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RISO SCOTTI:
UNA FAMIGLIA
CHE DA DUE SECOLI
PORTA ACQUA
AI MULINI

a cura di
ANNA MARIA
BRANCA



Angelo Dario Scotti,
presidente e amministratore delegato
della Riso Scotti spa


Mentre gli altri frenano,
il Gruppo del «dottor Scotti» - che già indovinò la corretta strategia
di marketing - accelera
negli investimenti,
in Italia e all’estero: crea un polo unico per la
produzione e la ricerca,
ricava energia pulita
dagli scarti, punta a una maggior diversificazione con nuovi prodotti
dal riso non più copiabili
dalle altre aziende
e chiude 15 mila rogiti
per l’acquisto di terreni in Romania puntando
a spostare il baricentro dall’Italia all’Europa
dell’Est e a divenire, con
la tenacia di due secoli,
il primo produttore
di riso in Europa

el Pavese, in una porzione di pianura padana, tra la sponda sinistra del Po e il basso corso del Ticino, c’è un paesaggio di risaia. Dall’800 la famiglia Scotti tira l’acqua al proprio mulino, è il caso di dire. Numerosi tra figli e nipoti, tutti braccianti, due dei quali in particolare vollero tentare: Pietro, quando prese in gestione uno dei tre mulini attivi a Ca’ dell’Acqua, nel Lodigiano, e uno dei suoi cinque figli, Ercole, che investì tutti i propri risparmi per acquistare un vecchio mulino a Villanterio. A metà degli anni Venti la Soresina, una nota riseria di Sant’Angelo Lodigiano, chiuse per dissesto e i figli di Ercole - Gaetano e Angelo - la rilevarono con pochi soldi e ne installarono gli impianti nel mulino di Villanterio. È da quel momento che a uno dei tanti risi padani viene data una direzione univoca: quella del Riso Scotti, lo stesso che anni dopo avrebbe avuto come testimonial un noto omonimo, Gerry Scotti, e che avrebbe diversificato il prodotto al punto tale da ottenere, dal riso, gallette, olio, latte ed altro. Cinque generazioni di mugnai fino ad Angelo Dario Scotti, attuale presidente e amministratore delegato di quello che oggi è un Gruppo di venti aziende ad alto contenuto tecnologico, alcune specializzate nella coltivazione, ricerca e sperimentazione, altre nella lavorazione, trasformazione e commercializzazione del riso, con un fatturato di 259 milioni di euro nel 2008, una rete di aziende nella filiera romena, circa un milione di quintali di prodotto lavorato. Lo sviluppo dell’attività ha consentito l’acquisizione, nel circondario di Pavia, di aziende agricole che producono il cereale, l’ampliamento dello stabilimento originario e l’investimento nella nuova struttura ubicata alle porte di Pavia, a Bivio Vela, su una superficie di 135 mila metri quadrati, destinata ad occuparsi non solo di produzione, ma anche di interventi per lo sviluppo aziendale.
L’idea di concentrare tutta la produzione in un unico sito in cui entra il risone e da cui escono solo prodotti finiti è la base per l’espressione di sinergie produttive che portano l’azienda al controllo totale della filiera garantendo la qualità alimentare. In un delicato momento congiunturale il Gruppo accelera, mentre tutti frenano, sulla ricerca industriale e intende specializzare ulteriormente le lavorazioni. Per il futuro ha grandi prospettive: quella di dare al mercato prodotti sempre più particolari, non copiabili; quella di spostare il baricentro nell’Europa dell’Est con il nuovo Riso Scotti Danubio; di puntare anche sull’energia azzerando gli scarti di produzione e l’impatto ambientale.
Angelo Dario Scotti, anche membro dei Consigli di amministrazione delle varie società controllate e collegate alla capogruppo e consigliere di amministrazione della Banca Regionale Europea, è nato a Torino per eredità materna, ma ha trascorso la giovinezza a Pavia: la sua casa è l’azienda, e un muro separa la sua stanza dai locali di produzione. La risiera è la sua vita: da bambino giocava a nascondino con gli operai tra i macchinari del reparto e i sacchi del magazzino.

Domanda. Quand’è accaduto alla famiglia Scotti di incontrare il riso?
Risposta. Una tradizione di famiglia. L’azienda fu fondata dal mio bisavolo Pietro Scotti nel 1860, che lavorava come «mugné» per un mulino di Marudo, in provincia di Lodi. L’attività consisteva nel raccogliere il riso grezzo dai contadini della zona, lavorarlo e commercializzarlo dopo averlo reso bianco e utilizzabile: esattamente la stessa attività che oggi continuiamo a svolgere a un livello industriale. Allora la nostra risiera non era più grande di una stanza, e lo scenario era quello lombardo di fine secolo, che vedeva l’agricoltura come una delle principali risorse economiche della popolazione. Nel 1890 suo figlio Ercole si spostò a Villanterio sulla Roggia Mulina, stabilendo la prima sede dell’impresa su una superficie complessiva di 1.200 metri quadrati. Bisogna arrivare ai primi anni del ‘900 perché mio nonno, Angelo Scotti, insieme a suo fratello Gaetano compiessero un passo in avanti creando una società di fatto, che denominarono Fratelli Scotti, presto dotata di una struttura industriale.

D. E lei, quando entrò in azienda?
R. In realtà mio padre Ferdinando, che nel 1952 divenne amministratore unico della neonata società per azioni Riso Scotti, mi coinvolgeva nell’attività sin da piccolo; ma quando avevo solo 28 anni -cinque anni dopo essermi laureato in Economia e Commercio a Pavia -, ebbe alcuni problemi di salute che lo portarono ad affidarmi subito quella che allora era una struttura di pochi impiegati, ma già un gioiellino. Fu così che ebbi l’opportunità di gestire, da giovane, un’azienda giovane, cosa insolita se si pensa che l’imprenditore abitualmente tende ad arroccarsi, a mantenere l’impresa nelle proprie mani, a far sì che i figli attuino solo i suoi principi fondamentali. Appena entrato creai subito delle aziende destinate a far parte del Gruppo: l’Enac, che oggi fornisce alcune tra le più importanti aziende produttrici italiane ed europee operanti nel settore dolciario ed alimentare, e la Parboriz di Mortara, che si dedica all’acquisto del risone, alla sua lavorazione e alla trasformazione in riso parboiled. Sin dall’inizio capii che dovevo trovare la mia strada, per questo stravolsi il sistema aziendale adeguandolo a me: ciò mi permise di costruirmi un vestito su misura e di conoscere molto bene tutto il Gruppo in modo da poterlo gestire, affiancato da manager di buon livello. Quando si parla di Riso Scotti, infatti, si parla generalmente della casa madre, ma la struttura è molto più complessa: intorno c’è tutto un sistema di industrie che coltivano il riso e lo immettono sul mercato diversificandolo.

D. La scelta di un testimonial molto noto, il suo omonimo Gerry Scotti, è stata significativa per la crescita dell’azienda?
R. Una delle nostre caratteristiche è stata proprio l’attenzione a una comunicazione efficace e diretta. 17 anni fa ebbe inizio la campagna pubblicitaria nella quale fu coinvolto Gerry Scotti, ed è stato con lui che abbiamo portato avanti tutta la nostra rivoluzione: dal lancio del riso sotto vuoto in un momento in cui solo pochi artigiani in effetti lo usavano, alla trasformazione da risiera ad azienda con la creazione di una grande varietà di prodotti nuovi fatti dal riso.

D. In che modo questa diversificazione dei prodotti vi ha consentito di conquistare nuove fette di mercato?
R. Il primo prodotto, il biscotto di riso, l’abbiamo fatto circa 20 anni fa, ispirati dagli artigiani nelle fiere di paese. Fu utile anche un viaggio che feci in Thailandia, dove il riso è ciò che per noi è il grano e tutto si fa con farina di riso. Cominciammo allora a produrre olio, latte, pasta, crakers ed altro dal riso, prodotti molto caratterizzanti la nostra azienda eppure altamente copiabili. E infatti, se prima eravamo unici in questi mercati, presto anche le altre aziende hanno cominciato a lavorare nella diversificazione dei prodotti dal riso. Il nostro obiettivo oggi è quello di dare al consumatore altri prodotti che siano totalmente unici, non riproponibili da altre aziende, ponendo alla base il concetto dell’Accademia del Riso in cui tutto si fa, si studia e si crea in casa. Questo è il nostro impegno per i prossimi anni; il nostro elevato sforzo di ricerca e di sviluppo, sommato alla necessità di processi aggiuntivi, è destinato a rendere più ardua la riproduzione dei nuovi prodotti da parte delle altre aziende e a garantire alla Riso Scotti l’esclusività in alcune fette di mercato.

D. In che modo ha industrializzato l’impresa?
R. Imprimendo una velocità e una dinamicità che l’azienda prima non aveva, sviluppandola e facendola evolvere e dirigere dal Nord Italia a tutto il territorio, sviluppando una rete commerciale e introducendo il marketing. L’azienda è sempre stata caratterizzata da una gestione familiare, ma anche dall’industrializzazione, nel senso che per il riso già da tempo venivano utilizzati macchinari. Nello stabilimento di Bivio Vela essi possono rimanere in moto per 24 ore al giorno, ma il procedimento è quello di cent’anni fa. L’impostazione oggi è più manageriale, tuttavia è sempre improntata alla passione e alla tenacia.

D. Una lunga storia, dunque una tradizione, fino ad oggi: dov’è l’innovazione?
R. Particolarmente nel filone collegato all’energia: abbiamo creato «Bivio Vela», un polo tecnologico all’avanguardia in Europa frutto di un piano di concentrazione della nostra forza produttiva, realizzato con il progressivo trasferimento dei vari impianti di produzione. L’innovazione risiede nel processo sistematico con cui viene affrontato un lavoro di matrice tradizionale: in un’ottica di completo controllo della filiera produttiva, a garanzia di elevati standard qualitativi, valorizziamo la materia prima al 100 per cento in un ciclo integrato che sfrutta tutte le risorse, azzerando gli scarti di produzione e qualsiasi impatto di tipo ambientale. Infatti il nostro stabilimento non genera scarti e sottoprodotti di lavorazione, poiché essi vengono impiegati come materie prime per le successive lavorazioni che conducono ai prodotti diversi dal riso.

D. Come si ricava energia dal riso?
R. Come la lolla va ad alimentare l’impianto per la cogenerazione di energia pulita, la pula, ossia lo strato esterno e grasso del chicco di riso, diventa materia prima per la produzione dell’olio di riso, mentre la rottura di riso bianco viene usata per la produzione del riso soffiato, in un processo in cui entrano materie prime e esce prodotto finito. Quella che diventa energia è la lolla, ossia la buccia. Noi fondamentalmente siamo risieri, non intendiamo divenire industriali dell’energia, ma abbiamo interesse a rendere utilizzabili gli scarti e a non trasformarli in costi.

D. Siete presenti anche altrove?
R. Esportiamo in 52 Paesi, ma l’esportazione tout court non dà grandi soddisfazioni, non consente di mettere radici: il progetto di internazionalizzare nasce solo nei primi anni del 2000 guardando alla Romania quando ancora non faceva parte dell’Europa. Lì siamo andati non ad esportare del riso, ma a comprare terra: abbiamo fatto 15 mila rogiti con 15 mila famiglie. Questo progetto agro-industriale ha visto realizzare la più ampia superficie coltivabile in Europa e le più moderne tecnologie di coltivazione e trasformazione del riso. Il prodotto finale ha un costo accessibile a tutti ed è creato avendo riguardo alle esigenze e al gusto dei consumatori romeni, come nel caso della linea «Bob cu Bob», ossia Chicco per Chicco.

D. Perché avete scelto la Romania?
R. Il nostro obiettivo nei prossimi anni è quello di portare il baricentro dall’Italia all’Europa dell’Est, acquisendo in tal modo un bacino di 350 milioni di persone. La Romania può facilmente attestarsi come terzo polo risiero dell’Unione Europea, dopo l’Italia con 219 mila ettari, e la Spagna con 110 mila. Ambisce a diventare il più grande produttore risiero dell’Unione Europea: il Paese ha una superficie agricola di circa 14,7 milioni di ettari, di cui 9,3 milioni arabili, di elevata fertilità e che, grazie a un clima più che favorevole, alla presenza di fiumi quali il Danubio, il Siret, l’Olt e altri, e alla presenza di una falda freatica elevata, può potenzialmente contare su buone disponibilità di acqua irrigua. Il progetto Danubio apporterà benefici anche alla Romania che ci ospita, la quale potrà godere dell’accorpamento dei terreni; di un buon recupero ambientale di terreni incolti da oltre 15 anni; della valorizzazione di territori che per problemi di ristagno, di eccesso di salinità o di alcalinizzazione sono di fatto inadatti ad altre coltivazioni; della produzione di riso con un programma che porterà all’autosufficienza contribuendo a ridurre le uscite monetarie nazionali; dell’incremento dell’occupazione con la creazione di competenze ora non presenti nel territorio.

D. Oltre alla Romania, quali altri Paesi sono coinvolti nella vostra strategia?
R. Abbiamo investito nel Panjab, in India, per la produzione e l’importazione in Europa di riso basmati, sempre più richiesto dal consumatore europeo, che costituisce un prodotto della nostra diversificazione: ha caratteristiche formidabili, oltre a un profumo particolare; si allunga molto e serve solo per il contorno. Mentre dall’altra parte dell’oceano, negli Stati Uniti, stiamo lavorando a una nuova unità commerciale.

D. Perché non coltivare in Italia come fate in Romania?
R. In Italia non abbiamo la terra e compriamo da sempre il riso dagli agricoltori italiani: il 99 per cento di quello consumato è italiano, solo l’uno per cento è riso basmati, proveniente dall’India e importato dalla nostra controllata Riso Scotti India, che ha sede a New Delhi. L’Italia continua comunque ad essere il primo consumatore-produttore d’Europa, seguita dalla Spagna e dalla Romania; quest’ultima continua ad importare dall’estero e la Riso Scotti non riesce ancora a soddisfare la domanda nazionale, ciò che costituisce, invece, il nostro obiettivo.

D. Oggi la vostra azienda si può considerare industriale, non più artigianale. Perché ha deciso di non mantenere nulla di quell’originaria artigianalità creando, ad esempio, delle boutique del riso rivolte a consumatori più raffinati?
R. Diventando grandi si perde la caratterizzazione, ma si riesce a fare ricerca e sviluppo a livelli altrimenti inaccessibili. La tecnologia ci permette di avere uniformità, costanza e qualità. Purtroppo la nuova tecnologia non può essere applicata al livello artigianale, sarebbe antieconomica per l’impresa. È vero che adesso la grande distribuzione sta piallando tutto e rovinando il mercato, e la domanda di nicchia per l’eccellenza sta crescendo; è possibile che in un domani, quando vi sarà una ripresa dei consumi dopo la crisi, questa nicchia diventi più grande, e a quel punto ci saranno gli spazi per una maggiore ricercatezza.

D. Eppure chi vive la crisi non è il medesimo consumatore che comprerebbe il riso d’eccellenza. Si può paragonare quest’ultimo alla pelliccia di zibellino, o alle scarpe fatte a mano. In questo senso non ritiene fattibile una diversificazione?
R. Per un’industria grande resta un passo difficile: non è semplice inserire delle nicchie all’interno di un grande processo.

D. In Italia vi sono altri produttori?
R. Per quanto riguarda le aziende commerciali, e non i piccoli produttori di riso sfuso che sono moltissimi, riusciamo a gestire quasi la metà del mercato, ma vanno considerati moltissimi marchi polverizzati, presenti nei supermercati. Il mercato del riso, però, in Italia è saturo e stabile ormai da anni.

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