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Italia-Vallonia solo andata

Il sito minerario di marcinelle (Bois du Cazier),  oggi trasformato in centro visite

L'aritmetica degli anniversari consente combinazioni di ricorrenze particolari, da evocare per sublimare in riflessione storica la retorica che spesso le cavalca (quando non le ignora). Quest’anno ne cadono due, tra le tante: i sessant’anni dal disastro minerario di Marcinelle (estate del 1956) e i settanta dallla firma del protocollo italo-belga sull’immigrazione di minatori italiani (estate del 1946).
La seconda - cinquantamila unità lavorative dal Belpaese alla Vallonia in cambio di carbone - fa da premessa logica e cronologica alla prima ma la tragedia di quella mattina d’agosto (262 morti, per la metà italiani) ne sancisce la fine. Una circolarità che chiude un decennio cruciale: i dieci anni del dopoguerra in cui l’embrione dell’Europa vede la luce sotto il segno degli auspici nobili di Robert Schuman e delle istanze concrete della siderurgia. Nel 1951 nasce la Comunità Economica del Carbone e dell’Acciaio, nei quarant’anni seguenti le sigle si alternano - dalla Ceca alla Ce ed alla Ue le materie prime spariscono dagli acronimi - e sbiadiscono. Come leggere gli slanci centripeti (e di chiusura) di oggi alla luce di quelli di espansione (ed integrazione) di allora? I rapporti tra l’Italia ed il Belgio forniscono elementi per tentare una risposta.
Iniziamo da Marcinelle. Siamo alla periferia di Charleroi, nella provincia dell’Hainaut: Bruxelles è a cinquanta chilometri, per la Francia ne basta la metà. Bois du Cazier è oggi un centro visite d’avanguardia con due musei (dell’industria e del vetro) e lo «Spazio 8 agosto 1956» dedicato alla ricostruzione della strage. Quattro anni fa l’Unesco l’ha inserito insieme ad altri tre complessi industriali - Blegny, Grand-Hornu e Bois du Luc - sotto un’unica voce da aggiungere al Patrimonio dell’Umanità: «Principali siti minerari della Vallonia». Nella motivazione ufficiale si legge che «le quattro miniere di carbone sono tra le più antiche e grandi d’Europa, testimoniano la precoce diffusione delle innovazioni tecniche, sociali e urbanistiche della rivoluzione industriale. Rappresentano siti esemplari e di primaria importanza dell’intercultura derivante dall’industria di massa attraverso il contributo dei lavoratori da altre regioni del Belgio, dell’Europa e, in seguito, dall’Africa».
La Vallonia è un’area grande come due volte l’Umbria. Rappresenta un po’ più della metà del Paese e ci vive quasi un terzo dei residenti. È il Belgio francofono guardato dall’alto in basso dalle Fiandre, «sopportato» e supportato da politiche spesso generose ma non sempre lungimiranti. Alimenta un’oleografia consolidata di fatica e miseria: è iniziata con Van Gogh - nell’umanità di fango e carbone del Borinage ha deciso di diventare il pittore che conosciamo (le lettere al fratello da Cuesmes lo testimoniano) - passa per Marcinelle e arriva a Mons, epitome di un rilancio al rallentatore ma costante. Il borgo s’è fregiato l’anno scorso della coccarda di Capitale europea della cultura, il suo sindaco è Elio Di Rupo (primo ministro per quattro anni, predecessore di Charles Michel, in carica) e ospita uno dei centri di Google più importanti d’Europa. A voler unire i puntini si tratteggia un panorama di slanci e opportunità tra impresa, politica e politiche.
Se si guarda più a fondo la conferma arriva dalla «nouvelle vague» vallona a trazione hi-tech.
Gian Paolo Accardo è un giornalista di origini italiane nato in Belgio. Profondo conoscitore delle geopolitica del Vecchio Continente, è vicepresidente della Association des journalistes européens e fondatore di VoxEurop. É un abbaglio o la regione è finalmente uscita dal pantano? «La Vallonia sta mettendo ormai in discussione l’immagine di un Belgio di serie b, depresso economicamente e rassegnato emotivamente», esordisce. «C’è voluto parecchio per superare lo stallo critico che la fine dell’avventura di miniere ed altiforni aveva creato. E ora nuove tecnologie e servizi guidano scelte strategiche che paiono dare frutti promettenti».
Quando è iniziata la svolta? «Non c’è un elemento storico preciso ma direi che un primo segnale è stato lo sviluppo dell’aeroporto di Charleroi, hub delle low cost. Ha attratto visitatori e destato interesse di investitori, un volano che ha catalizzato energie già presenti. Le agevolazioni fiscali e i fondi strutturali comunitari hanno fatto il resto. Si può azzardare e considerare i primi anni duemila come il periodo in cui il riscatto è iniziato e gli ultimi cinque quelli in cui si è fatto solido e maturo».
La mattina di ogni otto agosto la commemorazione fa spazio alla commozione, un rintocco per ogni minatore morto sotto il suolo di Marcinelle scuote timpani e coscienze. Ci vuole un quarto d’ora per scandirli tutti, da Ferdinand Aerts a Mario Zinni. Dieci anni fa, in occasione del mezzo secolo dall’incidente, il Giro d’Italia è partito da Seraing (cittadina vallone alle porte di Liegi), ricordando quelle vittime e tutti gli italiani con un viaggio di sola andata in Belgio. Negli anni s’è poi affermata una vulgata trasversale su flussi migratori dall’Italia e meccanismi di inserimento come esempio di integrazione massiccia e ben riuscita, quasi un modello.
Anne Morelli è una storica belga con radici italiane, docente all’Université Libre de Bruxelles. Qualche settimana fa ha presentato il suo nuovo saggio «Recherches nouvelles sur l’immigration italienne en Belgique», edito da Couleur Livres, all’Academia Belgica di Roma. Sugli stereotipi, positivi e negativi, a proposito degli italiani in Belgio ha molto da dire. Li chiama «leggende» e ne commenta la scarsa aderenza al reale, documentando una verità in chiaroscuro.
La prima «favola» è quella che siano stati gli accordi del 1946 a dar origine al flusso di italiani verso il Belgio. «Erano già presenti ai tempi della resistenza belga, alla quale parteciparono, e anche più indietro nel tempo, prima ancora della prima Guerra Mondiale». La seconda smentita riguarda il fabbisogno di manodopera: era necessaria, certo, ma in Belgio ce n’era già un bel po’. «I fiamminghi però non accettavano più di lavorare a quelle condizioni, soprattutto poiché erano al corrente di una malattia terribile, la silicosi. Non era ancora considerata una patologia professionale ma gli italiani non sapevano nemmeno che esistesse». Meno pretese, dunque, e minor conoscenza avrebbero ingrossato le fila dei minatori in partenza dalle regioni del Regno.
La terza puntualizzazione è sugli «italiani brava gente», accolti tutti senza obiezioni, una sorta di folklore utile all’economia e simpaticamente scanzonato. Venivano visti anche come parassisti a carico dell’assistenzialismo. «C’era una canzone molto popolare in Belgio, faceva così: é la mutuelle, é la mutuell! La vie est belle!», racconta la Morelli. «Un cliché duro a morire che gli italiani per primi a volte fanno però di tutto per confermare», sottolinea Accardo. «È il caso, per esempio dell’appalto per il servizio di treni Fyra tra Parigi ed Amsterdam alla Ansaldo-Breda o della vicenda Agusta negli anni Novanta».
Del resto pare che siano proprio le aziende di peso il grande assente nell’epica del’immigrazione italiana: in un secolo di scambi e integrazione sono più i singoli, le comunità di individui e le piccole realtà economiche ad aver lasciato un segno. «Grandi imprese non ne vedo. Sono passati settant’anni e non sono in grado di nominarne nemmeno una», taglia corto la Morelli. E oggi dunque? «Ci sono duecentomila residenti in Belgio con nazionalità italiana, quella doppia è consentita solo da due anni. E di questi uno su dieci vive a Charleroi e dintorni». A Brussels la comunità pare divisa in due grandi gruppi: ceti medi nella zona di Basilique e Mollenbak - «qui siamo la seconda comunità ma nessuno ne parla più», precisa la docente - e borghesia di profilo più alto nell’area delle istituzioni europee. I primi hanno legami radicati e più remoti, i secondi presentano tratti demografici più giovani e qualifiche più elevate e dinamiche.
Ristoratori, minatori, funzionari e ricercatori. La fuga dei cervelli tricolori resta così sospesa tra evoluzione e devoluzione, in attesa di altri accordi. Da firmare a Brussels, capitale d’Europa prima ancora che di una sua parte.   

Tags: Settembre 2016 Federico Geremei

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