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SERGIO MARCHIONNE:
ORA DOVRA' FAR VEDERE
COME E DOVE
GUIDERA' LA FIAT

a cura di
LUIGI LOCATELLI

Sergio Marchionne,
amministratore delegato
della Fiat-Chrysler


Sacrificando gli ultracinquantenni
Marchionne ha ottenuto
un ricambio generale
e la crescita dei trentenni,
più disponibili verso il capo,
a costo zero per l'azienda
ma con un effettivo,
reale aiuto di Stato;
appagata da queste scelte,
la sinistra l'ama sempre più,
poi la Finanziaria
vara la rottamazione

nche per un personaggio dell'abilità di Sergio Marchionne, amministratore delegato della Fiat-Chrysler, gli esami non finiscono mai. Vinta la battaglia del referendum di Mirafiori contro antagonisti determinati come la Fiom con il sostegno collaterale della Cgil, ha avuto appena il tempo di riscuotere l'approvazione dei mercati finanziari con il significativo aumento delle quotazioni ma altri problemi debbono essere affrontati. In un panorama del mercato mondiale tutt'altro che favorevole, anzitutto deve risollevare la collocazione della Fiat in coda alle quote di vendita di tutte le imprese automobilistiche europee con un modesto 6,9 per cento contro l'8,7 di un anno prima, come non era mai accaduto nella sua storia.
Poi la necessità di presentare i progetti elaborati per rinnovare la gamma dei marchi Fiat e Chrysler, che debbono essere nuovi e vincenti, a prezzi competitivi, sui mercati internazionali, soprattutto quello cinese, il più promettente e quindi il più ambito dai produttori europei, statunitensi, giapponesi, per citare i maggiori. Inoltre, nei fatti, la Fiat deve rinnovare l'intero catalogo della propria produzione per renderla appetibile nel mercato attuale. Molti modelli risentono dell'età di progettazione e non rispondono alle richieste sia di tecnologia che di linea, è stata abbandonata l'alta gamma, nel settore medio la concorrenza tedesca vince su tutti, nelle medie cilindrate i marchi francesi hanno una posizione consolidata. Soltanto nelle piccole la Fiat mantiene un buon primato, ma è il settore di minore redditività e che ora viene attaccato da altri produttori mondiali, indotti da una crisi finanziaria mondiale di cui è difficile prevedere la definitiva conclusione e che sconsiglia grandi spese per l'auto.
Marchionne ha detto che il proprio cassetto è pieno di progetti, ma non li ha mostrati. Né ha fatto capire come intende finanziarli: «Ci aspettano mesi d'inferno, nessun costruttore di auto europeo ora guadagna». Se non d'inferno, l'anno in corso sarà comunque di grandi difficoltà e Marchionne, usando l'indubbia abilità di modificare con rapidità piani e annunci, prepara un'offensiva con nuovi modelli per il 2012: «È inutile lanciare nuovi modelli quando il mercato è difficile. Il 2011 sarà un anno di transizione». E ha deviato l'attenzione di media e concorrenza su un altro tema. Per le cessioni della Magneti Marelli e la quotazione della Ferrari ha confermato che sono decisioni possibili, ma nulla di più mentre per la cessione dell'Alfa Romeo ha lanciato una cifra improbabile.
Al Politecnico, all'assegnazione a Giorgetto Giugiaro della laurea honoris causa erano presenti anche i vertici della Volkswagen alla quale Giugiaro ha ceduto la propria società Italdesign. Marchionne, è stato il pensiero di molti, è qui per parlare della vendita dell'Alfa Romeo. «Occorrerebbe un assegno esorbitante, diciamo venti miliardi», ha detto con un filo di ironia senza aspettare la domanda, come se volesse intendere che a quel prezzo si sarebbe potuta concludere la vendita; ma suscitando, nello stesso tempo, le perplessità di chi teme che nei suoi piani ci sia la vendita, anziché di automobili, di parte del patrimonio del Gruppo. Come è accaduto in passato con la Telettra, con la spagnola Seat passata alla Volkswagen, con il motore common rail considerato una preziosa tecnologia ceduta alla Bosch.
Ma chi è in realtà Sergio Marchionne? Un genio finanziario e imprenditoriale scoperto nel 2004 da Umberto Agnelli, o un abile bluff, o un grandissimo manager moderno che sa anticipare il futuro dell'impresa, o un sognatore che vende illusioni? E, scomparsi gli Agnelli, cosa è oggi la Fiat? La vecchia cassaforte di famiglia in via di svuotamento per mantenere immagine e vizi del passato, o una delle grandi imprese automobilistiche moderne lanciata sul piano internazionale? Quale destino avrà la classe operaia della maggiore azienda italiana, dopo la sconfitta del referendum? Si arroccherà nella difesa della memoria di quello che fu il forte sindacato italiano, o si avvierà sulla strada della modernizzazione intrapresa dalle aziende più grandi, americane e tedesche in particolare?
Nel 2004, alla morte di Umberto ammalato dal mese di marzo, Sergio Marchionne è stato nominato amministratore delegato di una Fiat considerata ormai avviata al fallimento, orfana dell'Avvocato ma con un folto gruppo di famiglia, formato da quasi un centinaio di persone interessate soprattutto alla riscossione delle cedole. Parenti a vario titolo ed eredi con quote diverse del patrimonio, ma rispettosi da sempre dell'indicazione che, come confidò Gianni Agnelli dopo la morte di Vittorio Valletta, gli diede il nonno Giovanni, il fondatore: «Sei vicepresidente ma il tuo ruolo è di osservare quello che fa il professor Valletta, per imparare, perché lui è la Fiat. Tu limitati a tagliare le cedole».
Con questa norma impartita al gruppo di familiari, non sorprendono le crisi continue della Fiat, compresa quella, gravissima, che scoprì Cesare Romiti la mattina del 18 ottobre 1974, nel suo primo giorno di lavoro come direttore centrale per la finanza, la pianificazione e il controllo. La prima cosa che chiese, per cominciare fu quella di vedere i conti di cassa. «Li guardammo ben bene–ha raccontato Romiti–il 18, il 19, il 20 e il 21 ottobre, e venne subito fuori che alla Fiat non avevano i soldi per le paghe e gli stipendi della fine dell'anno. Dissi: come mai questi quattro conti non li avete fatti prima? E venne fuori il panico».
È molto probabile che Sergio Marchionne conosca nei più riservati dettagli la storia degli Agnelli, facoltosi proprietari terrieri e allevatori di bestiame di Villar Perosa, all'imbocco della Val Chisone, e della Fiat creata nel luglio 1899 da un gruppetto di nobili e ricchi borghesi, fino al primo giugno 2004, giorno del suo arrivo al Lingotto, dove si installa in una stanza arredata sobriamente al quarto piano con l'unica innovazione di un notevole apparato informatico, per conoscere ogni situazione nelle singole fabbriche e in tutti gli uffici, ricevere documenti e trasmettere messaggi e disposizioni, collocato accanto a un sofisticato stereo che diffonde musica in continuazione.
Dopo poco più di un mese, in luglio presenta un piano industriale per salvare e rilanciare il Gruppo che la maggior parte dei presenti ritiene irrealizzabile. Chiamato a Torino da Umberto Agnelli, Marchionne era uno sconosciuto. Cinquantenne, nato a Chieti, figlio di un maresciallo dei Carabinieri abruzzese di origini contadine e di una profuga istriana di famiglia di possidenti poi emigrati in Canada negli anni Sessanta, il giovane Marchionne cominciò la carriera nel Lawson Group. Rientrato in Europa, ha lavorato prima in una società produttrice di alluminio, la Alusuisse Lonza, poi alla Sgs, Société générale de surveillance, attiva in campo internazionale nei servizi di ispezione e certificazione d'azienda e della quale la Ifil di casa Agnelli era uno degli azionisti attraverso la Worms.
Tenuto fuori dal comparto auto ma interessato alla finanza, Umberto Agnelli, che partecipava a Ginevra alle riunioni strategiche della Sgs, rimase colpito dalla rapida moltiplicazione di utili e dalla capitalizzazione di questa società. E decise di cooptarne l'amministratore delegato, Sergio Marchionne, come amministratore indipendente nel vertice della Fiat, allora guidata da Giuseppe Morchio, quarto amministratore delegato in un biennio dopo Paolo Cantarella, Gabriele Galateri di Genola e Alessandro Barberis. Alla morte di Umberto nel maggio 2004, Morchio si candidò con fermezza a sostituire gli Agnelli in un'impresa il cui titolo, dai 30 euro del 2000, era sceso a 6 euro, con i conti disastrati e ormai privata dell'investment grade.
I giornali internazionali del settore auto traducevano con crudele ironia il marchio Fiat come acronimo di Fix It Again Tony, dove Tony in un certo mondo anglosassone indicava il meccanico incaricato di stringere i bulloni di una vettura che perde pezzi. Ci furono momenti aspri, con fermezza Morchio fu invitato alle dimissioni nella riunione dell'accomandita degli eredi Agnelli e venne disegnato un nuovo vertice che doveva preservare l'eredità dell'Avvocato nello stile, nelle capacità di afflusso di denaro, nella chiusura di fronte a terzi. Invece inconsapevolmente ne decretò la fine.
Luca di Montezemolo, da appena 72 ore presidente della Confindustria al posto di Antonio D'Amato con il 98 per cento dei voti e pupillo dell'Avvocato, venne all'unanimità nominato presidente. Per il ruolo di amministratore delegato del Gruppo Fiat, Gianluigi Gabetti, amministratore delegato dell'Ifi e grande conoscitore dei meccanismi e dei personaggi della finanza, propose Sergio Marchionne, del tutto sconosciuto ai presenti, l'unico dei grandi manager dell'azienda che l'Avvocato non aveva scelto né mai incontrato.
Circa un anno prima, sentendo per caso quel nome, Montezemolo aveva chiesto a Umberto chi fosse. La risposta fu ferma e significativa: «È un manager bravissimo, un mix di canadese, italiano e svizzero, in linea con la Fiat che deve essere un'azienda italiana aperta a tutti i mercati». Nella riunione della famiglia lo presentò lo stesso Gabetti, parlando a nome del defunto vicepresidente e di cui condivideva la segreta visione della necessità di un rinnovo del Gruppo: «Umberto pensava spesso a lui, ne parlava con noi da quando aveva visto i risultati eccellenti della Sgs e l'aveva voluto nel vertice della Fiat».
Nasceva così l'attuale Fiat, ormai senza gli Agnelli, prefigurata da Umberto, destinata ad operare in un mondo produttivo e finanziario di rapidi e violenti cambiamenti tecnologici, produttivi, economici, di vita sociale, di rapporti politici e sindacali, di relazioni industriali, di forte competizione con una concorrenza sempre più estesa. Oggi, nel mercato italiano sono presenti 59 marchi di tutti i continenti, e non sono tutti quelli esistenti, che offrono 454 modelli, ciascuno con numerose versioni e diverso equipaggiamento: questo è il mondo produttivo con il quale si deve misurare la Fiat di Sergio Marchionne.
Nel 2006, dopo quattro anni di astinenza, il Gruppo torna a distribuire dividendi, e presenta tre nuovi modelli di tutto rispetto, Grande Punto, Panda e 500, competitivi oltre le previsioni. Un risultato che cancella l'immagine di una 500 che esce da una bara pubblicata dal Journal de l'Auto: «Tutti ci davano per morti–dice Marchionne il 3 luglio 2007 in una intervista–. Ma la Fiat non creperà più. Ora il sogno è un altro. Diventare i migliori, non in tutto ma in certi valori. Essere italiani significa farci riconoscere per lo stile che abbiamo».
A quel punto il Gruppo aveva una capitalizzazione di Borsa di 28 miliardi di euro, con un titolo che toccava 23,8 euro. Aveva abbattuto i debiti industriali e registrato profitti per 2 miliardi su un giro d'affari di 58 miliardi. Entrato nel vertice del Gruppo, come prima cosa Marchionne dice di aver fatto il giro del mondo in 40 giorni, visitando tutti gli stabilimenti, vedendo tutto, la burocrazia interna più ministeriale che d'impresa, spesso incompetente, disinteressata, con grandi gelosie e dissapori intestini, soprattutto un'organizzazione non strutturata, per capire la necessità di decisioni rapide per battere la concorrenza. «La logica era: quest'anno ho fatto un accendino, il prossimo anno ne farò uno più lungo di un millimetro e chi se ne frega se intanto all'estero lo fanno di un chilometro».
D'abitudine dorme quattro ore e lavora nelle altre venti, sabato e domenica compresi, due pacchetti di sigarette al giorno, mai una pausa, un dubbio, un'esitazione, legge documenti fitti di dati con rapidità, cogliendo i punti centrali. Una capacità che gli ha consentito di eliminare la direzione finanziaria e di redigere personalmente bilanci, trimestrali e slide per le presentazioni alla comunità finanziaria. Con questo attaccamento al lavoro è comprensibile che non si conosca una sua vita privata: semplicemente non l'ha. La moglie e i due figli vivono a Ginevra. Li raggiunge in elicottero quando può, nei momenti di vacanza si radunano nella casa di campagna nel Cantone di Zug, l'area della Confederazione con la pressione fiscale più leggera e dove ha stabilito la residenza.
Nei primi mesi in Fiat indossava giacca e cravatta ma è passato presto ai maglioni girocollo, blu o neri. È difficile dire se per comodità, o se è un messaggio di un carattere aperto ma deciso, di una tendenza a semplificare ogni tema, cominciando dall'abbigliamento, di preferire al formalismo dell'alta borghesia torinese la familiarità dei lavoratori. I giornali ora scrivono che nell'immaginazione collettiva il maglione di Marchionne ha sostituito l'orologio sul polsino della camicia dell'Avvocato. Certamente ha modificato i comportamenti operativi a tutti i livelli, dai più alti a quelli dei semplici operai, i rapporti con il mercato che diventa la fonte degli introiti.
Oggi il ricordo della Fiat degli Agnelli è rimasto nella memoria di pochi, ora è Fiat Group Automobiles, produce utili, per il momento concentrati in due aree del mercato mondiale. Di Marchionne, oltre alla decisa voglia di successo attraverso il lavoro, si conosce una sola e autentica passione, la musica. Bach e Mozart, il jazz, Paolo Conte, Sergio Endrigo, Aznavour, ma soprattutto Bob McFerrin, l'americano famoso per «Don't worry, be happy». Tre anni fa, durante la presentazione del piano strategico, l'ha voluta come sottofondo nella sala. Ma forse più che una predilezione musicale è un messaggio per collaboratori e dipendenti, è il segreto del successo.
A Torino abita in Piazza Vittorio, in un appartamento con un duplicato della tecnologia informatica dell'ufficio per essere sempre operativo, anche quando gli altri esseri umani dormono, per rispondere alle e-mail o agli sms ricevuti nella giornata. Uno spuntino alla buvette a pranzo, la sera a cena con gli uomini della scorta a Eataly, il centro gastronomico fondato da Oscar Farinetti, che si trova a 200 metri dall'ufficio, oppure in pizzeria in Via Nizza, poco distante. Prima di giorno, alle 4,30 più volte alla settimana è sulla pista di Caselle, per sfruttare il fuso orario ed essere a Detroit in tempo per le riunioni di lavoro. Con giornate così non riesce neppure a concedersi una visita dal dentista per sostituire un incisivo che ha perso, probabilmente in un incidente con un tir, dal momento che ama guidare a fortissima velocità. Unica concessione estetica il parrucchiere, da Nico e Michele, in Via Carlo Alberto oppure da Tony and Guy dalle parti di Mirafiori, che offre tisane rilassanti durante il taglio dei capelli. Ha pochi contatti con il mondo finanziario della città, forse perché considerato meno importante dopo la fusione tra Sanpaolo e Banca Intesa che ne ha spostato il centro decisionale a Milano.
Non frequenta neppure i vicini di casa, tutte grandi famiglie storiche: disinteresse o snobismo nei confronti dei migliori nomi torinesi da parte di chi, come prima mossa della carica, ha sciolto la Fiat dal «put» con la General Motors, l'opzione a vendere siglata dal predecessore Paolo Fresco insieme a un convertendo concesso da un pool di otto banche nel maggio 2002? Era il momento peggiore nella storia dell'impresa. Il passo successivo sarebbe stato il fallimento. Marchionne ha ottenuto lo scioglimento del «put» portando nelle casse del Lingotto oltre un miliardo e mezzo di euro.
L'amministratore delegato della General Motors, Rick Wagoner, che all'epoca della stipula era interessato al marchio Fiat per alleggerire la crisi della propria società, ha preferito far scrivere ai giornali «Fiat è tornata italiana», piuttosto che accollarsi l'industria torinese troppo diversa come organizzazione del lavoro dalla sua G.M risanata, ricca di modelli e con un mercato tradizionale. Se di snobismo si tratta nei confronti dei personaggi legati agli Agnelli, occorre ricordare che un difetto di carattere si può concedere a un manager che per salvare Detroit ha trattato finanziamenti per 12 miliardi di dollari direttamente con l'Amministrazione di Barack Obama.
Con il tempo si sono ridotte anche le relazioni di Marchionne con il mondo sindacale torinese, dopo un inizio di reciproca stima ed è un particolare da ricordare alla luce delle aspre polemiche nelle giornate del referendum. Forte dell'esperienza svizzera alla guida della Sgs, non ignorava che per far uscire dalle linee di montaggio un prodotto complesso e con interventi successivi di più mani come l'automobile, è necessario avere un buon rapporto con gli operai tramite i sindacati e con la politica. È forse poco disponibile per qualsiasi interesse ideologico preferendo alleanze idonee alla realizzazione dei propri progetti. Non per opportunismo, ma per la capacità di individuare rapidamente chi condivide i suoi obiettivi ed è disposto a un lavoro comune, riservandosi una politica di dialogo aperto purché costruttivo.
Arrivando a Torino tra le prime mosse ha concentrato i tagli del personale tra dirigenti e impiegati, senza toccare gli operai, dando anzi vita alla Fiat Powertrain Technologies, un polo di meccanica pesante costituito dai motori, dai cambi, dalle trasmissioni. È stata una serie di decisioni dal forte valore organizzativo e psicologico nelle fabbriche che ha portato a un abbassamento dei costi e alla lievitazione del titolo in Borsa, da 5 a 24 euro tra il giugno 2004 e il luglio 2007. Decisioni che gli hanno fruttato la definizione di «borghese buono» da parte di Fausto Bertinotti, allora presidente della Camera, ex sindacalista ed ex segretario di Rifondazione Comunista.
Ottenuto questo elogio, una seconda mossa di grande valore simbolico è stata l'invito agli operai a partecipare in teleconferenza con il Lingotto alla presentazione del piano industriale 2006: «Gli errori dei manager non devono essere pagati dagli operai», disse. Con questo gesto ha escluso dal primo piano la vecchia struttura dirigenziale della precedente epoca, figlia della gestione Agnelli, Romiti, Cantarella, ottenendo in risposta dal Governo Prodi la cosiddetta mobilità lunga, che ha consentito il prepensionamento di 2 mila persone tra manager, funzionari di grado elevato e impiegati del Lingotto e dei quartieri generali.
Un'operazione che, oltre al risparmio e al valore politico, ha prodotto l'accelerazione dei processi decisionali in ogni struttura abolendo tutte le istanze intermedie. Sacrificando gli ultracinquantenni ha ottenuto il vantaggio di un ricambio generale con la crescita dei trentenni, più disponibili verso il capo, a costo zero per l'azienda ma con un effettivo, reale aiuto di Stato. Appagata da queste scelte dei primi anni, la sinistra ha amato sempre di più Marchionne, accettando in silenzio la decisione di produrre la 500 nello stabilimento polacco di Tychy anziché a Termini Imerese.
Poi con la Legge finanziaria vengono introdotti nel mercato gli incentivi alla rottamazione per favorire il ricambio del parco macchine e stimolare l'economia. Non tutti gli automobilisti acquistano Fiat, buona parte degli incentivi sono andati alle marche estere, ma la sinistra è rimasta soddisfatta della generosità del Governo. Marchionne viene definito un «autentico socialdemocratico» da Piero Fassino, all'epoca alla guida dei Ds. Sono tre anni che gli operai della Fiat non proclamano più uno sciopero e a Torino circola la voce che ci sia un patto occulto tra Marchionne e la Fiom, l'ala estrema del sindacato dei metalmeccanici, in cambio dei posti di lavoro a Mirafiori, Pomigliano, Termini Imerese.
Dopo il primo incontro con il nuovo amministratore delegato, il segretario della Fiom Claudio Rinaldini si era espresso con favore sul nuovo leader e aveva pronunciato un giudizio negativo sul passato degli Agnelli. E Giorgio Cremaschi con ironia definiva Marchionne «Il peggior nemico del sindacato» perché, invece della politica della contrapposizione, usava il dialogo. E Marchionne ha ricambiato nel 2006 ribadendo, alla firma del contratto integrativo, che il merito della ripresa del Gruppo era in buona parte dei lavoratori.
Che cosa è accaduto con i sindacati, con la Fiom in particolare, per sconvolgere il rapporto perfino amichevole con Marchionne che aveva sostituito le tensioni permanenti all'epoca dell'Avvocato? Non ci sono indiscrezioni né supposizioni. Forse è un'imprevista conseguenza della dimenticanza da parte delle organizzazioni sindacali e anche del manager italo-canadese, allora in carriera in Svizzera, di un evento del 1995, ignorato fuori dei nostri confini ma che per noi ha avuto un significato notevole.
L'11 giugno di quell'anno gli italiani andarono alle urne per votare dodici referendum tra i quali tre in tema di rapporti sindacali, due dei quali promossi da un insieme di partiti di estrema sinistra che andava da Rifondazione Comunista ai Cobas, a una parte della Fiom e della Cgil. Il primo quesito riguardava la «Liberalizzazione delle rappresentanze sindacali» con una richiesta massimale, il secondo lo stesso oggetto con una richiesta minimale, il terzo riguardava le trattenute dei contributi sindacali. Il primo titolo ebbe il 50 per cento di risposta affermativa e il 50 negativa, il secondo titolo ebbe il 62,1 di risposta affermativa e il 37,9 negativa.
Quindi, se oggi Marchionne può escludere la Fiom e riconoscere il diritto di rappresentanza alle sole sigle sindacali che abbiano sottoscritto gli accordi aziendali, è proprio per quella maggioranza di «si» votata dagli italiani. Prima di questo referendum la legge 300 riconosceva la possibilità di rappresentare i lavoratori solo alle organizzazioni «maggiormente rappresentative». La vittoria del «si» tolse ai tre grandi sindacati, Cgil, Cisl e Uil il diritto di essere i principali interlocutori delle aziende e aprì le porte delle relazioni industriali a tutti i sindacati purché firmatari di accordi.
Proprio l'abrogazione del riferimento ai sindacati nazionali ha dato all'amministratore delegato della Fiat la possibilità di escludere la Fiom: è il parere di Paolo Cagna Ninchi, ex Cgil e all'epoca presidente del comitato promotore del referendum. Da parte sua Marchionne è indifferente alle proteste di illegalità del referendum, agli annunci di ricorso alle vie legali contro di lui. Approvati dalla maggioranza accordo e referendum, ribadisce la promessa di attuare una partecipazione dei lavoratori agli utili.
Alle polemiche di Fiom e Cgil seguite al referendum dedica una decina di parole: «La Fiom ha costruito un capolavoro mediatico mistificando la realtà». Poi l'autocritica che, secondo le sue consuetudini, contiene un messaggio preciso: «La colpa è solo mia. Ho sottovalutato un sindacato che aveva obiettivi politici e non di rappresentanza». E aggiunge che «è impossibile che negli Usa dicano che gli ho salvato la pelle, e qui la pelle vogliano farmela». Questo per dire che non vuole strappi, ma rompere il sistema ingessato del negoziato per il negoziato.
L'obiettivo per lui è saturare gli impianti, chiedere ai lavoratori di impegnarsi di più per avere anche di più. È determinato a trasformare l'obsoleta politica dei sindacati italiani, rimasti legati al mito della lotta di classe, in un moderno organismo che partecipa alla vita delle aziende. Lo sguardo è rivolto a Detroit, dove la Uaw, United Auto Workers, è in possesso del 55 per cento del capitale della Chrysler Fiat, del 39 della General Motors, di una quota rilevante della Ford, e si comporta come un azionista esigente. Con il suo presidente Bob King, Marchionne può discutere amichevolmente a tavola, ascoltando la musica di McFerrin.

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