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Lo Stato dei diritti e il diritto di punire: difendere la dignità è difendere la democrazia

Maurizio De Tilla presidente dell’associazione nazionale avvocati italiani

C'è un diritto che potremmo dire essere un altro modo d’indicare il diritto di avere diritti, ed è il diritto al nome: un diritto al quale i trattati di diritto costituzionale, se non l’ignorano, dedicano poche righe. La nostra Costituzione, all’art. 22, tra i diritti umani fondamentali stabilisce che nessuno può essere privato del suo nome perché i Costituenti sapevano il valore di quel che dicevano. «Nominando» si specifica, si riconosce, si creano le premesse per creare un rapporto.
Questo non accade, oggi, alle centinaia di migliaia e, in prospettiva, dei milioni di migranti che sono, per noi, milioni non solo di senza nome, ma anche di senza terra. «Quel che è senza precedenti–scriveva Arendt con riguardo alla tragedia del suo popolo negli anni 30 e 40 del Novecento–non è la perdita della patria; ma l’impossibilità di trovarne una nuova». Tale impossibilità, allora, era determinata dalle politiche razziali e colpiva comunità umane determinate. Oggi, deriva dalla condizione generale del mondo saturo globalizzato.
Questa situazione estrema è la sorte delle persone private dei diritti umani. I diritti umani sono una realtà per chi sta sopra, e il contrario per chi sta sotto. Lo stesso, per la dignità. Per chi sta sopra, le rivendicazioni di chi sta sotto e chiede di emergere all’onor del mondo sono attentati allo standard di vita dignitoso di chi sta sopra (Gustavo Zagrebelsky). Diritto è anche dignità. Per vivere occorre un’identità, ossia una dignità. Senza dignità l’identità è povera, diventa ambigua, può essere manipolata. Il mancato rispetto della dignità produce un effetto di delegittimazione. Tu non mi riconosci nella mia pienezza di persona degna e io non ti riconosco nella tua sovranità istituzionale. Difendere la dignità è difendere la democrazia. La dignità è anche nel rapporto con gli altri. Tu non puoi negarla al prossimo nel momento in cui la rivendichi per te stesso.
Nella crisi ha inciso soprattutto la pretesa di spostare nella sfera economica il luogo dove si decidono i valori e le regole. Questo ha comportato uno spostamento del potere normativo: poiché sono io quello che gestisco il danaro e investo, sono io che detto le regole. Il tramonto dello Stato costituzionale dei diritti. Un primo cambiamento riguarda la costruzione stessa dell’identità. Quando io posso raccogliere una serie di informazioni su una persona, e sono anche in grado di fare valutazioni prospettiche - se ha fatto questo, farà anche quest’altra cosa - in sostanza sto partecipando alla costruzione della sua identità (Stefano Rodotà).
Nell’ambito del tema in esame assume un ruolo fondamentale lo Stato di diritto e il diritto di punire. Che in Cina sia stata eseguita una condanna capitale non è una notizia, data la frequenza con cui in quel Paese ciò avviene. Si tratta dunque di «normalità». A colpire è piuttosto il commento di un giornale di Pechino. Il giustiziato è un giovane contadino che aveva ucciso un funzionario del partito comunista. Costui aveva ordinato l’abbattimento della casa del giovane, che la stava ristrutturando nell’imminenza delle nozze ed era stato perciò fortemente sconvolto.
Sul caso si era mobilitata l’opinione pubblica con la richiesta della salvezza dello sventurato mediante la conversione della condanna a morte in ergastolo. Ma in Cina la giustizia, come si dice, non guarda in faccia a nessuno e fa il suo corso fino in fondo. Il giornale di Pechino ha scritto: «È il trionfo dello Stato di diritto, perché la legge si attiene solo ai fatti e non ammette compromessi con i sentimenti della gente».
Così ha commentato la vicenda il filosofo Aldo Masullo: «Ciò che nelle parole del giornale cinese inquieta è l’identificazione dello Stato di diritto con l’inflessibilità, anzi direi la spietatezza, della funzione punitiva». Si ometta pure l’ovvia osservazione che regole dettate dal legislatore legittimo in nome del diritto mite e della punizione personalizzata sarebbero anch’esse leggi dello Stato e dunque, se ciò avvenisse, il «sentimento della gente» non si troverebbe in intollerabile contrasto con la formale inesorabilità della legge, ma costituirebbe un materiale prezioso per suggerire nuove linee. La questione va ridotta in termini elementari, a partire dal fatto che la maturazione civile appare frenata da vecchi modelli di stratificati pregiudizi.
In breve, se nella coscienza comune lo Stato di diritto viene dai più immaginato ancora secondo il modello dell’astratta durezza punitiva, e se l’attenzione alle concrete situazioni delle persone e ai loro condizionamenti sociali si considera un mero umanitarismo peloso, allora ogni tentativo di umanizzazione della pena evidentemente appare come una minacciosa lesione del principio stesso dello Stato di diritto.
Perciò la severità di un giudice inesorabile, per essere utile dev’essere accompagnata da una dolce legislazione. In ogni caso la certezza di un castigo, benché moderato, farà sempre maggiore impressione che non il timore di un altro più terribile, ma unito con la speranza della impunità. Peraltro la pena prevista dalla legge non solo dev’essere moderata, mai più grave di quanto strettamente lo esiga la riparazione del danno sociale, ma soprattutto dev’essere sentenziata con prontezza, evitandosi quanto più è possibile la carcerazione preventiva. Insomma non è la terribilità della pena a far desistere dal delitto. La pena prevista dalla legge sia dunque mite ma sia irrogata con prontezza, e sia certa la sua esecuzione. In questo quadro, lo Stato di diritto, i cui statuti garantiscono il rigoroso rispetto delle regole, e in particolare lo Stato non solo liberale nelle garanzie ma pure democratico perché legittimato dalla volontà popolare, non necessariamente, per non contraddirsi, si scontrerebbero con i sentimenti della gente calpestandone la normale pietà.
Bisogna anche tener conto che è spesso usurpata la parola «libertà». Libertà è parola difficile da maneggiare e più di altre soggetta agli abusi dei ladri di parole. Oggi, come nel passato. La libertà invocata dai ceti - o anche solo da singole persone - economicamente dominanti al fine di salvaguardare interessi e privilegi particolari non è solo, come si intuisce, un tratto di Roma antica. In un libro recente, intitolato «La libertà dei servi», Maurizio Viroli ha messo in luce come la libertà dei cittadini, a differenza della libertà dei sudditi, non sia una libertà dalle leggi, ma una libertà grazie o in virtù delle leggi. Perché vi sia vera libertà è necessario che tutti siano sottoposti alle leggi o, come recita il classico precetto, che le leggi siano più potenti degli uomini.
Nel quarto libro delle «Leggi» Platone osserva: «Coloro che di norma vengono chiamati governanti io li ho chiamati ‘servitori delle leggi’, non per stravaganza nell’uso delle parole, ma perché sono convinto che in ciò soprattutto stia tanto la salvezza di uno Stato, quanto la sua decadenza».
E, nell’orazione in difesa di Cluenzio (66 a.C.), Cicerone così si esprime: «Tu devi necessariamente concedermi che è una vergogna molto maggiore che in uno stato di diritto si trasgrediscano le leggi. Questo è infatti il vincolo che garantisce la nostra posizione sociale in seno allo Stato, questo il fondamento della libertà, questa la fonte della giustizia; la mente, l’anima, il senno, il pensiero di una comunità, tutto è basato sulle leggi. Come il nostro corpo non può reggersi senza la mente, così lo Stato senza la legge non può valersi delle sue parti, che sono come i suoi nervi, il suo sangue, le sue membra. Ad applicare le leggi sono chiamati i magistrati, a interpretarle i giudici, ma tutti, per concludere, siamo al servizio delle leggi per poter essere liberi».
Ora da quanto sopra scritto da Gianrico Carofiglio nel libro «La manomissione delle parole» scaturisce la considerazione di come può essere qualificato uno Stato che modifica continuamente le prescrizioni legislative in nome di presunte innovazioni che non sono tali e che sono, invece, imposte dai poteri forti (le liberalizzazioni selvagge). Nell’ambito dei diritti si deve anche parlare di reputazione. La reputazione è un gioco che gli esseri umani fanno da sempre, un gioco di credibilità.
Se vogliamo mantenere almeno un briciolo di razionalità nella spiegazione delle motivazioni che ci spingono ad agire, bisogna attribuire alla reputazione, e non solo all’interesse, il ruolo di movente dell’azione. È il nostro secondo io, l’io sociale che a volte prende decisioni e guida l’azione. Bisogna allora cercare di comprendere in che senso la reputazione possa essere una motivazione dell’azione. Porre questa domanda significa capire quali siano le teorie nelle scienze sociali contemporanee che sviluppano, o potrebbero sviluppare, modelli dell’azione umana in cui la reputazione è una variabile indipendente, un fattore che, se lo si fa variare, varia con esso l’azione umana.
Per esempio, nel caso delle teorie morali, bisognerà analizzare quelle secondo le quali gli individui non agiscono moralmente perché sono motivati dall’amore per la giustizia, ma da ciò che pensano gli altri. Oppure, nel caso delle teorie economiche, bisognerà guardare quelle che considerano la reputazione una risorsa limitata, affermando così che esista una domanda per questa risorsa che vincola il comportamento degli attori. Ma, prima di tutto, vediamo qual è l’ontologia di questo nuovo «homo comparativus» che si delinea all’orizzonte, la cui azione dipende dalle relazioni con gli altri e la cui motivazione è il riconoscimento che gli altri gli daranno.
Gli esseri umani non sono né essenzialmente competitivi né essenzialmente cooperativi: sono comparativi. I risultati delle loro azioni assumono un senso solo se confrontati ai risultati delle azioni degli altri o a una scala normativa di valori. Il valore - che sia morale, epistemico o economico - si crea attraverso scarti qualitativi in un contesto di un paragone.
Il valore non è nelle cose o nelle persone stesse: come due specchi che si guardano, il valore si crea nella relazione tra le cose o tra le persone, è il prodotto autonomo dello scambio comparativo e non ha altre finalità: creano valore per creare valore. Non lo si può ridurre ad altre grandezze che gli preesistono, come l’utilità, la rarità o il lavoro (in economia): il valore è la traccia cognitiva, la generazione di opinioni che qualsiasi interazione produce e che struttura la percezione che abbiamo di noi stessi e degli altri. (Gloria Origgi, «La reputazione e i suoi doppi», Il Sole 24 Ore).   

Tags: Marzo 2017 libri Maurizio de Tilla

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