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Avv. PIERO MANCUSI

C'è verità nei casi decisi dal sistema giudiziario italiano? Perché il diritto spesso divarica dal comune senso di giustizia? Ogni giorno la vita giudiziaria insegna che spesso vi è un ping pong tra diversi tribunali e un imputato, condannato in una fase del processo, viene assolto nella fase successiva, e questa è una lezione amara che preferiremmo risparmiarci. Delitti senza colpevoli, processi infiniti, la verità che manca. Da qui una serie di commenti da parte dell’opinione pubblica che si apre con leggi illeggibili e si chiude con la giustizia ingiusta.
Dobbiamo anzitutto precisare che la scienza è entrata prepotentemente nel diritto e risulta decisiva per districare i casi giudiziari attraverso la prova del dna. Oggi il progredire delle tecniche di investigazione a contenuto scientifico rimettono spesso in discussione i processi e le investigazioni di anni di indagine che hanno accompagnato i casi più clamorosi. Per dirne una, nel 2011 la prova del Dna permise di individuare il colpevole del delitto dell’Olgiata, con la confessione del reo rimasto insoluto per venti anni. Ma neppure la scienza dispensa certezze per cui, se il diritto è opinabile per definizione, anche la  scienza è opinabile.
Ogni scoperta scientifica viene sopravanzata dalla scoperta successiva. Il diritto e la scienza distribuiscono solo verità parziali per cui è necessaria un’umiltà reciproca, magari imparando dagli errori che costellano la storia scientifica e quella giudiziaria. Successe per la cura Di Bella contro i tumori, ed è avvenuto più di recente a proposito delle terapie con cellule staminali sviluppate dalla Fondazione Stamina. Tuttavia è proprio l’incertezza della scienza contemporanea che espande il ruolo del diritto e del giudice, che deve scegliere tra opzioni alternative.
Ecco perché le sentenze sono riformabili dal giudice d’appello ed ecco perché all’appello segue la Cassazione: la ragione è presto detta, il diritto cerca la certezza che si ottiene solo con la sentenza definitiva. Ma non sempre la certezza coincide con la verità. A questo punto l’ordinamento giuridico prevede comunque il principio del «Ne bis in idem», nessuno può più essere perseguito dallo Stato se è stato già processato per lo stesso fatto con sentenza definitiva. Evocato già nel diritto romano, il principio «Ne bis in idem», diversamente da altri Paesi, non è inserito nella Costituzione italiana del 1947, ma a livello europeo è osservato dall’articolo 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea di Nizza, dall’articolo 54 della Convenzione di applicazione dell’accordo di Schengen e dall’articolo 4 del Protocollo 7 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
Nel codice di procedura penale è l’articolo 649 a prevedere che l’imputato, prosciolto o condannato con sentenza definitiva, non può essere sottoposto a nuovo procedimento penale per il medesimo fatto. Solo che il principio giuridico, nato come riparo da una pretesa punitiva dello Stato, altrimenti senza fine, è di recente sottoposto a critica perché talvolta determina un insanabile contrasto tra la «verità processuale» e quella «effettiva». A Napoli, di recente, un avvocato indicato dalle prove scientifiche più avanzate come l’assassino di tre familiari, episodio avvenuto 40 anni fa, non può più essere processato perché assolto con sentenza passata in giudicato.
Casi clamorosi ma non rari, come la confessione avvenuta in un episodio di uxoricidio a Ferrara nel quale l’ex marito dopo essere stato condannato a 20 anni in primo grado e assolto in appello per l’uccisione della moglie, nel 2009, si presentò in Questura e, coperto ormai da impunità, confessò il delitto. Un tema simile ha appassionato scrittori e registi come il famoso film del 1999 «Colpevole d’innocenza», nel quale una moglie, consigliata da un avvocato detenuto, ammette l’omicidio del marito, sparito dopo aver inscenato il proprio assassinio, per guadagnare uno sconto di pena. Uscita dal carcere rintraccia il marito e stavolta lo uccide veramente senza rischiare il carcere non potendo essere condannata una seconda volta per lo stesso delitto.
Non è solo sul grande schermo, ma anche nelle pagine della letteratura il tema dell’impunità per il principio del «Ne bis in idem» viene affrontato. Un tema simile si ritrova nel famoso romanzo di Agatha Christie «Dieci piccoli indiani» e nella commedia della stessa Christie «Testimone d’accusa». Il principio del «Ne bis in idem» è del resto la dimostrazione più plastica che, nell’universo del processo penale, non esiste la «verità assoluta» ma solo quella processuale.
Il processo, in sintesi, produce una verità non storica né materiale, ma formale e probabile. Ed ecco perché i casi di «Ne bis in idem» sono considerati nella collettività come un corto circuito del processo giurisdizionale e determinano invece un processo mediatico che lievita e monta su fatti e circostanze non più spendibili in tribunale. È un corto circuito nel quale, in una logica accusatoria, si svolgono due processi, quello giurisdizionale deputato dall’ordinamento e che finisce con le sentenze definitive ove vengono selezionate le carte processuali, e quello mediatico che, in una logica inclusiva, non conosce regole ma solo il convincimento della collettività.
Magari a distanza di molti anni e a gradi di giudizio ormai esauriti anche i soggetti assolti sono considerati colpevoli nel processo mediatico che si crea nell’opinione pubblica. Intanto il principio del «Ne bis in idem» si allarga nell’interpretazione della Corte europea dei diritti dell’uomo, anche oltre il perimetro del processo penale. È del 4 marzo 2014 la sentenza Grande Stevens contro l’Italia, nel caso del contestato aggiotaggio Ifil-Exor, prima sanzionato in via amministrativa dalla Consob e poi perseguito penalmente. I giudici di Strasburgo ritengono che le sanzioni amministrative o tributarie, se hanno una finalità punitiva, assimilabile a quelle penali, incorrono nel divieto del «Ne bis in idem». In sintesi, è impossibile avviare un processo penale per la stessa violazione già sanzionata in via amministrativa.  

Tags: Dicembre 2014 libri codice penale diritto penale Corte di cassazione giustizia amministrativa

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