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ALITALIA, DECOLLO NON RIUSCITO

Luca Cordero di Montezemolo, presidente di Alitalia

Siamo al solito punto, l’Alitalia non sa più volare, a correre nei cieli con la livrea tricolore è solo il rosso dei bilanci. Una cronaca di fallimenti, spesso annunciati, che da almeno 10 anni travolge il più importante vettore aereo italiano, mette a rischio migliaia di posti di lavoro, indebolisce il sistema socio economico, rischia di marginalizzare ulteriormente il nostro Paese nello scacchiere internazionale.
A bruciare ogni giorno, insieme al kerosene degli aerei, è la liquidità della compagnia: 500 mila euro, ora forse un milione, a dirlo non sono analisti finanziari o i revisori dei conti, bensì lo stesso presidente di Alitalia quel Luca Cordero di Montezemolo sul quale gli emiri di Etihad e gli italiani confidavano per rilanciare un marchio nobile, dopo i due fallimenti nel giro di pochi anni che avevano schiacciato le ali della compagnia sotto il peso di un debito insostenibile ed un’offerta di servizi tutt’altro che competitiva o fascinosa.
Traguardo mancato, o per meglio dire siamo ad un passaggio molto complicato, come hanno sottolineato i ministri Graziano Delrio e Carlo Calenda, lo spettro del fallimento, il terzo di fatto in soli 10 anni, aleggia tra il palazzo dell’aeroporto di Fiumicino e quelli della politica a Roma. Tutto è molto confuso in una ridda di affermazioni o di mezze smentite, un piano di impresa che continua a restare nell’ombra anche se autorevoli fonti di informazione parlano di 158 pagine messe a punto dall’amministratore delegato di Alitalia Cramer Ball insieme agli advisor esterni di Roland Berger e Kpmg.
L’unica certezza è che le linee di credito attivate a dicembre garantiscono la piena operatività solo fino alla fine di marzo, che i rischi di insolvenza sono assai elevati, che i soci della compagnia sono molto restii ad immettere altri capitali, comprese la banche italiane creditrici Intesa e Unicredit, che i soci di Etihad, già al 49 per cento non possono farlo, pur avendo la liquidità, pena il venir meno di tutti gli accordi europei previsti per i vettori aerei dell’Unione europea.
L’ennesima crisi rischia stavolta di travolgere quella che fu una prestigiosa compagnia di bandiera. Non sono bastate operazioni di maquillage, nuove livree, una maggiore e riconosciuta attenzione al cliente per riportare in utile i conti dell’Alitalia, tra fallimenti e pesanti ristrutturazioni è volato via un decennio di perdite continue sia per ciò che riguarda i posti di lavoro, sia per il perimetro della compagnia, sia per il volume dei traffici e le rotte da coprire. Tutti gli indicatori sono negativi, di certo non per responsabilità del personale, almeno negli ultimi 3 anni, il loro costo per posto offerto è di 6,5 centesimi di euro, molto meno dei 10,5 centesimi di Air France, ma anche meno degli 8 centesimi di Eurowings la compagnia low cost di Lufthansa, unica eccezione Ryanair che si colloca a 3,4 centesimi ma per ragioni del tutto particolari che analizzeremo in seguito.
Ciò che colpisce di più è il fatto che il complesso del trasporto aereo viaggia con il vento nelle ali. I profitti netti del sistema hanno raggiunto i 35,6 miliardi di dollari, con un aumento, sottolinea la Iata (associazione mondiale cui partecipano 269 compagnie) di 300 milioni di dollari rispetto al 2015, per un guadagno medio per passeggero di 7,54 dollari, in un mercato di 3,7 miliardi di passeggeri.
Le cause di questo affanno continuo per Alitalia sono molteplici, chiare nella loro individuazione, molto più difficile appare porvi rimedio, se non con una radicale trasformazione del vettore, della sua offerta commerciale, del posizionamento strategico nel mercato di riferimento. La compagnia italiana si è progressivamente prosciugata nelle sue recenti trasformazioni nel giro di 10 anni. Nel 2007 quando era una società interamente controllata dallo Stato possedeva una flotta di 175 aerei con 20.000 dipendenti, trasportava 30 milioni di passeggeri con perdite di 364 milioni di euro, per una quota di mercato del 30 per cento. Nel 2011 dopo l’arrivo degli imprenditori privati di Cai e l’uscita dello Stato dal capitale gli aerei erano scesi a 140, il personale a circa 13.000 unità. I passeggeri ridotti a 26 milioni, la quota di mercato al 22 per cento e le perdite a 69 milioni di euro. Nel 2015 dopo l’arrivo l’anno prima del potente e ricco socio emiratino di Etihad poteva contare su 121 aeromobili, circa 12.600 addetti, poco più di 23 milioni di viaggiatori, per una quota di mercato ridotta la 18 per cento.
Questi numeri certificano un declino continuo, implacabile quanto difficile da evitare, dovuto soprattutto ad un management poco incline al cambiamento. Ci si è voluti arroccare nella strenua difesa di alcune posizioni sulle rotte nazionali e internazionali dove la spietata concorrenza delle low cost è di fatto insostenibile. Si è cercato di ridurre le perdite contenendo il perimetro del business. Una scelta sciagurata e senza futuro. La compagnia così come è ora appare troppo piccola per competere con i colossi del mercato sulle rotte intercontinentali, le uniche che garantiscono buoni profitti e performance adeguate, d’altro canto presenta una struttura operativa non in grado di competere con l’aggressività delle low cost, ormai padrone dei collegamenti a breve e medio raggio, in virtù di contratti di lavoro particolari, soprattutto per Ryanair, e di una flessibilità impossibile da eguagliare per i vettori tradizionali.
Alitalia dal 2014 ad oggi ha, inoltre, inanellato una serie di errori macroscopici, e oltre ad un errato posizionamento sul mercato, paga un leasing per gli aerei maggiore anche del 20 per cento rispetto ai suoi diretti concorrenti, garantisce profittevoli contratti per i partner aeroportuali in Italia, ha mantenuto ad un certo numero di fornitori condizioni assai vantaggiose per loro, il tutto non bilanciato da ricavi in crescita, rivelatisi inferiori alle aspettative pur in presenza di un significativo gradimento della clientela per i nuovi standard operativi. Mantenere un numero di rotte nazionali importanti si è rivelato deleterio per i bilanci, considerata la concorrenza vincente del treno, in particolare sulle tratta Roma Milano, anni or sono vera gallina dalle uova d’oro per l’Alitalia, e quella aggressiva delle low cost con le quali è francamente impossibile competere sul corto raggio.
Il management nonostante alcuni nuovi inserimenti voluti da Cramer Ball si è dimostrato al di sotto delle aspettative, alcuni dirigenti di alto profilo, per altro, occupano la stessa posizione o incarichi simili da molto tempo nonostante dieci anni di fallimenti e sofferenze. Forse sarebbe necessario un ricambio generazionale complessivo, una visione meno ancorata al passato, il coraggio di innovare in profondità, di rischiare, magari di sottrarsi ad un connubio non proficuo tra rotte, aeroporti, interessi locali, oltre i vincoli assai rilevanti che Alitalia detiene per accordi commerciali con Air France/Klm e Delta, capaci di inibirne la crescita verso uno dei mercati più remunerativi in assoluto.
Lo scontro con i sindacati e il personale, dopo uscite estemporanee che hanno prodotto il solo effetto di irritare il Governo, ha prodotto per ora una sorta di armistizio, con la rinuncia alla disdetta unilaterale del contrato di lavoro scaduto a dicembre, un rinvio a maggio delle questioni più spinose, all’indomani del confronto serrato che scaturirà dal piano d’impresa, le cui anticipazioni sembrano renderlo particolarmente indigesto ai lavoratori, i quali ormai da dieci anni stringono la cinghia e si sacrificano, come dimostrano le cifre, pur di tutelare i livelli occupazionali e i salari.
È la struttura dei costi di Alitalia ad essere marcatamente sbilanciata rispetto ai potenziali competitor, nonostante la marcata produttività dei lavoratori. È mancato il posizionamento strategico efficace per rendere la compagnia industrialmente competitiva, in grado di sostenere l’onere per essere un asset fondamentale per il sistema dei trasporti italiano. Si è tentato di rinviare, come troppo spesso avviene, soluzioni dolorose per tutti, con elevati costi per la collettività, stime attendibili parlano di almeno 4 miliardi di euro tra ricapitalizzazioni e oneri sociali, sebbene altri esperti si spingono ad ipotizzare cifre vicino ai 7 miliardi di euro.
Il risultato è disarmante: l’ennesima crisi. Il rischio di circa duemila esuberi nella sola Alitalia e altrettanti nell’indotto. Una slavina difficilmente tollerabile dal Governo, in un momento così delicato per l’economia, quanto confuso e plumbeo per la politica.
I successi del vettore aereo nel suo complesso rendono ancora più amaro il bilancio dell’Alitalia. Conviene ricordare che nel 2016 almeno un miliardo di persone hanno volato con le low cost sul totale di 3,7 miliardi di passeggeri, che l’irlandese Ryanair è diventata la quinta compagnia del mondo con i suoi 116,8 milioni di viaggiatori, dopo i quattro giganti americani American Airlines, Delta, Southwest e United, prima della Lufthansa e di due altre compagnie cinesi, nonché la prima in assoluto in Europa.
I profitti aggregati per le compagnie aeree nel vecchio continente sono stimati in 7,5 miliardi di dollari per il 2016, con le low cost a fare da traino, tanto che Easyjet, nonostante alcune difficoltà ha chiuso il bilancio con un utile di 74,5 milioni di euro (+ 6,6 per cento), mentre Norwegian Air Shuttle è cresciuta del 14 per cento per viaggiatori trasportati e Wizz Air leader nei collegamenti con l’Europa orientale conta 22,8 milioni di passeggeri con un lusinghiero +18,8 per cento. Un successo arriso anche a Eurowings (gruppo Lufthansa) con un +8,8 per cento, nonché agli altri opratori che fanno riferimento a British Airways e Air France. Il contesto intercontinentale prevede per il 2017 un anno più difficile, senza decisi incrementi di traffico da e verso il nord America, di contro ad una riduzione dei flussi verso oriente, in grado di far crollare i profitti aggregati delle compagnie degli emirati, quelle che più hanno investito in nuovi aeromobili, da 900 milioni di dollari del 2016 ai 300 milioni ipotizzati per quest’anno.
Alitalia resta fuori da questo circolo virtuoso. Non sono bastate le parole del vicepresidente James Hogan che prevedeva un utile nel 2017 e questo unito ad altri insuccessi dovrebbe, a quanto sostengono autorevoli fonti, costargli il posto di amministratore delegato di Etihad entro l’anno. La compagnia, troppo sbilanciata sul mercato domestico dove ancora offre il 54 per cento dei propri posti, è presa di infilata dalle low cost con le quali non può competere, che hanno ormai in mano il 48,3 per cento dei voli italiani. Né possono bastare i 24 aerei a lungo raggio per compensare queste perdite ingenti.
La crisi economica è dovuta al fallimento strategico della posizione di Alitalia, una responsabilità inequivocabile del management, cui si sommano le resistenze dei soci e delle banche ad intraprendere investimenti significativi per mutare sostanzialmente il profilo della compagnia. Il fatto poi che sia una società privata non doveva esimere il Governo da una vigilanza più stretta, considerato il valore irrinunciabile del vettore per la politica integrata del trasporto, con ricadute sull’intero ciclo economico del Paese.
Il nuovo piano industriale resta celato nelle nebbie degli uffici di Alitalia e degli advisor. I ritardi si allungano come le ombre sul futuro. Le poche informazioni sembrano lasciate trapelare ad arte, per vedere quali echi suscitino, il più evidente è quello sul numero degli esuberi di personale, che già ha suscitato una levata di scudi da parte dello stesso Governo. Il passivo di 500 milioni di euro previsto per il 2016 non lascia scampo a scelte molto incisive per chi ancora vuole raddrizzare il timone e far volare le ali tricolori.
Si era venuti a conoscenza di una prima bozza di piano che prevedeva risparmi di 160 milioni di euro per il solo 2017, esclusi quelli per il personale. Cifre che sembrerebbero non aver convinto i tecnici di Roland Berger e Kpmg, per i quali i risparmi dovrebbero salire nel triennio sino al 2020 almeno tra i 400 e i 500 milioni di euro, considerato che ancora poco si potrà fare sul fronte dei ricavi. Le nuove idee messe in campo dovrebbero condensarsi in un forte incremento degli investimenti sul lungo raggio, sulle rotte intercontinentali verso il nord America, l’area Latina dello stesso continente e l’Asia.
La riconversione del modello di business prevederebbe, secondo fonti interne, una costola della compagnia formato low cost per competere con Ryanair e Easyjet. Il tutto con un ridimensionamento significativo del personale tra piloti, assistenti di volo, personale di terra, nonché nelle attività in outsourcing: catering, handling, manutenzione e supporti commerciali vari. Restano da valutare gli effetti negativi sugli altri scali dove vola Alitalia.
Condizioni molto dure capaci di dipingere cieli molto grigi per l’Italia, d’altro canto i soci e i creditori di Alitalia sembrerebbero aver esaurito la propria pazienza e sono molto restii a sostenere altre linee di credito, in mancanza di un piano credibile per quanto molto doloroso. Intesa Sanpaolo ( socio al 20,59 per cento) e Unicredit (12,99 per cento) guidano la pattuglia di chi pretende una terapia d’urto per rischiare altri 175 milioni di euro e convertirne 165 in equity come ipotizzato dagli advisor. Etihad dovrebbe versarne altri 275, in aggiunta ai 100 di dicembre e alla conversione di 220 milioni di bond. Una posizione molto cauta, se non di netta chiusura, viene per altro da Generali e da altri stakeholders i quali sono contrari alla conversione dei bond in capitale Alitalia, ma sarebbero disponibili ad una eventuale ristrutturazione del debito.
Una partita tutta da giuocare tra attori diffidenti, mentre i rintocchi dell’orologio lasciano poco spazio a suggestioni dell’ultima ora. Uno scenario che ha messo in allarme i ministri Graziano Delrio e Carlo Calenda. Qualcuno starebbe studiando un piano di emergenza dell’ultimo minuto, con il commissariamento della compagnia ai primi di aprile se tutto dovesse andare storto.
Elementi che lasciano non poche perplessità, basti ricordare il divario di costo del lavoro tra Alitalia e Ryanair. Quest’ultima paga i piloti tra il 50 e il 60 per cento in meno, così vale per il resto del personale, a questo si aggiunga che almeno i due terzi della forza lavoro non sono assunti direttamente dalla compagnia irlandese, bensì da agenzie interinali, così scendono drasticamente i costi per malattie, i contributi, le tasse, già al minimo perché versate a Dublino con aliquote di grande favore. Si produce profitto con i guadagni fatti in Italia, ma si versa al fisco poco e in Irlanda.
I cieli d’Italia sono attraversati da nubi nere e confidiamo che almeno un raggio di sole possa illuminarli. Le banche creditrici, in particolar modo Intesa Sanpaolo, puntano a portare alla cloche di Alitalia Luigi Gubitosi, che chiede carta bianca per un’impresa così difficile e rischiosa. Noi cercheremo di vederci chiaro, non appena si potrà disporre del piano d’impresa.              

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