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Le professioni per l'Italia: è scontato che occorre più Europa, ma il problema è stabilire quale Europa

Anna Maria Ciuffa e Maurizio De Tilla

Il dibattito è acceso in Europa. Si sostiene da più parti che all’Unione monetaria europea debba accompagnarsi una maggiore integrazione politica. Lo slogan è «Più Europa», anche se ciò che manca, nella sostanza, è l’Europa dei popoli, che contrasta peraltro con alcune previsioni del Trattato di Lisbona che ha rafforzato la tenuta e l’identità invalicabile dei singoli Stati-Nazione.
Friedrich Von Hayek ha affrontato il problema dell’Unione politica ponendosi il dubbio se tale assetto sia funzionante. «Una Unione politica–ha scritto–nasce con l’obiettivo di assicurare condizioni di pace e di cooperazione fra gli Stati che la compongono. Ma l’autonomia degli Stati membri nel condurre la politica economica può portare a variazioni sostanziali nel tenore di vita di uno degli Stati in rapporto a quello di un altro Stato dell’Unione, e dunque rischia di determinare conflitti che possono turbare la vita interna dei singoli Stati».
A Von Hayek rispondiamo che, nel caso della nostra Europa, l’Unione monetaria c’è già ma non funziona bene. Ed è proprio sulle scelte strategiche economiche che vi sono molte divergenze non facilmente conciliabili. Bisogna, infatti, intendersi bene tra gli Stati UE sulle politiche economiche che l’Unione politica potrebbe incentivare e realizzare. Anche se azzardiamo un’ipotesi nell’affermare che le divergenze economiche si possono mitigare se non sanare, con regole e strategie sui diritti, sul fisco, sul lavoro, sulla previdenza, sull’immigrazione, per coinvolgere, anche con le elezioni dirette di nuovi organismi, i cittadini europei a riconoscersi in un sentire comune e in regole di uguaglianza nella crescita e nello sviluppo economico.
Sentire comune che non c’è. E infatti un numero crescente di cittadini dei Paesi economicamente più forti si chiede «perché dovremmo pagare per loro», e un numero crescente di cittadini dei Paesi economicamente più deboli si chiede «perché lasciamo che ci sfruttino». L’economista e politico tedesco Thilo Sarrazin, nel libro «L’Europa non ha bisogno dell’euro», dà ulteriore voce alle perplessità, affermando che la moneta comune è nata troppo presto e non sta portando i benefici auspicati.
Nouriel Roubini, insieme a Stephen Mihm, nel libro «La crisi non è finita», osserva che «l’Unione economica e monetaria europea è stata pensata per dare all’Europa stabilità e unità; gli Stati membri avrebbero ceduto il controllo della politica monetaria alla Banca Centrale europea, aderendo al patto di stabilità e di crescita che poneva chiari limiti alle dimensioni dei disavanzi fiscali. In teoria l’adesione all’UE avrebbe dovuto costringere i Paesi membri a intraprendere riforme strutturali e a favorire una convergenza delle condizioni economiche tra gli Stati aderenti. Ma ciò non poteva bastare. Nessuna unione valutaria è mai sopravvissuta senza che vi fosse anche un’unione fiscale e politica. L’Eurozona è priva di forti meccanismi di condivisione degli oneri fiscali».
Rispondendo alle formulate obiezioni degli autorevoli economisti, i sostenitori dell’Europa si affannano a trovare soluzioni che possano dare maggiore efficacia all’Unione Europea proponendo nuove regole per la necessaria Unione politica. Il presidente del Consiglio italiano Enrico Letta, convinto europeista, vede con favore la proposta di far eleggere dai popoli europei direttamente il presidente della Commissione Europea per dare maggiore legittimazione e rivalutare il significato politico dell’Unione.
Ciò detto, va valutato con approfondimento il fatto che, di fronte alla crisi economica e al rischio di caduta dell’euro, la Germania ha avuto ed ha un ruolo di potenza economica con una valenza politica decisiva. La Germania ha affrontato una sfida positiva con la riunificazione delle due Germanie (Ovest ed Est), che ha risolto con eccezionali risultati e con lo spirito di sacrificio dell’intero popolo tedesco. Il rischio è oggi che si vada incontro ad un «Europa tedesca» che è anche il titolo di un libro del sociologo Ulrich Beck.
L’autore fa rilevare che la formula «Europa tedesca» è una verità che non si può pronunciare. Meglio dire che la Germania si assume la «responsabilità» dell’Europa. Ma quale responsabilità? E come si deve esplicare? Responsabilità non può significare imporre ai singoli Stati l’incremento della pressione fiscale o la riduzione del welfare o tagli ai diritti dei lavoratori o annientamento del lavoro e delle imprese. Un’austerity irrazionale e violenta può determinare sconvolgimenti e forti tensioni sociali che bisogna scongiurare. Responsabilità significa accompagnamento ragionevole di una politica nazionale che tuteli i diritti e raffreddi i contrasti, con la finalità di raggiungere al più presto una pacificazione sociale.
Nell’ambito della propria responsabilità la Germania, che ha avuto non pochi vantaggi economici dall’euro, dovrà cooperare per un’Europa più unita e solidale, senza una propria particolare egemonia. La saldezza - e salvezza - di un’Europa più politica che monetaria si raccorda necessariamente con le radici culturali e umanitarie delle nazioni europee, che si devono stringere in un’intesa diretta ad obiettivi di largo respiro. Scongiurando la catastrofe. È proprio il Macchiavelli ricordato da Beck ad ammonire che «le crisi facilitano l’accumulazione del potere, ma in determinate circostanze possono portare anche alla sua rovina».
Beck parla paradossalmente di «merkiavellismo. Il cancelliere tedesco Angela Merkel non è molto solidale con gli europeisti, i quali chiedono che la Germania assuma impegni vincolanti di aiuto e, dall’altro verso, non appoggia la fazione degli euroscettici, i quali vogliono negare ogni aiuto. L’inclinazione della Merkel è al non-agire, al non-agire ancora, all’agire più tardi, in una parola all’esitare. La sua posizione non è un chiaro sì né un chiaro no, ma un «ni» giocato al poker del potere. Alla domanda «s’elli è meglio essere amato che temuto», Macchiavelli risponde nel «Principe»: «Si vorrebbe essere l’uno e l’altro; ma perché gli è difficile accozzarli insieme, è molto più sicuro essere temuto che amato, quando si abbia a mancare dell’uno de’ due».
La Merkel e il presidente francese François Hollande sono oggi sostenitori di una nuova Europa di alta valenza politica. L’Europa economica non basta. Il primato dell’economia deve aprire la strada alla politica o addirittura agli Stati Uniti d’Europa. Ma entrambi sono sinceri? Perché non dicono nulla sulla bocciatura della Costituzione europea avvenuta con il referendum in Francia e in Olanda nel 2005, che conteneva principi di largo respiro basati sulle radici dell’unità europea? Perché si è ripiegato sul Trattato di Lisbona che dà grande spazio alle identità nazionali e attenua o preclude qualsiasi esteso e decisivo passaggio politico?
Nel 2005 si sbagliò clamorosamente e oggi se ne pagano le conseguenze. Intanto l’Europa degli Stati nazionali ha vanificato quel necessario riequilibrio e quella dovuta redistribuzione che un’Europa politica poteva da tempo compiutamente realizzare superando differenze e classificazioni che non sono più tollerabili. L’impegno leale e veritiero di tutti deve essere finalizzato al superamento di una concezione di Europa solo monetaria, che non tiene conto delle disuguaglianze tra Nord e Sud ed anzi ne sottolinea le differenze senza tener conto della decrescita delle aree più deboli e delle conseguenze di una crisi che attraversa drammaticamente il Sud d’Europa.
Ci si chiede come far crescere la democrazia in Europa. La ricetta unanimemente condivisa riguarda un’efficace iniziativa politica che possa modularsi sull’Europa federale. Il premier francese Jean-Marc Ayrault ha manifestato perplessità su questa scelta federativa che deve fare i conti con «quanto trasferimento di sovranità» gli Stati membri sono in grado di accettare. I nodi da sciogliere sono: il coordinamento delle politiche economiche, l’armonizzazione fiscale, la nascita di una politica comune industriale e il rilancio dell’Europa sociale.
L’individuazione dei tem fatta da Ayrault è puntuale. Ma spiace constatare che su ciascuno dei nodi da lui enunciati esistono posizioni diverse e contrastanti in Europa. C’è, infatti, chi pretende di «partecipare» al processo democratico europeo con una posizione di egemonia, assoggettando le politiche economiche degli altri alle proprie esigenze di dominio. Riguardo all’armonizzazione fiscale bisogna fare i conti con i diversificati deficit di bilancio e con l’esistenza di una molteplicità di Stati membri che praticano politiche fiscali di esenzione e di tassazione privilegiata. L’Europa sociale, poi, mal si concilia con le diverse regolamentazioni del mondo del lavoro e della previdenza e con le resistenze o le «fortezze» poste da alcuni Paesi in relazione al fenomeno dell’immigrazione.
Intanto qualcosa si può pur muovere. Con l’articolo 34 comma 3 della Carta di Nizza si sancisce che «al fine di lottare contro l’esclusione sociale e la povertà, l’Unione riconosce e rispetta il diritto all’esistenza sociale e all’assistenza abitativa volta a garantire un’esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongano di risorse sufficienti, secondo le modalità stabilite dal diritto comunitario e delle legislazioni e prassi nazionali».
L’obiettivo all’inclusione sociale è stato ribadito nella raccomandazione della Commissione Europea del 3 ottobre 2008 n. 867, che esprime l’invito agli Stati membri ad elaborare strategie di inclusione attiva delle persone escluse dal mercato del lavoro attraverso un adeguato sistema di sostegno al reddito, con un mercato del lavoro in grado di favorire l’inserimento e l’accesso a servizi efficienti. Seguono due importanti risoluzioni del Parlamento europeo: del 6 maggio 2009 sul coinvolgimento attivo delle persone escluse dal mercato di lavoro, e del 20 ottobre 2010 sul reddito minimo. Alle invocazioni dell’Europa l’Italia ha risposto in maniera insufficiente o del tutto carente. L’austerità ha caratterizzato gli ultimi anni con il risultato che nel nostro Paese è aumentato il tasso di disoccupazione e di povertà.    

Tags: Ottobre 2013

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