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Corsera Story. Libertà di stampa, libertà dei giornalisti: un ossimoro nel pianeta dell’informazione

L’opinione del Corrierista

Dato per scontato il valore della libertà di stampa, resta da riflettere sulla libertà dei giornalisti. La somma perfetta sarebbe libertà di stampa più giornalisti liberi, ma la perfezione non è propria del pianeta dell’informazione, il luogo più adatto, semmai, per il felice aforisma di Leo Longanesi: «Non è la libertà che manca; mancano gli uomini liberi».
Il giornalista libero non è quello capace di criticare il proprio editore - in tal caso si tratterebbe di eroe indomito o, meglio, di aspirante disoccupato -, ma il collega in grado di rifiutarsi di partecipare, nell’interesse dell’editore, al lavoro sporco, pur contrabbandato in foggia di diritto all’informazione.
In nome della sovranità del lettore, infatti, sovente si commettono nefandezze. Ad esempio, è senz’altro libero il giornalista che non si lascia trascinare dal partito o dalla moda ben dentro l’intimità delle persone da sbattere in prima pagina.
Il mio capo redattore al «Corriere d’informazione», Gaetano Afeltra, parafrasando Oscar Wilde («La professione di spia ha perso ogni ragion d’essere: la sua funzione la svolge la stampa»), raccomandava di descrivere i fenomeni socialmente rilevanti, senza invadere la sfera privata, trasformando la cronaca in pettegolezzo.
Ecco, direi che, oggi, in Italia la questione più urgente non è la difesa della libertà di stampa, bensì i casi frequentissimi di esondazione dalla cronaca per saltare nella compiaciuta intromissione, violenta e morbosa, fin dentro l’alcova.
Un politico, un industriale, un finanziere, un editore, un vip, una star, insomma chiunque sia soggetto al panopticon mediatico deve passare l’esame di castità a mezzo stampa oppure compito dell’informazione, nell’interesse dei cittadini e della salute della Polis, dovrebbe riguardare capacità, preparazione, onestà, creatività, intelligenza tattico-strategica nel portare avanti la propria attività, arte o professione?
E l’avversario politico e il concorrente vanno affrontati e combattuti a colpi di portinaia ciarliera, oppure con la critica serrata sulle sue iniziative nocive all’interesse collettivo? Ecco, il giornalista si dimostrerebbe uomo e professionista libero, se opponesse un secco «no» a guardare dal buco della serratura per descrivere gli accadimenti della camera da letto o gli angoli alterni-interni dei rapporti familiari, nonostante l’ordine, l’invito o il consiglio dell’editore, del leader politico, dei referenti della corporazione, di questo o quel potentato. Nella storia del «Corriere della Sera» si ritrova il primo mirabile esempio di come la battaglia ideale e politica si possa condurre, evitando colpi bassi.
Luigi Albertini, direttore del «Corsera» dal 1900 al 1921 - ma, di fatto, sino al 1925 - professionista stimato ed osannato, talora ben oltre i meriti (si pensi all’ossessione antigiolittiana che causò non lievi danni alle istituzioni), si mostrò giornalista libero ed intellettualmente onesto nell’opposizione a Mussolini. Quando il Duce del fascismo, il cui avvento non fu, all’inizio, per nulla contrastato dal «Corriere della Sera», tolse ogni illusione sulla presunta fatale confluenza nella cornice liberaldemocratica, allora, Luigi Albertini si risvegliò dal sogno e diede il via, il 22 maggio 1923, alla campagna antifascista, con un editoriale profetico, delineante la deriva autoritaria del 1925-1926: «Nella difesa delle libertà essenziali, della Costituzione, del Parlamento, non crediamo che sia né lecito, né onesto transigere… a noi non basta aver salvato la nostra faccia di liberali; dobbiamo spingerci più oltre e raggiungere, se possibile, il fine di evitare un salto terribile nel buio».
Da quel momento, Albertini fece del suo quotidiano la voce più autorevole dell’opposizione all’edificando regime. Poteva, ma non lo fece, avvalersi di una storia vera e documentabile, a lui ben nota, che avrebbe certo compromesso l’immagine dell’uomo Mussolini.
Nel 1913, tra la benestante Ida Dalser e l’allora direttore dell’«Avanti!» esplode una passione travolgente. A Benito l’attrazione dura giusto il tempo per approfittare della generosità di Ida, che vende ogni suo bene per finanziare il nascente «Popolo d’Italia», nonché l’ascesa politica dell’amato, che nel 1914 diventa, con rito religioso, suo marito. L’11 novembre 1915, il lieto evento: nasce Benito Albino Mussolini, ma babbo Benito festeggia il maschietto in maniera alternativa e, per così dire, futurista, sposando, il 17 dicembre 1915, con rito civile, Rachele Guidi, che gli aveva già dato, il 1° settembre 1910, una bambina: Edda.
Ebbene, Albertini, dal 1916 al 1925, riceve disperatissime missive dalla Dalser, apprendendone, via via, la discesa esistenziale sin negli inferi della miseria, della malattia, del manicomio, extrema ratio, per togliere di mezzo la testimone delle tangenti francesi che convertirono Mussolini all’interventismo, e far tacere la donna illusa, tradita, abbandonata, perseguitata e, infine, reclusa. Albertini fa periodicamente giungere alla povera Ida sussidi, ma non utilizza mai giornalisticamente le informazioni di prima mano sull’abissale disonestà nel privato dell’uomo Mussolini.
Non pubblica neppure la lettera della Dalser, giuntagli nel 1925, l’anno in cui viene estromesso dal giornale. In quest’ultima missiva stava scritto: «Sul capo di Benito pesa il delitto… di aver cercato con mezzi prezzolati di farci morire entrambi… Benitino sta male, io sono esaurita di forze per dieci anni di stenti di fame, chiedo aiuto a tutte le anime buone…Carcere, manicomio, sfruttamento, abbavagliamento esilio, sequestro, basta, basta…».

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