FIASO. NON AI POLITICI LA GESTIONE DELLA SANITÀ
Il «sistema Tarantini» e l’inchiesta della Procura di Bari che l’ha passato al setaccio hanno nuovamente acceso i riflettori sull’intreccio politica-sanità. Il coro dei diversi schieramenti politici per una volta è stato unanime: «I partiti devono essere estromessi dalla gestione sanitaria». Più facile a dirsi che a farsi. Basta vedere l’iter parlamentare del disegno di legge che, di fatto, ridefinisce la governance di Asl e ospedali, marcando in modo più deciso i poteri gestionali di direttori generali e dirigenti, sia sanitari che amministrativi, rappresentati da un nuovo organismo, il collegio di direzione, che dovrebbe affiancare il direttore generale nella conduzione dell’azienda.
Un modo per rendere invalicabile il confine tra politica e gestione della «cosa sanitaria» sul quale si è, per una volta tanto, creata un convergenza bipartisan con la stesura di un testo unificato, che da mesi giace però immobile nella commissione Affari sociali della Camera, e che da lì non sembra destinato a muoversi in tempi brevi. Segno che le resistenze a fare un passo indietro sulla gestione di un sistema che vale circa 110 miliardi di euro l’anno sono ancora più forti delle buone intenzioni.
Del resto basta gettare uno sguardo ai dati sullo spoil system che da oltre un decennio fa piazza pulita di buona parte dei manager delle aziende sanitarie ad ogni cambio della guardia nei consigli regionali. O spesso anche prima. I numeri li fornisce il Cergas, Centro di ricerche sulla gestione sanitaria della Bocconi. Ebbene, dal 1996 al 2008 in media i direttori generali di Asl e ospedali non sono rimasti sul ponte di comando per più di un anno e quattro mesi.
Poco meglio è andata ai manager delle aziende ospedaliere, il cui incarico è stato in media di 3 anni e otto mesi. Ma in alcune regioni, come la Calabria, dalla stanza dei bottoni delle Asl si è entrati e usciti con la porta girevole, visto che la durata media dell’incarico non è andata al di là dei 18 mesi. E il discorso non cambia se si vanno ad analizzare i dati, forniti sempre dal Cergas, sulla mobilità di direttori sanitari e amministrativi.
Un’instabilità che da un lato rende più difficile programmare quei progetti di efficienza che richiedono tempi più lunghi per dare i loro frutti mentre, dall’altro, rende meno forti i manager davanti ai tentativi di invasione di campo della politica. Che spesso predica il decentramento ma che in sanità ultimamente sembra muoversi in direzione opposta. Di «pericolo neo centralista» parla Giovanni Monchiero, presiedente della FIASO, Federazione Italiana Aziende Sanitarie ed Ospedaliere, che rappresenta circa due terzi delle Asl e degli ospedali pubblici d’Italia. «Sono le forme di accentramento di decisioni di governance le più preoccupanti, quando–afferma Monchiero–entrano in scena altri erogatori che non rispondono più all’azienda ma direttamente alla Regione. Si tratta a nostro avviso di involuzioni di sistema su cui è bene vigilare. Oltre un certo limite, infatti, i benefici che si può pensare di ottenere dalla centralizzazione vengono poi pagati in termini di minore capacità di governo interno. È un problema sottovalutato».
Spoil system e neo-centralismo strisciante dunque, ma a rendere più esposti ai venti della politica i manager sanitari è anche la discrezionalità con la quale loro stessi vengono scelti dalle Regioni. Che la nomina dei direttori generali sia un atto di natura fiduciaria da parte dell’azionista unico Regione è un principio che non mette in discussione nessuno. Tantomeno la FIASO, che rappresenta direttori generali e aziende. Ma il problema è un altro. Oggi per essere nominati ai vertici di una struttura complessa come un’Asl o un’azienda ospedaliera basta una laurea qualsiasi e un certificato di nascita. Meno dei requisiti richiesti ai direttori sanitari e amministrativi che pure dai direttori generali dipendono.
Non che ai vertici delle Asl sia stato insediato un esercito di incompetenti. Altrimenti non si spiegherebbe come il nostro Servizio Sanitario Nazionale riesca a far collocare stabilmente l’Italia ai vertici della classifica dell’Organizzazione Mondiale della Sanità sull’aspettativa di vita e sullo stato di salute della popolazione. Ma certo non guasterebbe un po’ meno discrezionalità della politica nell’assegnazione di incarichi di massima responsabilità nella conduzione di aziende che, oltre a un bene essenziale, quale è la salute, gestiscono anche risorse per qualche miliardo di euro.
«Le aziende e i loro direttori sono pronti a raccogliere questa sfida senza temere giudizi ma offrendo il proprio contributo di esperienza nell’elaborazione e nell’applicazione di strumenti gestionali innovativi», assicura per la FIASO Monchiero. Basterebbe allora fissare criteri di selezione più rigidi per le nomine, stabilendo poi parametri di valutazione sul raggiungimento degli obiettivi ai quali ancorare le conferme. Due semplici mosse per superare lo spoil system e garantire, a chi gestisce la nostra sanità, più forza per svincolarsi dagli abbracci della politica.
Alla quale, è bene sottolinearlo, spetta il compito di decidere il modello di assistenza da offrire ai cittadini elettori, ma non quello di mettere il becco su appalti e nomine interne. Magari dei primari. Potere decisionale quanto mai delicato, visto che qui, oltre all’efficienza di gestione, è in gioco la salute delle persone. Dalle colonne di «Repubblica» Mario Pirani, dando voce a un pensiero diffuso, ha insistentemente proposto di affidare solo a chi possiede alte competenze mediche il potere di scelta dei primari. Dimenticando che, per ricoprire quel ruolo, sono richieste anche grandi capacità organizzative oltre che cliniche. Capacità che per i firmatari del provvedimento bipartisan sul governo clinico fermo alla Camera è giusto continuino ad essere valutate dal direttore generale, che del buon funzionamento dell’azienda è il responsabile.
Per sgomberare il campo dagli equivoci, però, il testo prevede un sistema di selezione più rigidamente ancorato a titoli professionali e di carriera. Una commissione composta dal direttore sanitario e da due dirigenti di struttura complessa della disciplina oggetto dell’incarico, individuati attraverso pubblico sorteggio da un elenco regionale, dovrebbe infatti formulare un giudizio motivato su ciascun candidato, tendo conto di titoli professionali, scientifici e di carriera posseduti. Fatte le valutazioni, la commissione presenterebbe poi una terna di nomi al direttore generale, al quale spetterebbe infine il potere di nomina. Comunque motivato. Un sistema di garanzia per tutti che c’è da augurarsi non resti tra gli archivi dei disegni di legge incompiuti del Parlamento.
di Paolo Russo
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