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Victor Massiah: Ubi Banca, dopo la rivoluzione del credito sguardo al domani

Victor Massiah, consigliere delegato di Ubi Banca

Victor Massiah è dal primo dicembre 2008 consigliere delegato di Ubi Banca, una delle più rappresentative banche popolari italiane, nata nel 2007 dalla fusione tra la bergamasca Bpu e la bresciana Banca Lombarda e Piemontese, e della quale dal primo giugno 2015, il manager ricopre anche la carica di direttore generale. Sotto la sua guida, il mese scorso l’Ubi Banca si è trasformata in una società per azioni, abbandonando la forma cooperativa come richiesto da una legge promossa dal Governo Renzi, lusinghiero esordio di un cambiamento radicale nel mondo del credito. Laureatosi in Economia e Commercio nell’Università Sapienza di Roma con una tesi in Economia internazionale, Massiah ha cominciato la propria attività lavorativa nel 1982 nella società Andersen Consulting.
Dopo otto anni come consulente nell’ufficio italiano della McKinsey & Co., nel 1997 lavora per il Banco Ambrosiano Veneto e, nel febbraio 1998, ne diventa il responsabile per tutta la direzione commerciale, poi vicedirettore generale. In seguito della fusione del Banco Ambrosiano Veneto e della Cariplo, operazione cui collabora e dalla quale nasce Banca Intesa, nel 1999 viene nominato responsabile dell’Area Mercato e in seguito, nel gennaio 2001, viene nominato vicedirettore generale. Nell’agosto seguente diventa amministratore delegato della società IntesaBci e Lab. Nell’ottobre 2002 entra a far parte del Gruppo Banca Lombarda e Piemontese, assumendo la carica di direttore generale all’inizio del 2003.
La legge varata la scorsa primavera sulla riforma delle Popolari prevede l’abbandono del sistema capitario per le banche cooperative con attivi superiori agli 8 miliardi. Dopo l’istituto di Brescia, che è presente nel territorio nazionale con oltre 1.500 agenzie e con un valore in Borsa di 6.150 milioni di euro, altri nove istituti popolari si trasformeranno in spa; sei, come Ubi, già quotati a Piazza Affari e cioè Banco Popolare, Bpm, Bper, Creval, Popolare di Sondrio e Banca Etruria; e tre che, invece, restano fuori dal listino: la Popolare di Vicenza, Veneto Banca e la Popolare di Bari.
Domanda. Il 10 ottobre scorso con un sì plebiscitario, i favorevoli sono stati 4.976 di fronte a 25 no e 31 astenuti, l’Ubi Banca è stata la prima delle 10 banche popolari a trasformarsi in società per azioni. Lei l’ha giudicato un passaggio storico. Illustra le ragioni, il significato ed il futuro di questo cambiamento epocale?
Risposta. Si è trattato di un passaggio storico, soprattutto per come vi si è arrivati: l’Ubi aveva già avviato un’autoriforma con le modifiche statutarie del 2014. Lo scorso marzo è entrata in vigore una legge dello Stato di riforma delle banche popolari con asset superiori agli 8 miliardi di euro, che i vertici del Gruppo nei mesi precedenti l’assemblea hanno spiegato ai soci in un vero e proprio «road show» che illustrava sia le nuove disposizioni sia la nostra visione. Risultati alla mano, questa condivisione ha pagato in pieno. Anche i soci meno sensibili all’idea di una trasformazione in spa hanno votato responsabilmente per la solidità della Banca. Tra i messaggi trasferiti ai soci abbiamo ribadito che la trasformazione in spa non modificherà il nostro modo di essere e il nostro modo di operare. Grazie ai nostri valori e alla nostra organizzazione siamo riusciti ad affrontare una crisi che non ha avuto eguali nella storia, uscendone addirittura rafforzati come testimoniano i risultati dell’analisi approfondita della qualità degli attivi, Aqr, condotta alla fine del 2014 dalla Banca Centrale Europea.
D. Il piccolo manipolo di contrari ed astenuti, invece, dopo il voto del 10 ottobre scorso ha sottolineato che i piccoli azionisti non avranno la possibilità di contribuire alla vita sociale. Come risponde loro?
R. Mi auguro invece che la partecipazione dei piccoli azionisti continui nel tempo. Sarebbe un segnale tangibile che il nostro Gruppo si è trasformato in una vera «public company». Personalmente continuerò a prendere in considerazione tutti i contributi propositivi che gli azionisti vorranno presentarmi, come facevo per i soci.
D. Oltre a una parte del mondo politico che trasversalmente non era favorevole al decreto legge, i leader sindacali hanno bollato la riforma delle banche popolari voluta dal Governo come un regalo agli speculatori e ai fondi internazionali «amici» del presidente del Consiglio Matteo Renzi. Perché, secondo lei? Dove sbagliano i sindacati?
R. Credo sia opportuno precisare che le banche quotate, siano esse popolari o spa, operano da molti anni confrontandosi con il mercato e non sono mai state immuni da possibili tentativi di scalate ostili, che non si sono peraltro mai verificati. Per quanto riguarda più direttamente l’Ubi Banca, il 45 per cento del nostro capitale era già detenuto da operatori istituzionali nonostante la forma cooperativa. Infine, nel caso di Ubi, il voto palese ha evidenziato una posizione sindacale nella quale ha prevalso l’astensione piuttosto che il voto contrario.
D. I vostri critici hanno sempre sostenuto che quella delle popolari è sempre stata una categoria che è riuscita per anni a «sabotare» nel segreto delle Commissioni parlamentari ogni proposito di riforma e quindi che tale decreto legge è stato un fulmine a ciel sereno che sconvolge la categoria. Cosa risponde?
R. Rispondo per la realtà che conosco. Nell’Ubi non ho visto persone sconvolte, anche perché, come detto, noi siamo stati l’unica Banca ad approvare, nel 2014, un’autoriforma che andava verso un maggior peso del capitale. Se altri ci avessero seguito, forse non si sarebbe arrivati all’intervento diretto del Governo.
D. Tra i vari soci dell’Ubi, gli azionisti di Banca Lombarda, le Fondazioni Cr Cuneo, Banca del Monte di Lombardia ed i grandi investitori istituzionali, come potranno cambiare gli assetti di comando nel futuro? Si immagina già uno scenario diverso?
R. Difficile prevedere ciò che avverrà ad aprile quando verrà eletto il nuovo Consiglio di Sorveglianza. Ciò che posso confermare è che intendiamo continuare ad operare nel rispetto dei nostri principi di una sana e prudente gestione. È nostra convinzione che solo i risultati conseguiti potranno guidare le decisioni degli azionisti nel rinnovo degli organi di governo.
D. La Fondazione Cr Cuneo, già azionista dell’Ubi con il 2,23 per cento, starebbe lavorando alla trasformazione della propria quota nella Banca Regionale Europea, pari al 25 per cento, in azioni dell’Ubi, titolare del 75 per cento della Bre, trasformandolo nel primo azionista del suo istituto. Come procede tale progetto e lei come lo vede?
R. La «conversione» di azioni detenute nelle banche controllate in azioni della capogruppo non è esclusa, ma è operativamente complessa.
D. Lo scorso maggio Fabrizio Viola, amministratore delegato del Montepaschi di Siena, giudicava la fusione con una delle banche cooperative destinate a diventare spa un’operazione «industrialmente interessante». Le indiscrezioni hanno spesso indicato l’Ubi Banca tra gli istituti interessati a far rotta su Siena. Sono voci?
R. Per l’Ubi un’operazione di aggregazione è possibile ma non indispensabile. Posso solo confermare quanto dico da parecchi mesi: tutti parlano con tutti e l’Ubi Banca, che è considerata banca aggregante per la propria solidità, è continuamente abbinata con varie controparti ma, come si vede, non è ancora successo niente.
D. In merito alle possibili aggregazioni delle Popolari trasformate in spa, il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco consiglia molta attenzione nel valutare tali eventuali operazioni. Cosa ne pensa e qual è il pericolo reale di tali aggregazioni?
R. Concordo con il governatore. Occorre ricordare che meno del 50 per cento delle operazioni di M&A, cioè di  fusioni e acquisti, si sono rivelate storicamente di successo. Secondo il mio punto di vista devono ricorrere due condizioni. La prima è che la banca che nasce dall’aggregazione deve valere più della somma del valore delle banche aggregate; la seconda riguarda gli azionisti dell’Ubi Banca che devono trarre un vantaggio in termini di valore creato dall’aggregazione. Nel passato le aggregazioni si facevano per acquistare potere distributivo e nell’ottica del conseguimento di sinergie. In questa nuova fase storica, la valutazione deve essere fatta in modo diverso, avendo ben presente la necessità che la nuova entità derivante dall’aggregazione rispetti in pieno il nuovo impianto normativo europeo (requisiti di capitale, liquidità, leva, livello di crediti deteriorati) e possa conseguire sinergie, mentre l’era digitale sta modificando il ruolo della rete distributiva fisica.
D. Ha già in mente gli advisors per un’eventuale aggregazione?
R. Quando e se sarà il momento, i Consigli dell’Ubi Banca assumeranno le opportune decisioni.
D. È reale il rischio di prossime acquisizioni straniere? Potrebbe essere un buon volano di ripresa?
R. Una spa è per definizione una società contendibile, non solo in ambito bancario. Comunque, la regolamentazione europea è molto complessa e rappresenta un punto di attenzione sia nelle fusioni nazionali che in quelle internazionali.
D. In caso di fusioni, il problema maggiore sarebbero gli esuberi di personale. Che ne pensa?
R. È uno dei tanti aspetti da considerare. La scelta dell’Ubi è sempre stata quella di confrontarci con le rappresentanze sindacali in modo costruttivo e partecipativo, ma soprattutto con una visione di lungo termine. Solo se si ha questo orizzonte si possono trovare delle soluzioni che soddisfino tutte le parti coinvolte.
D. Nell’agosto scorso l’Ubi Banca ha confermato l’andamento positivo del settore, chiudendo il primo semestre dell’anno con un risultato netto di 136 milioni e proventi operativi di 1.706 milioni. Come è arrivata a questi livelli?
R. I risultati conseguiti sono stati frutto di una sostanziale tenuta sul fronte ricavi, seppure in presenza ancora di un livello di tassi eccezionalmente basso che incide negativamente sul margine d’interesse e poi di un attento controllo dei costi e del miglioramento del costo del credito sceso da 99 a 91 punti base. Quest’ultimo dato è molto importante perché riflette il miglioramento del quadro economico dell’Italia, e stiamo registrando una prima ripresa sul fronte della domanda di impieghi.
D. Avete varato vari piani di riorganizzazione con riduzione di personale e di sportelli. Qual è stato il risultato?
R. Le riduzioni di personale sono state concordate con i sindacati sempre e solo su base volontaria e hanno portato all’assunzione e stabilizzazione di un numero cospicuo di giovani. Questa collaborazione con i sindacati ha portato ad una riduzione degli oneri operativi che negli ultimi 7 anni è stata del 20 per cento.
D. Lo scorso 24 settembre, all’asta della Bce sui T-ltro, i prestiti vincolati all’economia, l’Ubi ha fatto la parte del leone attingendo 2 dei 15,5 miliardi chiesti in tutta Europa. A questa tornata, la partecipazione delle banche italiane complessiva è stata in netto calo in confronto alla precedente asta dello scorso giugno. Da che dipende la flessione?
R. Per quanto ci riguarda abbiamo sempre interpretato la raccolta attraverso i T-ltro facendo riferimento alle motivazioni della Bce: quindi abbiamo partecipato in maniera selettiva solo quando lo ritenevamo utile per la nostra clientela. Nel settembre 2015, su una raccolta di 6,1 miliardi fatta nelle aste precedenti (dicembre 2014 e marzo 2015) avevamo deliberato finanziamenti per circa 5,8 miliardi con richieste in attesa di risposta superiori a 1,5 miliardi. Abbiamo quindi chiesto ulteriori 2 miliardi avendo la certezza di avere ulteriore domanda da soddisfare.
D. Lei ha dichiarato che senza digitale non si sopravvive 20 anni ma, contemporaneamente, che non esiste al mondo un istituto di credito solo online che sia profittevole. Qual’è, quindi, la giusta via di mezzo tra nuove tecnologie e tradizionali sportelli bancari? Figure storiche come il cassiere di banca sono destinate a sparire, sostituite dai «cash dispenser» multifunzionali?
R. Non credo che ci siano delle figure professionali che siano destinate all’estinzione nel mondo bancario. Parlerei più di evoluzione, nel senso che l’attività che svolgeva il vecchio cassiere, per rifarmi al suo esempio, è sempre più svolta online o attraverso gli Atm evoluti. Ma una figura allo sportello che sappia ascoltare i clienti e capirne le esigenze indicando le soluzioni più appropriate è e sarà sempre fondamentale. Rispetto al passato, quindi, ci sarà una diversa presenza fisica di filiali, ma con servizi più specializzati a maggiore valore aggiunto percepiti dalla clientela.
D. La «bad bank» all’italiana, come soggetto di peso e capitale misto pubblico-privato, non nascerà, ma per smaltire gli oltre 200 miliardi di euro di sofferenze del sistema bancario il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan ha annunciato in tempi rapidi una soluzione leggera, fatta di misure ad hoc sul recupero crediti. Di che si tratta e che ne pensa?
R. Molto è stato fatto già con l’introduzione delle nuove norme sul diritto fallimentare per dare maggiore certezza nel giudizio e riscossioni in tempi più rapidi. Inoltre, l’allineamento dell’Italia alle prassi europee in tema di deduzione annuale dei crediti deteriorati da parte degli istituti consentirà di recuperare capitale da investire nel territorio. È indubbio che la creazione di una società in grado di gestire le sofferenze sarebbe utile, ma il ministro sta operando in un sentiero molto stretto per non delineare il confine dell’aiuto di Stato che non supererebbe le attuali regole europee. Peraltro, nell’ultimo periodo stiamo vedendo minori nuovi flussi di crediti deteriorati. Se questo trend fosse confermato nei prossimi trimestri, parte del problema si risolverà da solo.
D. Anche dal vostro osservatorio state registrando un aumento della domanda di credito da parte delle aziende?
R. La domanda, negli ultimi nove mesi, è cresciuta molto: in doppia cifra in tutti i settori. Ma questo non ci fa ancora tornare ai livelli pre crisi, perché la discesa negli anni scorsi è stata molto consistente: ricordiamo che l’Italia ha perso circa il 10 per cento di prodotto interno lordo durante la crisi. Il ruolo chiave lo gioca la domanda interna: se gli ultimi dati fossero confermati anche nei prossimi trimestri, la domanda di credito dovrebbe diventare sufficientemente ampia per poter progressivamente tornare ai livelli precedenti.
D. Un tema molto discusso non solo in ambito finanziario è quello relativo al «bail in» in caso di fallimento di una banca che potrebbe avere ricadute dirette anche sugli obbligazionisti e i clienti. Quali sono gli aspetti più rilevanti da tenere in considerazione per verificare che un istituto di credito non sia a rischio?
R. Sono due gli aspetti da tenere in considerazione per valutare la solidità attuale e prospettica di un istituto: il modello di attività e gli indicatori patrimoniali e di liquidità significativamente superiori ai minimi previsti dalla normativa prudenziale, attuale e in corso di adozione. L’Ubi Banca associa a un modello di banca tradizionale, tipico di una banca puramente commerciale, indici tra i migliori del sistema, come testimoniato dagli Aqr e dagli stress test svolti a fine 2014, che hanno rivelato un’eccedenza di capitale di oltre 1,7 miliardi.
D. Come giudica il lavoro finora svolto dal Governo Renzi?
R. Il Governo ha attuato una serie di riforme importanti e ha dimostrato di voler condurre la sua politica con decisione. Ovviamente non ci si può aspettare che problemi generati in decenni possano trovare completa soluzione in pochi mesi. Il Jobs Act rappresenta per tutti gli operatori economici, e quindi per le banche, un passo in avanti e sembra abbia successo perché la disoccupazione, secondo l’Istat, è scesa all’11,9 per cento ad agosto 2015, era il 12,7 per cento ad agosto 2014.  

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