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Poco personale e troppe cause civili: i dati della giustizia lumaca in Italia tormentata dalle disuguaglianze

Maurizio De Tilla presidente dell’associazione nazionale avvocati italiani

L'applicazione delle leggi dovrebbe essere sempre impersonale, dunque garantita da giudici obiettivi e indipendenti, senza oscillazioni, senza asimmetrie fra i tribunali. Ma non è così, non è questa la norma. Perché, di fatto, in Italia vige una forte diseguaglianza nell’accesso alla giustizia, nelle opportunità di tutela dei diritti. Non dipende solo dalla discontinuità del nostro territorio, dalla forbice socio-economica che divide Mezzogiorno e Settentrione. Ma dipende anche da storture organizzative, comunicative, psicologiche, nonché da scriteriati impieghi delle risorse, non esclusa l’assurda revisione della geografia giudiziaria.

Le disuguaglianze sono anche altre e riguardano i tempi della giustizia: in alcuni distretti le procedure urgenti e cautelari vengono svolte in poco tempo, in altri passano molti mesi e anche anni. Si bussa, purtroppo, alla giustizia con risposte difformi e contrastanti. I tempi della giustizia civile sono, quindi, diversificati e talvolta interminabili. Una causa civile al Tribunale di Matera dura in media quattro anni e tre mesi, ossia 1.548 giorni. A Rovereto ci vuole in media meno di un anno (343 giorni).
Le cause più lunghe sono anche in altri Tribunali (tra gli altri, Vibo Valentia, Foggia, Patti, Lamezia Terme). Le Corti di Appello non sono da meno: a Napoli ci vogliono per un gravame 1.339 giorni, a Catania 1.248 giorni, a Roma 1.234, a Bari 1.104, ad Ancora 1.092. A Trieste le procedure fallimentari si chiudono in tre anni, mentre a Siracusa si impiegano anche 16 anni. È questa la stridente contraddizione della giustizia nel nostro Paese. Esiste, quindi, un federalismo giudiziario di notevole disuguaglianza su tutto il territorio nazionale che ribalta anche l’usurato schema per il quale il Sud sarebbe sempre peggio e il Nord starebbe sempre meglio, luogo comune ribaltato ad esempio dalle prestazioni del Tribunale di Marsala, passato in quattro anni dalla parte bassa del tabellone al secondo posto della graduatoria nazionale per efficienza nei processi ultratriennali.
Ma resta pur sempre vero che la forbice ormai si fa dilagante in quasi ogni «disciplina» della giustizia. Lo si vede nei tassi di prescrizione dei processi penali, dove l’incidenza tra processi definiti e processi estinti per «tempo scaduto» può oscillare dal disastroso 34,3 per cento di Torino al più accettabile 8,8 per cento di Napoli, sino al solo 4 per cento di Firenze e Roma o al quasi zero di Bolzano. Lo si registra nei tempi di durata dei procedimenti civili, dove una mappatura statistica promossa dal Ministero della Giustizia individua tredici tribunali che guidano il gruppo di testa avendo solo il 6 per cento di cause civili più vecchie di tre anni (come la virtuosa Torino), ma altri dodici tribunali (tra i quali Foggia e Salerno) annaspano nel fondo schiacciati dal 40 per cento di cause civili più vecchie di tre anni.
Lo si coglie nel peso degli indirizzi per irragionevole durata dei processi o nei risarcimenti per ingiuste detenzioni, anch’essi a pelle di leopardo in Italia. Lo si verifica persino nella difforme geografia delle scoperture d’organico dei 9 mila cancellieri che complessivamente mancano negli uffici giudiziari dell’intero Paese, o in quelle dei magistrati che ad esempio vedono la procura di Padova all’ultimo posto in Italia nel rapporto tra giudici e popolazioni con oltre mille procedimenti l’anno da gestire per ogni singolo Pm, un rapporto più che triplo rispetto ad altre procure.
Il paradosso è, inoltre, dato dalla considerazione che ogni giorno ci sono giudici che devono decidere se un cittadino abbia diritto a essere risarcito per la lentezza di altri giudici. Ma nello stesso giorno, nelle aule dei tribunali amministrativi regionali, altri giudici processano l’Amministrazione dello Stato, colpevole di non aver pagato ad altri cittadini un risarcimento che un giudice civile aveva già riconosciuto fosse dovuto.
La giustizia italiana è quindi lenta come una lumaca. È appena il caso di rilevare che la legge Pinto stabilisce quale sia «la corretta durata dei processi» individuandola in tre anni per il primo grado, in due anni per il secondo grado, in un anno per la Cassazione. Ma anche questi ampi limiti temporali non sono rispettati. Così il numero di cause basate sulla legge Pinto è in continuo aumento: i ricorsi sono stati 3.580 nel 2003, sono saliti a 49.730 nel 2010, a 53.320 nel 2011, a 52.481 nel 2012, ridotti (ma sempre alti) a 45.159 nel 2013. E anche i costi aumentano. Si stima che il danno provocato dalla legge Pinto sui conti pubblici sia di circa 1 miliardo.
L’ulteriore paradosso è che le vittime della «giustizia lumaca» insistono e fanno causa una seconda volta, aprendo un nuovo contenzioso. Negli ultimi anni, il processo per il mancato risarcimento dopo un processo ritardato è diventato la regola e ha prodotto un disastroso effetto a catena: i Tar sono sommersi dai ricorsi di cittadini in lotta contro il Ministero della Giustizia che non paga. Nel 2003 i provvedimenti emessi dai giudici amministrativi erano stati 40; nel 2010 erano già 189. Da allora è stata un’escalation: 1.021 sentenze nel 2012, 2.178 nel 2013, 4.102 nel 2014, 6.522 nel 2015. Alla metà del 2016 siamo arrivati a 3.792 provvedimenti. Si calcola che un processo amministrativo su otto riguardi i contenziosi tra i cittadini e il Ministero. Nel dossier di via Arenula sul civile esiste anche una tabella sulle «cause del secolo scorso». Sono in calo, ma ce ne sono ancora. Nel 2015, nei tribunali, erano 8.382, ben 12.409 nel 2014 e 18.206 nel 2013, con un saldo a oggi del 56 per cento in meno. In appello si passa dalle 159 di tre anni fa, a 70 nel 2014, alle 52 del 2015. Un retaggio assai pesante, visto che sono passati 16 anni dall’inizio del nuovo secolo.
Si ha, inoltre, l’impressione che gli uffici giudiziari siano strutture imbalsamate, che hanno difficoltà a seguire in tempo reale le esigenze del processo. Le garanzie di autonomia e indipendenza dei magistrati, la loro funzione vincolata e la dislocazione che è decisa dal Csm impediscono una mobilità interna che consentirebbe di distribuire i carichi di lavoro in modo più equo ed efficace e ottimizzare le risorse. Per cui accade che i magistrati di una sezione abbiano poco lavoro e quelli di un’altra siano sommersi dai fascicoli e i capi degli uffici non possono fare molto. Sono dichiarazioni condivisibili di Carlo Di Casola, ex magistrato ed ex componente del Csm. Peccato che siano postume e non formulate da un giudice nel corso della propria attività.
La situazione è drammatica anche sul piano dell’esecuzione penale delle sentenze. Negli scaffali della Corte d’Appello di Napoli ci sono 50 mila decisioni già passate in giudicato che non sono state ancora eseguite. L’iter processuale si è concluso regolarmente, mancano però gli ultimi adempimenti amministrativi. E la macchina si blocca. «Un buco nero», lo ha definito il presidente della Corte d’Appello Giuseppe De Carolis.
Delle sentenze irrevocabili di condanna non eseguite, almeno in un migliaio di casi si tratta di verdetti destinati a concludersi con la reclusione dell’imputato per i quali però non è stato ancora emesso l’estratto esecutivo, indispensabile per azionare la procedura che porterà il condannato a scontare la pena in carcere. Per le altre sentenze la ricaduta negativa per lo Stato è di natura economica: ci sono le pene pecuniarie da esigere, le spese di giustizia da recuperare, ad esempio quelle rilevantissime sostenute per le intercettazioni e beni eventualmente da confiscare. Senza contare l’aspetto legato al casellario giudiziale: persone condannate con sentenza passata in giudicato che però risultano incensurate, con tutto ciò che ne consegue.
Oltre 20 mila sono le sentenze di prescrizione o assoluzione. Anche qui, rimarca il presidente della Corte d’Appello di Napoli, il danno è soprattutto di carattere economico: quasi sempre ci sono spese o reperti che vanno restituiti, oltre al diritto dell’imputato scagionato da ogni accusa ad ottenere rapidamente la comunicazione della chiusura favorevole del procedimento. Ma vi è di più. I grandi uffici giudiziari risultano intasati dalle cause dei giudici di pace. A Napoli e Roma i due terzi dei procedimenti civili sono pendenti presso gli uffici del giudice di pace. Su poco più di un milione di pendenze su tutto il territorio, infatti, a Napoli se ne sono accumulate 389.020 e a Roma 272.748. A seguire Salerno con 51.143 e Milano con 34.728, oltre 10 volte di meno rispetto Napoli.
È quanto emerge, tra l’altro, dagli ultimi dati pubblicati dal Ministero della Giustizia riguardo al movimento dei procedimenti civili relativi all’anno 2014 e al primo semestre 2015. Peraltro, quasi la metà del contenzioso accumulato dai giudici di pace arriva dalla materia del risarcimento danni da circolazione stradale, arrivata a quota 432.210 procedimenti arretrati, con l’ufficio del giudice di pace di Napoli che, nel 2012, deteneva oltre la metà delle pendenze per risarcimento danni auto di tutta Italia (256.406 su 449.268).  Dai dati aggiornati al primo semestre 2015 si può rilevare il movimento dei procedimenti civili rilevati presso gli uffici giudiziari con il dettaglio di alcune materie. In totale, l’arretrato è arrivato a quota 4.221.949, mentre al 31 dicembre 2014 era pari a 4.549.472. Presso la Cassazione i procedimenti pendenti sono 103.162 e presso le Corti d’appello 334.928, composti sostanzialmente dal contenzioso ordinario (114.660), dal contenzioso commerciale (76.526) e dalla previdenza (55.855). Presso i tribunali, invece, i procedimenti pendenti sono oltre 2,6 milioni, di cui 654.697 di cognizione ordinaria, 429.146 di contenzioso commerciale, 269.151 procedimenti esecutivi immobiliari e 208.852 esecuzioni mobiliari.
Quanto al contenzioso in ingresso, da rilevare i decreti ingiuntivi e altri procedimenti speciali (267.769) e la volontaria giurisdizione (120.763). Invece, presso i giudici di pace, oltre al risarcimento danni circolazione, quasi la metà del contenzioso in ingresso è formato dai procedimenti monitori (246.038), mentre le opposizioni alle sanzioni amministrative hanno raggiunto un arretrato pari a 333.964 e quello che riguarda le cause relative a beni mobili fino a cinque mila euro è di 126.122. Il totale dei procedimenti iscritti nei primi sei mesi del 2015, infine, è di 1.761.673, e ne sono stati definiti 2.032.217.   (continua qui)

Tags: Ottobre 2016 Maurizio de Tilla giustizia

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