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Corsera Story. Da demanio a demonio, da sfarzi a sforzi, tutti i refusi nell’epoca del correttore automatico

L’opinione del Corrierista

Della mia esperienza professionale al Corriere della Sera mi piace rammentare l’attenzione, che qualcuno, oggi, giudicherà esagerata, alla correttezza, alla proprietà linguistica, alla ricerca dei lemmi appropriati, alla correzione dei refusi. Se è vero che il Creatore ha concesso il dono della parola a tutti gli uomini, non si può dire la stessa cosa riguardo alla scrittura. E visto che il mio è sempre stato giornalismo scritto, ho sempre sentito il dovere della pulizia linguistica. È nella tradizione del «Corsera», del resto, a cominciare dal fondatore Torelli-Viollier, il quale, assente per qualche giorno per motivi di salute, rimarcò con una missiva sdegnata, se non furente, una serie di intollerabili refusi scaturiti, appunto, dal mancato controllo.
Quando il gatto manca, i topi ballano e così il buon Eugenio rimproverò i redattori tanto ballerini, quanto distratti: «In questi giorni di mia assenza, ne sono saltati fuori di ogni risma e colore. Ne ho preso nota. Si è scritto che sul volto della contessina X c’era il volo del pudore, anziché il velo. E poi c’era lo sforzo delle toilette, anziché lo sfarzo. E un altro giorno, i senatori sono diventati sonatori e gli impiegati del demanio sono stati scambiati per impiegati del demonio, per non dire del nostro ambasciatore a Costantinopoli che è andato a visitare tutte le mosche della citta».
Tuttavia, per la regola del mal comune mezzo gaudio, mentre giungeva il rimprovero alla redazione, sul quotidiano concorrente La Gazzetta di Milano faceva rumore l’espressione «il programma della sinistra è stato scritto da un pazzo» (anziché pezzo). Certo, come osservava l’arguto Savinio, il refuso è un contributo involontario alla pluralità delle verità e un correttivo alla monotonia dei significati.
E quei senatori eletti a sonatori, nonché il programma della sinistra storica vergato da un pazzo, dando ragione al fratello di Giorgio De Chirico, anticipano di oltre un secolo l’attuale vocabolario dell’antipolitica. Tuttavia, Alberto Savinio, pseudonimo di Andrea Francesco Alberto de Chirico, si guardava bene, scrivendo, dagli errori e dagli orrori, quand’anche «contributi involontari alla pluralità delle verità». E sì, perché talvolta il refuso, specie quello per omissione, inganna il lettore, fornendo un significato opposto a quello voluto.
Clamoroso, ad esempio, l’omissione di un «non» accaduta proprio al Corriere della Sera, che stravolse il testo di Pier Paolo Pasolini, facendogli, così, affermare il contrario esatto del suo pensiero. In verità tutti i refusi danno fastidio al lettore e fanno evaporare la stima verso la testata che ne è frequentemente afflitta. Debbo dire, con orgoglio, che ai miei tempi le battaglie alle sviste grafiche, pur con una tecnologia meno avanzata, se non ci fecero vincere la guerra, giacché il refuso è ineliminabile e spunta fuori anche quando si scrive un pezzo su di lui, riuscirono almeno a farci perdere la guerra con l’onore delle armi.
Non c’è scampo al refuso, il primo ad accorgersene fu Gutenberg che, appena messa a punto la stampa, dovette subito adirarsi per una signora elefante in luogo di «elegante». Il nostro giornale fu, però, quasi sempre esempio di affidabilità quanto meno per la cura nella confezione, con particolare attenzione ai titoli, dove il refuso diventa cazzotto nell’occhio. Scomparse le figure del correttore di bozze - molti grandi scrittori son partiti da questo modesto e pur nobile lavoro - e del tipografo, mi pare che, oggi, sciatteria ed improvvisazione stiano gradualmente prendendo il sopravvento sul rigore professionale.
Cito alcuni strafalcioni recenti. Ecco l’efferata uccisione di una «s» che sfigura un titolo apparso l’anno scorso: «Yemen, bomba contro auto, uccio il governatore di Aden», ciò che resta di «ucciso». Talora, è la «d» ad essere falciata insieme agli zeri travisati in «o» nell’area del titolo: «La Finlandia vuole dare a tutti i cittadini 8oo euro al mese. Il Paese scandinavo sta studiano... », dove 800 s’è mascherato da 8 con due «o» e, in aggiunta, fa bella vista di sé studiano, orfano di «studiando ».
Non solo titoli, occhielli, sommari e catenacci. Ci sono anche i testi, che, anzi, sono quelli più colpiti, magari in nome di propositi politicamente corretti. Vedi, in nome della parità fra i sessi, l’uso, anche nel Corriere della Sera, di «gli» per la donna: «...denaro che gli veniva dalle sue numerose sponsorizzazioni », benché la destinataria sia una signora; però, nella lingua del sì sarebbe stato doveroso scrivere «che le veniva », senza nemmeno rimarcare quanto sarebbe stato meglio «proveniva ».
Sul Messaggero di Roma abbiamo gustato una «c» decapitata, capace, perciò, di sfrattare il feudatario, restituendo un’intera regione ai legittimi proprietari: «Caso Gambirasio, la perizia sul dna: la tracia non è di Bossetti ». A volte, il refuso fa evaporare la stima, eppure produce buon sangue, vedi il Corriere del Mezzogiorno che nel 2001 titolò: «Cinque morti evadono/ a Bologna: tre già ripresi». A proposito di Bologna, il suo storico quotidiano Il Resto del Carlino, piacque ai maschiacci latini per un singolare maschile invece del plurale femminile: «Fino a dieci anni / pene più duro / per i piromani». In altri casi, la mala creanza lessicale crea delle involontarie freddure, malgrado ci sia poco da ridere sugli omicidi. Ebbene, sulla Nazione, edizione di Prato, si stagliò la seguente apertura di prima pagina: «Cinese ucciso a coltellate: è giallo».
Insomma, sarebbe il caso di tornare ai bei tempi della centralità dell’uomo, lasciando perdere i software di correzione testi.

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