagliato. Ecco perché bisogna aiutare le aziende ad incamminarsi sulla strada della qualità, ecco perché tutti gli incentivi devono essere rimodulati e orientati a favorire l’innovazione. Non aver fatto questo è uno dei principali errori commessi.
D. Non si rischia però di creare problemi di carattere sociale?
R. Al contrario: sono le politiche seguite in campo sociale che hanno rafforzato l’instabilità e l’incertezza. Mi riferisco ad esempio alla riforma delle pensioni presentata dall’attuale Governo, che è stata costruita con modalità del tutto sbagliate perché se è vero che è necessario intervenire sulle pensioni, non bisogna farlo così. A tale proposito il centrosinistra ha presentato una proposta alternativa, molto più lineare e molto più legata al patto che fu stabilito con i sindacati dei lavoratori nel 1995. Secondo me, aveva più senso accelerare l’attuazione di quel patto che adottare ora una riforma che spaventa tutti senza peraltro ottenere quei consistenti risparmi che si dicono indispensabili. Sempre sul terreno della politica sociale, i tagli imposti agli enti locali si sono tramutati in riduzioni dei servizi ai cittadini, ed anche questo ha creato instabilità. È stato commesso, a mio parere, un errore profondo.
D. Quindi un giudizio negativo su tutti i provvedimenti in campo economico e sociale messi in atto dal Governo in carica?
R. Nei fatti gli errori compiuti indicano che sia nei vari settori sia nella politica economica in generale non c’è stata da parte del Governo una risposta adeguata ai problemi reali del Paese. Noi abbiamo indicato quali avrebbero dovuto e dovrebbero essere le soluzioni alternative. È evidente che, se si vuole discutere il grande tema di come rimettere in moto l’economia, stimolare la ripresa e lo sviluppo, dare una scossa al sistema produttivo italiano, occorre una fortissima spinta in queste quattro direzioni: l’innovazione, la qualità, gli incentivi alle imprese, gli aiuti al Mezzogiorno. Non va interrotto quel ciclo virtuoso rappresentato dalla legge 488 che si è rivelata uno strumento efficace anche perché legato a meccanismi automatici, sottratti quindi alla discrezionalità politica. Avendo fornito risultati molto positivi, ritengo che essa sia uno strumento da rafforzare.
D. Qual è il giudizio suo e del centrosinistra sulle agevolazioni fiscali annunciate dal Governo?
R. Oltre alla revisione del sistema di incentivi alle imprese, certamente un efficace strumento per stimolare la ripresa economica è costituito dalla leva fiscale. Ma la riduzione della pressione fiscale va attuata insieme a una riduzione degli oneri contributivi, che appesantiscono notevolmente il costo del lavoro. Le attuali aliquote andrebbero ridotte sia nella parte che grava sulle imprese sia in quella che sta a carico dei dipendenti. Misure di questo genere servirebbero a restituire competitività alla produzione nazionale nei riguardi della concorrenza straniera, e nello stesso tempo ad aumentare il salario o lo stipendio nella busta paga del lavoratore. Questo, secondo noi, sarebbe uno strumento efficace.
D. In quali altri campi si potrebbe agire per stimolare la ripresa?
R. Esistono vari altri settori da sviluppare, che costituirebbero fonti di reddito notevoli. Basta pensare al turismo, che potrebbe generare un giro d’affari notevolmente superiore a quello attuale se curato e gestito meglio. Un forte impulso può essergli dato con una riduzione dell’Iva, ad esempio dall’attuale aliquota del 9 a una del 5 per cento, come quella che è in vigore in Francia e in Spagna. Il turismo è un grande settore sul quale è possibile puntare se però le nostre imprese diventano competitive sul mercato internazionale.
D. Quale politica il centrosinistra propone per le piccole e medie imprese che concorrono in maniera determinante alla formazione del prodotto interno nazionale?
R. Una condizione indispensabile è rappresentata dalla crescita di dimensione delle imprese italiane, che sono sottodimensionate. Per favorirne lo sviluppo potrebbero attuarsi due grandi iniziative. La prima consistente nello stimolare quelle medie, con incentivi fiscali, a fondersi tra loro; questo perché la media dimensione è quella che oggi attraversa le maggiori difficoltà. Questa soluzione non andrebbe bene, invece, per le piccole imprese, che presentano un altro tipo di problemi: hanno bisogno di incentivi non per fondersi ma per operare insieme, in particolare per affrontare l’internazionalizzazione, l’innovazione e l’accesso al credito. Obbligarle a fondersi equivarrebbe a farle perdere l’autonomia; e inoltre, se un’impresa di tre dipendenti si fonde con un’altra che ne ha altrettanti, non nascerebbe un gigante, mentre entrambe perderebbero la loro autonomia. Diverso è il caso di venti piccole aziende che si mettono insieme per avere più facile accesso al credito, innovare i processi produttivi, affrontare i mercati internazionali; in questi casi il sistema pubblico, nazionale o regionale, dovrebbe aiutarle.
D. L’ottenimento di incentivi è spesso condizionato ed anzi ostacolato da macchinose procedure e da un’ottusa burocrazia. Come eliminare queste barriere?
R. Tutte le soluzioni da noi proposte hanno un senso solo se la burocrazia aiuta. Ma ho l’impressione che il federalismo, come è stato avviato dal centrosinistra nella scorsa legislatura e come viene portato avanti oggi dal centrodestra, è destinato a creare instabilità, a moltiplicare i centri di potere, ad aggiungere, anziché ridurre, ulteriore burocrazia. Occorre, in sostanza, mettere a punto definitivamente, una volta per tutte, le regole esistenti, anziché stare a cambiarle in continuazione, come finora è successo e come continua ad avvenire.
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