Il nostro sito usa i cookie per poterti offrire una migliore esperienza di navigazione. I cookie che usiamo ci permettono di conteggiare le visite in modo anonimo e non ci permettono in alcun modo di identificarti direttamente. Clicca su OK per chiudere questa informativa, oppure approfondisci cliccando su "Cookie policy completa".

Corpi intermedi: un possibile antidoto contro il populismo

Oggi i corpi intermedi si trovano di fronte ad una stagione di grandi incertezze, di timori sul futuro che generano ribellismi, reclamano la fine dei grandi potentati politici, cercano nuovi modelli di rappresentanza essenzialmente di protesta. I corpi intermedi vedono venir rimesse in discussione alcune caratteristiche della loro azione: quella di mediazione sociale, quella di unificazione solidale degli interessi, quella di formazione culturale e politica in grado di offrire alla società persone preparate capaci di assumersi responsabilità nei riguardi degli interessi generali. La presenza dei populismi non spiega integralmente le difficoltà odierne dei corpi intermedi. Emerge con la globalizzazione, una progressiva individualizzazione degli interessi e delle appartenenze. Una sorta di detonatore per le tradizionali esperienze di rappresentanza che finisce con il cercare di fare piazza pulita di quello che c’è a vantaggio di una vocazione alla democrazia diretta che è uno dei pilastri in Italia dell’affermazione del movimento di Beppe Grillo. Il nuovo Vangelo politico diventa così il rapporto diretto fra popolo e leadership. Anche se poi il «popolo» evocato non di rado appare un’astrazione, utilizzata per contestare i gruppi dirigenti e dare forma politica a un malessere più o meno esteso ma senza approfondirne le ragioni. I populismi hanno una data di nascita precisa: con la caduta del muro di Berlino e la fine del comunismo, e in contemporanea con l’accelerazione della globalizzazione si sono determinate crisi a ripetizione, i conflitti sono aumentati, i diritti dei lavoratori hanno cominciato ad essere ridotti perché assimilati a privilegi; il welfare, grande conquista del riformismo, ha cominciato a vacillare con l’invecchiamento della popolazione e i margini più ristretti della spesa pubblica. Per non parlare delle successive questioni riguardanti immigrazioni bibliche, l’implosione del mondo mussulmano, i nodi relativi all’energia e alla tutela ambientale. Il populismo raccoglie in sé due pulsioni antitetiche che escludono entrambe un ruolo per i corpi intermedi: una vena democraticistica (con l’uso diffuso di forme di democrazia diretta attraverso internet e i social), una tendenza autoritaria e intollerante che vorrebbe sostituirsi alla palese corruzione dei vecchi modi di far politica. Quel che colpisce in particolare è che anche quando questi movimenti populisti compiono passi falsi, il loro consenso fra la gente non sembra diminuire. In contrasto con una delle motivazioni fondamentali che regge i corpi intermedi, vale a dire la convalida democratica del loro agire presso gli iscritti e la platea di coloro che guardano ad essi e ne sono coinvolti. La spinta verso il populismo trova una delle sue ragioni di fondo nel distacco fra politica e cittadini. In Europa la sudditanza di gran parte della cultura di sinistra e riformista nei confronti del neoliberismo e dello strapotere della finanza ha creato un ulteriore vuoto nelle attese dei ceti sociali più duramente colpiti dalla crisi e da politiche di rigore a senso unico. senso unico. Ed ha condizionato anche i comportamenti di ceti medi impoveriti. L’evidente concentrazione della ricchezza in poche mani finisce per indicare il livello di frattura che si è determinato fra i pochi che hanno e i molti che temono di perdere tutto. E la cui protesta investe direttamente le classi dirigenti financo a prescindere dal loro operato e da promesse che non ricreano più alcun tipo di fiducia. Il paradosso è che un movimento come i 5 Stelle non solo critica e cerca di demolire il ruolo dei sindacati ma tenta di proporre astutamente il mondo dei social come il modo di essere di corpi intermedi liberatisi di ogni burocratismo e di ogni collateralismo con il potere politico. Il nuovo sociale, insomma: in guerra con lo Stato accentratore che esercita il suo potere con una burocrazia soffocante e inefficiente. E che permette ai partiti e alle forze sociali, come i sindacati, di «occupare odiosamente le Istituzioni, con la loro arroganza, la corruzione, lo spirito di casta». Sono dell’opinione che sia pericoloso affidarsi solo alla rete. Alla frantumazione sociale che ha disperso interessi e bisogni sia dal punto di vista generazionale che da quello legato al reddito e alla dequalificazione professionale derivante dall’evoluzione tecnologica; non si risponde con dei plebiscitari «si» o «no», con dei tweet più di una volta umorali, con una chiamata alle armi episodica e plebiscitaria. Occorre scavare nelle ragioni più profonde degli squilibri, occorre avere una presenza capillare e continua nei territori e fra le persone, occorre avere strategie e proposte che vanno costruite in modo tale da generare ampi consensi, occorre comunque avere degli intermediari competenti e credibili a far da tramite con i problemi della gente. Viviamo in un’epoca nella quale non può più esserci una frattura insanabile fra lavoro e capitale. Il terreno di impegno è diventato un altro per mille e una ragione: quello della collaborazione fra impresa e sindacati che non esclude il conflitto ma amplia e di molto gli spazi della partecipazione. I corpi intermedi hanno superato le vecchie illusioni ideologiche ma faticano a dotarsi di strumenti culturali e di azione nuovi. Guardiamo al logoramento di alcuni strumenti di lotta, che pur mantengono validità, come il ricorso allo sciopero. È più difficile motivarlo, realizzarlo e cogliere frutti anche quando l’adesione ad esso è larga. Rischia di isolare il sindacato e quei lavoratori che lo fanno, mentre ieri uno sciopero era motivo di riflessione per tutti e spesso ampliava anche ad altri ceti sociali il consenso. Il cambiamento indotto dalla globalizzazione ha reso più evidenti le rughe di un certo agire, l’affanno nel recuperare progettualità, fantasia, passione. È una constatazione che riguarda non solo i sindacati ma anche le forze imprenditoriali con l’aggiunta per queste ultime che l’incertezza sul futuro dell’economia deprime maggiormente la voglia di rischio, di investire, di crescere. Ma questa constatazione non può sancire la convinzione che debbano essere considerati inutili. Tutt’altro. Queste forze possono e debbono dare ancora molto. Il sindacato ha il compito più ingrato ma non meno necessario. L’associazionismo, il volontariato sono tuttora favoriti da articolazioni nella vita civile che coprono loro le spalle. Si pensi alle associazioni che agiscono utilmente e con coraggio con il favore delle Chiese per alleviare le tante emarginazioni. Il sindacato appare più solo anche se in Italia come in Europa è stato fautore indiscusso di progresso economico e ha avuto un ruolo importante nel ricostruire la democrazia nell’Europa prostrata dal secondo conflitto mondiale. In molti dei diritti civili che oggi diamo per naturali c’è l’impronta delle lotte sindacali. Dall’orario di lavoro allo stop allo sfruttamento di donne e bambini, dal salario all’istruzione, dal diritto a contrattare a quello a vedere tutelata la salute. È un continuo rimando fra problemi del lavoro e problemi sociali che ha portato i sindacati italiani a farne un fattore di promozione umana e civile di grande spessore e valore. Questo mondo però, dobbiamo dirlo con franchezza, ha virato verso latitudini del tutto nuove. È cambiato irreversibilmente. Va affrontato per quello che è, senza nostalgie e senza ripiegare su se stessi. Il movimento sindacale deve saper guardare in faccia la realtà. Il maggiore sforzo lo deve compiere sul piano strategico. Lo aiuta un fatto: che per sua natura è proiettato verso i risultati. Le sue piattaforme sono valide perché cambiano le cose, ottengono effetti, modificano realtà, sia pure attraverso compromessi. Orari, welfare, contrattazione, fisco, tempo libero, cinque test non aggirabili per comprendere se e come il sindacato saprà far fronte alle sfide che ha di fronte. Può riuscirci ma serve coraggio. Certo, occorrono altre due condizioni: la prima è che la vita politica ritrovi la forza di interessarsi ai grandi problemi della società. Come non notare che mentre le grandi fedi religiose si muovono, sono punti di riferimento per grandi masse di poveri, rivendicano un ruolo centrale della solidarietà nella formazione di decisioni che riguardano la convivenza nel mondo intero, questo dinamismo e questa vocazione mancano nel mondo laico, si sono perse nella politica. Papa Francesco quando parla di diseguaglianze è credibile, quando ne parla un politico è retorica. Riguadagnare la sponda dei valori è condizione necessaria per restituire alla politica autorevolezza e credibilità. La seconda condizione riguarda le organizzazioni delle imprese, anche esse in crisi di rappresentatività, molto più prese a lucrare dai Governi elargizioni che non vengono tradotte in risultati conseguenti in termini di crescita, ma povere sul piano della proposta. A tutto questo va aggiunta una considerazione. Il modello di rappresentanza delle organizzazioni sindacali e imprenditoriali è vecchio e superato. Il pluralismo sindacale e imprenditoriale come lo vediamo rappresentato oggi è ciò che resta della loro esperienza maturata nel secondo dopoguerra ma con un contesto ideologico, culturale e politico ormai inutilizzabile e archiviato anche nella testa di imprenditori e lavoratori. La memoria storica, la tradizione, i valori di riferimento sono e restano beni importanti. Ma non possono divenire un freno, un ostacolo a immedesimarsi nella modernità. Di conseguenza la pluralità di sindacati ancora presenti sulla scena e di organizzazioni imprenditoriali rischia di divenire anacronistico in assenza di distinzioni davvero marcate e sostenibili. Serve nei due campi un processo di unificazione che potrebbe diventare anche un grande processo di rinnovamento. In Italia un tentativo in campo imprenditoriale si è fatto con l’alleanza fra le associazioni delle piccole imprese, ma è giunto ad un punto morto. Eppure l’Italia delle piccole imprese, della impresa diffusa è quella che sorregge le sorti economiche. Più del 90 per cento delle imprese italiane sono piccole o medie aziende. Danno lavoro a più del 50 per cento della platea dei dipendenti. Sanno essere presenti sui mercati internazionali e sanno fare innovazione di prodotto. Hanno esigenze comuni, si confrontano allo stesso modo con le Istituzioni, ma non hanno una rappresentanza unitaria come meriterebbero. Le confederazioni sindacali hanno fatto passi in avanti importanti sulle tematiche che sono fondamentali per garantire un ruolo, ma non riescono ancora a realizzare un vero cammino unitario che potrebbe rimetterle in gioco anche sulla politica economica e sociale del Paese con più forza. Da ultimo, ma non ultima, si pone una questione di democrazia. Da sempre il riformismo ha coniugato il progresso sociale con i valori di libertà e democrazia. Oggi essi così come sono appaiono logorati e non in grado di determinare nuova fiducia. Restare fermi significa imboccare la via della regressione e di probabili avventure autoritarie. Andare avanti significa confrontarsi con il futuro che si vuole costruire per l’Europa, con l’attualizzazione dei valori di una sinistra laica e riformista, con la rigenerazione delle organizzazioni che possono aprire una stagione nuova e non populista. Per arrivare a questi obiettivi occorre un grande lavoro di studio e comprensione delle dinamiche reali delle nostre società. Sappiamo che non possiamo più contare su una classe sociale di riferimento, ma siamo anche coscienti che non si può assistere impotenti alla disgregazione sociale. Aristotele diceva che la comunità politica migliore è formata da cittadini della classe media. Oggi sono proprio le classi medie a soffrire della peggiore crisi di identità. Tutto va approfondito, le battute ad effetto non spiegano quello che avviene e come intervenire. Danno solo una popolarità effimera. Ma per approfondire conoscenze e possibili soluzioni ai problemi delle nostre società non possiamo indulgere nelle contrapposizioni, non possiamo tollerare i meccanismi che escludono ma ripristinare quelli che sanno di inclusione. Non possiamo cavarcela accettando che il criterio da far valere è quello del successo ad ogni costo. Dobbiamo diffidare delle élite che al dunque privilegiano convenienze esclusive. Dobbiamo saper rimettere in gioco la dialettica, le scelte di campo autentiche, il mettersi al servizio di aspirazioni che portano ad una società più stabile per tutti. Dobbiamo rivalutare il valore della esperienza. Dobbiamo combattere posizioni difensive che non aggrediscono per paura i nodi da sciogliere. E dobbiamo tornare ad una concezione del governare che guarda al bene comune. Governare non è comandare. Governare è dirigere, decidere, realizzare. Ed è importante che progressivamente si riaccendano le speranze con la convinzione che partecipando alla vita politica e sociale si possano cambiare le cose. Oggi la gran parte dei nostri concittadini nascondono i loro veri sentimenti. In tal modo anche i sondaggi, le previsioni sui loro comportamenti elettorali sono fallaci, e sbagliano. L’assenza di una consuetudine a discutere insieme, a confrontarsi, a cercare di capire le ragioni dell’altro, rende ancora più incomprensibile questa società e provoca quei fenomeni come il voto all’ultimo minuto, last minute, sul quale falliscono clamorosamente, come si è visto, gli exit poll. E vanno evitate le guerre per errore, quelle che nascono appunto da mondi che si scontrano senza conoscersi, senza aver avuto il tempo di comprendersi. Senza aver potuto misurare convinzioni e passione nel gestire le proprie idee. È un grande lavoro, ma qualcuno deve pur farlo. Spetta soprattutto ai giovani dedicarsi ad esso. Con i loro entusiasmi e la loro carica ideale. Ma spetta alle generazioni più mature non chiudere loro gli spazi, non farli vivere con l’incubo che la loro esistenza sarà peggiore di quella di coloro che li hanno preceduti, che hanno prosciugato il lago delle opportunità, che hanno cancellato valori che potevano essere spendibili per rendere migliori le società in cui si vive. Compiti e responsabilità da assumere per dare un senso ad un percorso di costruzione di società più giuste. Nelle quali a guidare la marcia sia ancora e sempre il valore della libertà. Che non è un valore solo individuale. Lo fa capire bene Nelson Mandela quando sostiene che «la libertà è una sola. Le catene imposte ad uno di noi pesano sulle spalle di tutti». Spezzare queste catene resta un compito quanto mai attuale ed entusiasmante. È il sistema migliore per arrestare la marcia dei populismi e per ridare funzioni e smalto alla esperienza storica delle organizzazioni sociali. I corpi intermedi hanno infatti non solo una sfida da affrontare ma anche una grande opportunità: quella di lasciare il segno nello sforzo di riequilibrare assetti politici, economici e sociali stravolti da tutto ciò che è successo. Restano un segnale di speranza, hanno in loro le capacità per recuperare il terreno perduto. E al loro interno c’è una nuova, giovane classe dirigente che si va formando e che non conosce la parola rassegnazione. I motivi per immaginare un futuro importante ci sono tutti. Ed è un bene per una società che ha bisogno di loro per costruire un futuro migliore.

Tags: Giugno 2017 Giorgio Benvenuto

© 2017 Ciuffa Editore - Via Rasella 139, 00187 - Roma. Direttore responsabile: Romina Ciuffa