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Focus immobiliare - Di cosa parliamo quando parliamo di rigenerazione urbana

L’architetto Giovanni La Varra dello studio Barreca & La Varra

di Giovanni La Varra

Le politiche pubbliche per il territorio (urbanistica, pianificazione, ecc) hanno avuto negli anni recenti una incredibile capacità di nominare le loro azioni in termini suggestivi e allusivi. Al «recupero» dei centri storici negli anni Settanta del secolo scorso è seguita la «riqualificazione» (delle aree industriali dismesse) negli anni Ottanta e Novanta per arrivare, in tempi recenti, alla «rigenerazione urbana», termine «messianico», che suggerisce la città e il territorio come organismi esausti, da rianimare.
Se il recupero era orientato a una parte specifica del territorio (i centri storici) e se la «riqualificazione» mirava a riportare nel circuito della vita urbana i recinti di fabbrica ormai abbandonati dal lavoro, la «rigenerazione urbana» sembra invece tenere entro il suo spettro di azione tutta la città e il territorio. E l’impressione è che, a fronte di un allargamento dell’oggetto di studio e di azione, allo stesso modo si stia ampliando inesorabilmente la varietà della domanda sociale che a queste città e a questi territori sono rivolte. Non più quartieri aggregati come negli anni Sessanta, non più distese di case unifamiliari a consumare suolo agricolo come negli anni Ottanta. Per rimanere solo nel campo dell’abitare, una società caratterizzata da infinite minoranze pone questioni irriducibili, per cui oggi la domanda di abitare non può più essere compressa entro paradigmi novecenteschi (il quartiere autonomo e periferico), ma deve articolarsi per seguire la crescente disomogeneità con cui la nostra società si rappresenta e si identifica.
Il modus operandi della rigenerazione urbana è metodologico e non strumentale, ogni situazione diventa specifica e va studiata come un unicum, pur non rinunciando a tenere presente successi e insuccessi del passato.
In questo scenario complesso e articolato, può essere utile delineare alcune modalità regressive e progressive che si muovono nell’ambito delle politiche pubbliche legate alla rigenerazione urbana.
Tra gli elementi regressivi c’è, in primo luogo, il dato demografico. È successo molto di rado che un equilibrato sviluppo urbano si strutturi in una condizione di decrescita demografica. L’Italia urbana si è ad un certo punto pensata ampia (l’insieme delle previsioni urbanistiche degli anni Sessanta, se si fossero realizzate, avrebbero comportato un Paese di 100 milioni di abitanti) ma si è ritrovata vecchia e povera, lenta e infrastrutturalmente inadeguata. Senza crescita demografica è problematico dare luogo a profonde trasformazioni delle città e del territorio quali quelle che in realtà necessitiamo.
In secondo luogo, per molti anni il modello della casa di proprietà ha garantito una struttura urbana solida ma, con la crisi degli ultimi anni, si è rivelato un modello poco flessibile, incapace di garantire agilità e dinamica sociale. Le nuove generazioni hanno spesso ereditato un modello abitativo che hanno scelto i loro genitori per loro. La casa di proprietà non ha garantito quell’agilità sociale che, in altri Paesi, con percentuali di case di proprietà più ridotte, si è data e ha permesso ai gruppi sociali di reinventarsi e di rilocalizzarsi facilmente sul territorio. È frequente il caso della casa unifamiliare del sud, costruita dai genitori, con una dimensione ampia destinata a ospitare i figli e le loro famiglie, figli che però sono altrove, non avendo trovato, attorno alla casa, che rimane quindi vuota, un modello economico accogliente e a misura delle loro ambizioni. In sostanza abbiamo più case di quelle che ci servono. Le seconde case italiane sono utilizzate mediamente per 5 giorni all’anno, un immenso capitale è finito nel mattone e non ha permesso di attivare dinamiche economiche più virtuose e capaci di garantire sviluppo duraturo e ricchezza.
In terzo luogo, è da segnalare come l’intervento pubblico, storicamente forte in Italia - ad esempio del settore delle infrastrutture o dell’abitare - sia improvvisamente sfumato in un indistinto rumore di fondo burocratico. Con la riduzione delle risorse, il decisore pubblico ha gradualmente ridotto le sue ambizioni di guidare lo sviluppo del territorio. Come se Governo e capacità di investimento dovessero essere necessariamente collegati. Dagli anni Ottanta, le politiche pubbliche sembrano sempre meno convinte della loro forza e della loro legittimità. Ma quest’assenza rende difficile anche il lavoro degli operatori privati, spesso spaesati in un quadro di trasformazione che, a lungo termine, non è chiaro né prevedibile.
Ma a fare da contraltare a queste dinamiche regressive ve ne sono altrettante progressive, segno di un cambiamento culturale che sta producendo interessanti sviluppi.
In primo luogo, in analogia con quello che succede nel mondo dell’automobile - spesso abitacolo e abitazione sviluppano le medesime tendenze - l’idea di condividere lo spazio abitativo sta prendendo piede e, dopo essersi ormai consolidato nel settore turistico, sta acquistando sempre più peso. La casa condivisa, tra generazioni diverse ma anche tra famiglie con stesse esigenze, sta sviluppando una sfida di rilievo per il settore immobiliare e si caratterizza non solo come una scelta «economica» ma anche come scelta culturale, come uno stile di vita.
In secondo luogo, ed è forse un effetto della crisi economica, c’è una forte tensione verso un progetto pauperistico. Riuso di spazi, di materiali, di risorse già attivate in precedenza: un nuovo atteggiamento culturale e estetico verso l’idea che le cose possano essere riutilizzate sta costituendo un nuovo paradigma per un recupero diffuso di spazi e luoghi con usi anche molto differenti da quelli che li hanno originati.
Infine, ed è una dinamica progressiva estremamente importante, discipline diverse, chiamate a raccolta dai temi della rigenerazione urbana, stanno sempre più spesso imparando a lavorare assieme. La figura solitaria e romantica dell’architetto visionario e creatore non è quella che si attiva nei progetti complessi di rigenerazione urbana. Si tratta piuttosto di attivare doti di mediazione, di ascolto e di sintesi, doti capaci di costituire un riferimento progettuale per un tavolo ampio, dove sempre più spesso, le ragioni dei consulenti (tecnici, finanziari, politici, strategici) sono da integrare nel progetto della trasformazione fisica, pena la sua inefficacia.
Lo scenario brevemente delineato è un quadro ancora molto dinamico e sfuggente. Ed è ancora difficile, proprio per le ragioni legate alla dispersività delle domande prima accennate, individuare progetti «esemplari» di rigenerazione urbana. Ma forse il senso di questa modalità di intervento sta proprio nel suo grado di complessità che è tale da non costituire modelli ma «storie».    

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