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BRUNO PIATTELLI:
ALLA RICERCA
DELLA QUALITA' PERDUTA

 

Bruno Piattelli, stilista, uno dei creatori
del Made in Italy


«Lo Stato deve
incassare su ciò che viene
prodotto e venduto; se,
anziché obbligare i datori
di lavoro ad operare tutte
quelle ritenute sulle
buste paga, consentisse
di consegnare più denaro
ai dipendenti che l'hanno
prodotto, esso sarebbe
rimesso in circolazione
attraverso i consumi,
e su questi lo Stato
incasserebbe di più»

mprenditore in un settore, l'alta moda maschile, solitamente meno sensibile alle cicliche oscillazioni dell'economia, Bruno Piattelli costituisce un'insostituibile figura dell'industria e della cultura romana, basata non sull'edilizia e sul mattone ma sul buon gusto, sullo stile, sulla signorilità, ingredienti rari in un mercato massificato in cui prevale il livellamento verso il basso. Un tempo nell'alta moda gli stilisti italiani surclassarono i francesi e Firenze superò Parigi e nell'industria metalmeccanica i prodotti italiani s'imposero nel mondo con il design e l'eleganza delle automobili; ma oggi chi se ne ricorda più?
Con Piattelli si può parlare in maniera franca e approfondita di moda ma soprattutto di economia, politica, costume. Le ampie finestre del suo atelier nel prestigioso Palazzo Ferrajoli in Piazza Colonna a Roma sono perennemente spalancate sulla storia e sull'arte antica e moderna, grazie alla millenaria Colonna cosiddetta Antonina, alta 30 metri, costruita nel 180 dopo Cristo in onore dell'imperatore Marco Aurelio, situata al centro dell'area; e grazie al severo dirimpettaio Palazzo Chigi, sul lato opposto della piazza, sede fino al 1958 del Ministero degli Esteri, poi del Governo.
Domanda. Che pensa della situazione economica e occupazionale, e degli attuali mali dell'Italia di cui spesso si evita di parlare?
Risposta. A mio parere la situazione va affrontata senza necessità di ricorrere ad un Adam Smith, ai grandi economisti, ma seguendo un principio che spesso lo Stato liberale dimentica. Lo Stato deve incassare su ciò che viene prodotto e venduto; ma se, anziché obbligare i datori di lavoro ad operare tutte quelle trattenute sulle buste paga dei dipendenti, consentisse loro di consegnare più denaro nelle mani di chi lavora e l'ha prodotto, esso sarebbe presto rimesso in circolazione attraverso i consumi, e su questi lo Stato incasserebbe maggiori utili. Ma non risolveremo mai i nostri problemi perché è facile dire «consumate, comprate, vendete», ma con che cosa, se il danaro a tantissimi non basta neppure per sopravvivere? Stiamo cercando di copiare alcuni principi vigenti negli Stati Uniti, ma non quello basilare consistente nel lasciare libero chi lavora di spendere come vuole il danaro che ha guadagnato. Ma se non ne dispone, come fa a spenderlo?
D. Le sembra facile la soluzione da lei indicata?
R. Non penso che occorrano rivoluzioni copernicane. Non sono un economista, ma ritengo che la scienza economica sia oggi in grado di suggerire un sistema di revisione dei meccanismi vigenti diretto a ridurre il prelievo fiscale sui guadagni dei lavoratori prima ancora che questi li abbiano incassati, a lasciare di più nelle mani di chi lavora e di meno in quelle dello Stato il quale, come è evidente, non può e spesso non sa gestire la massa monetaria che esige. Negli Stati Uniti vige sui consumi un'imposta del 5 per cento che viene pagata al momento dell'acquisto; a mio parere è un sistema eccezionale per almeno due motivi: fa conoscere subito quanto ha speso la massa e, soprattutto, lo Stato incassa sui consumi reali. In Italia vigono una serie di imposte; non si tratta di ridurle ad una, ma appare necessaria una semplificazione riducendo il numero esagerato dei passaggi esistenti. Sinceramente, però, debbo dire che non vedo spuntare nessuno in grado di attuare questo progetto, peraltro semplicissimo.
D. Perché questo non avviene?
R. Se una parte delle ritenute fiscali che oggi vanno direttamente allo Stato fosse immessa direttamente nei consumi attraverso i lavoratori, che sono i loro legittimi proprietari, si avvierebbe subito una ripresa economica; ma tale somma sfuggirebbe per un certo periodo alle destinazioni preferite dai centri del potere politico e burocratico. Le risorse finanziarie prodotte dalle aziende devono andare a queste, lo Stato deve incassare sul loro fatturato ossia sulle loro vendite; è un principio dell'economia liberale. Ma come possono fatturare, le imprese, se non vendono? Che cosa avviene in tali casi? Avviene che quanto il fisco pretende da esse non è una percentuale degli incassi ossia dei redditi realizzati dall'imprenditore; ma è una parte del capitale dell'impresa, che così viene intaccato, eroso. E, ogni volta che viene eroso, rende di meno. È questo il punto dolente della nostra economia.
D. Poiché, attraverso le ritenute fiscali su stipendi e salari, lo Stato dispone subito di una massa di risorse, gestite poi in realtà dai politici, ritiene che questi ultimi potrebbero approvare una riforma che ridurrebbe e allontanerebbe nel tempo questa loro possibilità?
R. Una volta a regime, una riforma del genere sarebbe la stessa cosa per il fisco, che anzi incasserebbe molto di più. Non c'è bisogno di mobilitare grandi economisti per conoscere questi semplici principi. Ma anche un altro fattore ostacola al momento la ripresa dell'economia: i conflitti sindacali in atto. Occorrerebbero più buon senso e volontà costruttiva, da tutte le parti. Nel cinquantennio trascorso il sindacato ha solo preteso, non ha collaborato con l'industria, non ha controllato i propri iscritti, non li ha richiamati alle loro responsabilità morali; ne è risultato il grande assenteismo del quale oggi tutti, e soprattutto i giovani, pagano le conseguenze. Aver perduto il senso della misura ha reso necessari, oggi, sacrifici molto maggiori.
D. Si riferisce alla vertenza in atto tra la Fiat e i metalmeccanici della Fiom aderente alla Cgil?
R. La difesa di interessi definiti «maggiori» per il Paese, che porti a un miglioramento della situazione produttiva e quindi economica, occupazionale e salariale, è sempre ben accetta, ma in una trattativa l'irrigidimento di una parte è frutto spesso di quello della parte opposta; credo che occorra sempre il senso della misura. L'interesse è comune, dell'industria che vuole produrre e del dipendente che vuole lavorare. Non ho mai condiviso la frase «Il lavoro è un diritto» intesa nel senso che basta nascere per pretenderlo, come se esistesse un ente che dispensa il lavoro. Questo scaturisce da tanti fattori, in primo luogo dalla volontà di lavorare, poi dalle opportunità, ma non sono queste che lo creano. In uno Stato socialcomunista si potrebbe affermare «Ho diritto al lavoro, quindi lo Stato deve darmelo»; in un Paese democratico il lavoro è creato da un'industria che si mette a produrre, per cui va avanti chi sa, chi è capace, chi ha la volontà di fare. Sono concetti basilari. Non è vero che in Germania l'operaio guadagna di più, guadagna secondo il lavoro che svolge e i diritti che ha, per questo la produzione tedesca aumenta e si qualifica e il rapporto tra datore di lavoro e lavoratore è migliore che in Italia.
D. Dando quasi sempre ragione ai lavoratori, la Giustizia del lavoro degli anni 80 e 90 ed oltre ha contribuito alla situazione attuale?
R. Dinanzi all'ingessatura di un'epoca in cui l'assenteismo sembrava premiato anche quando danneggiava i colleghi e l'azienda, quando è caduta la classe politica della prima Repubblica si è prodotta una reazione codificata nelle due leggi Treu e Biagi, che hanno rivoluzionato i contratti di lavoro e che sono diventati oggi una fonte di precarietà. Il precariato scaturisce esattamente da quei due provvedimenti.
D. È ancora giustificato l'art.18 dello Statuto dei lavoratori, che vieta alle aziende con oltre 15 dipendenti di licenziare senza giusta causa?
R. Il Governo ha provato a rivederlo ma è stato attaccato violentemente. Non si ha il coraggio di dirlo, ma andrebbe abrogato perché in Italia c'è tanto precariato, ma nessuna azienda rischia di assumere persone che non potrebbe più licenziare. È una tragedia. Senza quell'articolo moltissimi sarebbero assunti e giudicati secondo la capacità e il merito. Nessun imprenditore licenzierebbe un lavoratore bravo. Nel Nord-Est c'è un gran bisogno di lavoratori, ma dalla altre regioni d'Italia non c'è interesse ad andarvi; mi rendo conto dei problemi familiari connessi a un trasferimento, ma il diritto ad avere un lavoro non comprende anche quello di averlo sotto casa. Poi ci infastidiamo quando ad occupare quei posti vengono da altri Continenti.
D. Come vede i lavoratori di oggi?
R. Oggi anche il lavoratore medio ha una cultura diversa rispetto al passato, ha più coscienza, più istruzione; sarebbe più facile per lui partecipare alla conduzione dell'azienda, la sua voce conta di più; il proletariato non esiste più, siamo tutti borghesi. Questo significa che i valori sono mutati, ma allora approfittiamone; invece moltissimi lavoratori non sono adeguatamente utilizzati.
D. Come risente della crisi il settore tessile-abbigliamento?
R. È in atto una flessione nei consumi, ma si assiste anche a contraddizioni. Se in Italia si fermassero tutti i macchinari per la produzione di abbigliamento, credo che quello che c'è in case, negozi e magazzini basterebbe per 10 anni. È un dato per capire cosa significa consumo: una necessità che poi diventa fantasia, divertimento. Allora si capisce che occorre puntare sulla creatività, sulla novità che tecnologie, macchinari e chimica consentono, su nuovi materiali e applicazioni. Ma tutto questo da solo ancora non basterebbe, perché c'è sempre in arrivo un'altra generazione che vuole avere di più, e questo è il motore di ogni attività commerciale. Le grandi mostre di artisti affermati sono necessarie, ma vanno tenute d'occhio le nuove generazioni di artisti; lo stesso avviene per i prodotti consumistico-commerciale.
D. Che cosa ostacola l'affermazione di nuovi prodotti?
R. Purtroppo tutto si sviluppa in proporzione agli investimenti pubblicitari, compresa l'arte; siamo in presenza ormai di un fenomeno di dimensioni abnormi; tv, radio, giornali presentano nuovi prodotti con un bombardamento di pubblicità, il che significa che da soli essi non si imporrebbero mai. Il pubblico ha troppo assorbito questo concetto, ma ormai anche il mondo della pubblicità, ossia i suoi produttori, ha bisogno di visibilità, perché è diventato un settore autoreferenziale.
D. Si parla di ripresa in Germania e negli Stati Uniti. E in Italia?
R. Oggi le attività commerciali hanno legami mondiali, non c'è più un'area isolata. L'Italia ha compiuto l'errore di puntare sulla produzione a basso costo di Cina, India, Sudamerica, depauperando il ricco materiale umano che aveva e il ritmo produttivo di alcune aziende; non ha compreso l'importanza di andare a vendere nei Paesi in via di sviluppo, i cui consumi saranno pressoché illimitati. Grazie all'inventiva che abbiamo, la nostra produzione dovrebbe essere rivolta solo a qualità e a novità, ossia a prodotti eccezionali che tutto il mondo sempre chiederà.
D. Che pensa dell'odierno modo di vestire dei giovani?
R. I giovani vestono in questo modo in tutto il mondo, non c'è più una tendenza italiana, spagnola, giapponese. Non c'è più una creatività imposta dall'alto come un tempo; la comunicazione rende immediatamente mondiali le abitudini, è difficile combattere per l'estetica, ma chi produce è lieto di questo perché si consumano grandi numeri di brutti capi. I ragazzi non vestono così perché si sentono eleganti ma per sentirsi uguali agli altri, per proteggersi. È un argomento più da sociologi che da stilisti o economisti. Vestito diverso da così il giovane non esisterebbe. Non si vedono più paltò, solo qualche paltoncino per fare scena, tutti indossano giacconi e giacchetti, più funzionali per viaggiare in moto o in motorino, veicolo che condiziona il modo di vestire. Ma poi si scade nel cattivo gusto, che è difficile combattere. Un tempo l'alta moda consentiva di esprimere idee e concetti in modo elegante, il consumo faceva riferimento a quei capi, mentre oggi questi costituiscono una nicchia di mercato per persone che continuano ad apprezzare quei valori.
D. Come e perché l'alta moda è finita nella produzione di massa?
R. Le aziende straniere, soprattutto Usa, acquistavano i nostri modelli e li riproducevano in serie; presto anche aziende di abbigliamento italiane cominciarono a servirsi di nostri stilisti per disegnare la loro produzione, così l'alta moda entrò nei prodotti in serie, di consumo, comunque di qualità e di gusto, affermandosi all'estero. Il consumo poi è andato sempre più scemando per le tendenze dei giovani che non vogliono più questi capi desiderando un abbigliamento che li fa apparire abbandonati a se stessi, non più casual ma, con un termine romanesco, «scaciati», senza alcuna cura. Però desiderano tutti indossare qualche modello di camicia visto indosso a qualcuno di loro. Non brillano in buon gusto ma, poiché il cattivo gusto alligna e si vendono milioni di pezzi, i produttori non possono sottrarvisi.

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