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TERRORISMO. SI SCONFIGGE
SE NON SI UMILIANO INTERI POPOLI
di IVANO BARBERINI
presidente dellíAlleanza Cooperativa Internazionale e dellíAssemblea
Nazionale della Legacoop



La globalizzazione non può legittimare
la pretesa occidentale di esportare in altri Paesi il proprio modello culturale
e il modo di organizzare la vita sociale: occorre rispettare le differenze

 

 

 

na decina di anni or sono il mondo ha conosciuto un periodo senza conflitti armati. È stata purtroppo una parentesi molto breve: la speranza che la fine della guerra fredda si portasse via il suo pesante fardello di ansie e di paure è stata smentita dal succedersi di eventi drammatici in molte parti del mondo. Il fenomeno del terrorismo internazionale occupa da anni la scena, con atti criminali che alimentano ovunque un clima di tensione e di incertezza. La irrisolta questione israeliano-palestinese e la guerra in Iraq aggravano la situazione facendo intravedere seriamente il rischio di uno scontro di civiltà.
Il ricorso alla tortura da parte di Paesi democratici non rappresenta soltanto un esecrabile delitto contro l’umanità, ma ferisce nel profondo l’identità e il senso di appartenenza dei loro cittadini. Vengono meno i punti di riferimento veri, emerge un’evidente debolezza delle democrazie ad affrontare i tanti problemi del mondo, con la conseguenza di annebbiare i confini tra quello che è giusto e quello che è sbagliato.
Affiora il dubbio sull’esistenza di una classe dirigente, globalmente intesa, che sia in grado di capire dove va il mondo e soprattutto di avere la disponibilità e l’autorevolezza di mediare gli interessi particolari e di breve periodo con quelli di lungo. Le donne e gli uomini si sentono pedine di un gioco che non controllano e di cui non capiscono fino in fondo la logica e il possibile approdo; sentono che nessuno ascolta la loro voce e perdono fiducia nella forza della democrazia.
Ha scritto il sociologo Zygmunt Bauman che «sembra di vivere in un universo di Escher, dove nessuno, in nessun punto, è in grado di distinguere una strada che porta in cima da una china discendente». I fondamentalismi di ogni parte e colore si alimentano di questo insieme di questioni, rendendo sempre più difficile combatterne gli effetti estremi e gli stessi atti criminali. Non basta proclamare e convenire che il terrorismo non ha giustificazione e che va combattuto «senza se e senza ma». Un fenomeno ormai diffuso in ogni parte del mondo non può essere combattuto solo con le armi e tanto meno con le sue stesse armi.
Il terrorismo può essere sconfitto se si agisce anche sul piano culturale, se ci si adopera per ridurre quel senso di frustrazione e di umiliazione che affligge interi popoli; se si combattono le disuguaglianze; se si amplia la conoscenza degli «altri», per non averne paura; se si promuove una sicurezza il cui significato si estenda a tutti, in termini di prospettive per i giovani, di lavoro dignitoso, di superamento della povertà estrema.
Ed è essenziale il rispetto dei diritti umani fondamentali, in modo coerente, innanzitutto da parte delle autorità morali, dei Paesi e delle istituzioni che si fanno portatori dei principi di democrazia, di libertà e di uguaglianza. La dissociazione tra i proclami e la prassi produce effetti devastanti. Per dirlo con Massimo Cacciari, non si è mai chiacchierato tanto di diritti umani e mai si è così alacremente lavorato a costruire un mondo inumano. Non è un caso se alcune grandi potenze non hanno voluto aderire alla costituzione della Corte penale internazionale.
In questo quadro non dovrebbero stupire più di tanto i risultati di un sondaggio, svolto nel luglio del 2002 per conto dell’associazione «Americans for Victory Over Terrorism» per raccogliere l’opinione degli studenti dei college negli Stati Uniti. Questa indagine - Empower America - è ritenuta abbastanza attendibile (margine di errore entro il 4 per cento) ed è considerata la più ampia tra quelle che rivelano il punto di vista degli studenti sul terrorismo, sul Medio Oriente e sull’Amministrazione Bush.
L’indagine rivela che una vasta percentuale degli studenti non si sentono orgogliosi di essere cittadini americani. L’84 per cento di essi dichiara di non credere che la cultura occidentale sia superiore a quella araba, il 43 per cento afferma di essere «fortemente in disaccordo» su questa superiorità e soltanto il 3 per cento si dichiara «pienamente d’accordo»; il 70 per cento non vorrebbe servire nelle forze armate per missioni all’estero; il 71 per cento è in disaccordo con l’affermazione «i valori degli Stati Uniti sono superiori a quelli delle altre nazioni»; il 57 per cento degli studenti ritiene che le politiche degli Stati Uniti abbiano una qualche responsabilità per gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001. Infine la maggioranza degli studenti ritiene che un più alto livello di multiculturalismo rappresenti la chiave di volta per prevenire ulteriori attacchi terroristici.
Niente fa ritenere che in questi due anni vi siano state ragioni per far cambiare agli studenti la loro opinione. I commenti alle risposte fornite dagli studenti sono stati molto severi. Il loro atteggiamento è considerato, da parte degli esponenti dell’Associazione, frutto di confusione morale e della mancanza di conoscenza dei fatti e dei crimini compiuti da molti Paesi islamici.
Al contrario, sono risultati che dovrebbero sollecitare una riflessione aperta e pacata. Più che esprimere un mero giudizio morale, varrebbe la pena ascoltare e cercare di capire le ragioni che motivano quelle affermazioni. Anche l’insufficiente conoscenza dei problemi da parte degli studenti non è attribuibile semplicemente a loro negligenza. Questo vale, ovviamente, anche per il nostro Paese.
Ascoltare di più la voce di quanti invitano a non proclamare la superiorità della propria civiltà, ma a rafforzare il dialogo con quanti sono aperti al confronto, nelle diverse parti del mondo e della società, può portare a risultati migliori di quelli che si stanno ottenendo con il solo ricorso alle armi, per quanto riguarda sia la lotta al terrorismo che la diffusione della democrazia.
Un punto dovrebbe essere tenuto ben fermo: la globalizzazione non può legittimare la pretesa occidentale di esportare in altri Paesi il proprio modello culturale e il modo di organizzare la vita sociale; la gestione della diversità deve essere basata su regole di civile convivenza, reciprocamente rispettosa delle differenze.
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