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GIAMPAOLO DI PAOLA:
COME LA NATO LAVORA
PER LA SICUREZZA
DI DOMANI

a cura di
LUIGI LOCATELLI



L’Ammiraglio
Giampaolo Di Paola,
presidente del Comitato
Militare della NATO



«In seno alla Nato
è cominciata
una riflessione
su quali dovranno
essere i compiti
e gli obiettivi futuri
dell’Alleanza; a tal fine
un gruppo di 12 Saggi
guidato dall’ex
Segretario di Stato
americano
Madeleine Albright, sta preparando
un documento
definito Nuovo
Concetto Strategico»

anno 2009 ha segnato due ricorrenze di particolare importanza nella storia politica e militare internazionale. Il 4 aprile di sessanta anni fa a Washington, in piena «guerra fredda», nacque la Nato - Organizzazione del Patto del Nord Atlantico -, con l’obiettivo di scoraggiare un’eventuale aggressione dell’Unione Sovietica ai Paesi dell’Europa Occidentale. Primi firmatari furono Belgio, Canada, Danimarca, Francia, Gran Bretagna, Islanda, Italia, Lussemburgo, Norvegia, Paesi Bassi, Portogallo e Usa. Grecia e Turchia si aggiunsero nel 1952, seguiti dalla Germania tre anni dopo, e dalla Spagna nel 1982. 40 anni dopo, il 9 novembre 1989, è crollato il Muro di Berlino, e con esso è praticamente cessata la «guerra fredda». Con la comparsa di nuovi protagonisti e di tecniche di aggressione imprevedibili, il nuovo clima internazionale, tuttavia, non ha cancellato nel mondo la paura e l’insicurezza. Basta ricordare l’attentato alle Torri gemelle di New York dell’11 settembre 2001, o seguire gli avvenimenti di questi giorni in Iraq, dove sono dislocati gli oltre 100 mila militari USA, o quelli in Afghanistan dove la presenza è di 64.500 uomini dell’Alleanza Atlantica e si registrano frequenti atti di terrorismo da parte di forze insorgenti.
Oggi il ruolo della Nato, esteso ben oltre i limiti territoriali dei suoi Stati membri, in particolare nelle aree di crisi del Mediterraneo e asiatiche, punta a prevenire le crisi, svolgendo missioni di sicurezza e politiche di dissuasione. Durante il Summit 2009 a Strasburgo-Kehl, dove l’Alleanza ha, tra l’altro, celebrato i 60 anni dalla propria fondazione, i Capi di Stato e di Governo hanno unanimemente convenuto come, per il prossimo futuro, sia necessario ridefinire l’orientamento strategico della Nato, al fine di fronteggiare nel modo migliore le possibili nuove sfide alla sicurezza, già così diverse da quelle del ventesimo secolo.
In questa intervista l’ammiraglio Giampaolo Di Paola, presidente del Comitato Militare della Nato, indica quali siano i presupposti per procedere alla definizione di una nuova strategia per l’Alleanza. Già Segretario Generale e poi Capo di Stato Maggiore della Difesa, nel novembre 2007 è stato eletto - dal Comitato dei Capi di Stato Maggiore della Difesa degli allora 26 Paesi membri della Nato - alla guida del massimo Organismo militare dell’Alleanza Atlantica, carica ufficialmente assunta nel giugno 2008 per un mandato triennale.
Domanda. Caduto il Muro di Berlino si è esaurita la guerra fredda con il mondo sovietico che fu all’origine del Patto Atlantico tra i dodici maggiori Paesi del mondo occidentale. Come si caratterizza oggi questa intesa?
Risposta. L’Alleanza fonda il proprio lavoro sul consenso, la cui ricerca a volte è faticosa perché dell’Organizzazione fanno parte ben 28 Stati sovrani, ciascuno con gli stessi diritti, le stesse prerogative, gli stessi doveri. In tal senso, la Nato è un esempio di organismo veramente democratico, nel quale il voto del Paese più piccolo, geograficamente parlando, ha lo stesso valore di quello del Paese più grande. È pertanto necessaria la massima attenzione ed è richiesto un grande spirito di collaborazione per il raggiungimento di accordi tra così tanti soggetti; questi, infatti, possono presentare situazioni, problemi e visioni particolari, non solo su questioni fondamentali come la gestione delle crisi internazionali e l’evoluzione della Nato, ma anche sull’attività quotidiana. In questo contesto va considerato quanto il momento attuale sia complesso, specie considerando lo sviluppo dell’operazione in Afghanistan e non solo.
D. I problemi afghani possono influire sul futuro dell’Alleanza?
R. La Nato è fondata e resta saldamente ancorata all’articolo V del Trattato costitutivo, che rappresenta il cuore della sua stessa esistenza. Questo non cambierà. Quello afghano è stato, in realtà, un tipo di impegno nuovo per l’Alleanza, che ha portato, con la novità, anche nuovi compiti cui la Nato, nella propria collettività e di concerto con la comunità internazionale, cerca di rispondere nel miglior modo possibile. Le operazioni in quel Paese costituiscono certamente l’impegno attualmente più gravoso, ma non l’unico. Altrettanto importante, per esempio, è il sostegno fornito alle forze di sicurezza del Kosovo, oppure l’impegno in Iraq, dove la Nato è il principale gestore dei programmi di formazione delle nuove forze armate locali. Oltre a queste, sono in atto la missione navale di pattugliamento nel Mediterraneo, in funzione anti-terrorismo, e al largo delle coste della Somalia nel Golfo di Aden, in funzione anti-pirateria, fenomeno che minaccia pericolosamente il traffico marittimo internazionale; e diversi impegni in altre aree.
D. E per quanto riguarda il futuro?
R. In questo complesso quadro di compiti operativi, la Nato, come ogni organizzazione che si rispetti, deve certamente guardare al futuro e prepararsi nel modo migliore per fronteggiarne le eventuali crisi. Riguardo a questo, è importante citare il «Nuovo Concetto Strategico» il cui processo di genesi è stato avviato lo scorso aprile, in occasione dell’incontro dei Capi di Stato e di Governo per il sessantesimo anniversario dell’Alleanza. Più che celebrare le glorie del passato, l’occasione ha consentito di avviare una riflessione su come ci si debba preparare agli impegni del futuro. Il neoeletto Segretario Generale dell’Alleanza, Anders Fogh Rasmussen, per molti anni primo ministro danese, è stato incaricato, in quell’occasione, di avviare un’analisi strategica approfondita che dovrà sfociare in un documento, il «Nuovo Concetto Strategico» appunto, che contenga una riflessione a tutto campo. Non un semplice aggiustamento di quello attualmente in vigore, redatto a Washington nel 1999, ma un documento veramente nuovo. Sarà un documento-base di grande rilevanza politica che, una volta approvato, definirà il ruolo e traccerà il cammino della Nato nel corso dei prossimi 10 o 15 anni. La storia, poi, potrà riservare delle sorprese. Quando si approvò il documento del 1999, per esempio, nessuno pensava a quell’autentica rivoluzione cominciata nel 2001. Ma anche forti di quell’esperienza e consci dell’imperscrutabilità del futuro, è necessario che ci si interroghi su come predisporre lo strumento dell’Alleanza in vista dei possibili scenari futuri, come evidenziato anche nello Studio condotto dal Comando Alleato per la Trasformazione di Norfolk in Virginia, denominato «Multiple Futures».
D. Quali sono le linee principali della nuova strategia?
R. Anticiparle non è possibile, in quanto il lavoro di studio è in corso. Si tratta, come dicevo, di una riflessione profonda avviata con l’individuazione, da parte del Segretario Generale, di un gruppo di lavoro composto da 12 Saggi alla cui guida opera una personalità di altissimo livello, cioè l’ex Segretario di Stato americano Madeleine Albright. Il Gruppo dei Saggi comprende persone non necessariamente esperte di sicurezza in senso stretto, ma individuate con l’obiettivo di allargare l’orizzonte della riflessione. Tra loro, per esempio, vi è l’ex amministratore delegato della Shell, Jerome Van der Veer, e il presidente della Biblioteca nazionale francese, Bruno Racine. Vi è anche l’ex ambasciatore italiano a Londra, Giancarlo Aragona. Il fatto che in un gruppo di consulenti incaricati di ridisegnare il profilo di un’organizzazione politico-militare come la Nato non siano presenti militari, è indicativo della valenza altamente politica del documento. I Saggi dovranno compiere un lavoro preparatorio, raccogliendo osservazioni ed elaborando le proposte che il Segretario Generale svilupperà nel documento conclusivo. In questo periodo questi esperti stanno conducendo una serie di seminari aperti a tutti, non solo ai Paesi alleati ma anche a quelli un tempo rivali.
D. Vi partecipano pertanto anche i rappresentanti della Russia?
R. La Russia, per esempio, pur non avendo rappresentanti nel gruppo dei Saggi, in quanto non è membro dell’Alleanza, fa sentire la propria voce tramite esperti, consulenti e docenti russi. I seminari sono organizzati quasi ogni mese in vari Paesi ed è stato istituito anche un sito web per accogliere idee e suggerimenti. Il documento finale dovrà essere chiaro, facilmente comprensibile, in quanto destinato a far conoscere ai cittadini non solo dei Paesi Nato, ma anche del mondo, le linee e il ruolo dell’Alleanza nei prossimi anni. Posso dire che stanno già emergendo idee innovative. Ad esempio la necessità di tener presente, ai fini della sicurezza, il fenomeno della globalizzazione; l’Alleanza non può essere più un soggetto totalmente autonomo e indipendente: per risolvere le crisi dovrà intrattenere relazioni sempre più strette con altre istituzioni internazionali. Negli ultimi due decenni alle minacce di aggressioni armate al territorio della Nato si sono sostituiti terrorismo, conflitti asimmetrici, attacchi informatici, eseguiti in luoghi, con modalità, strumenti e autori imprevedibili. Il fine della Nato sarà sempre la difesa comune, ma con un’interpretazione più ampia del concetto, che si allarga ora alla sicurezza collettiva e cooperativa.
D. Le crisi economico-finanziarie possono influire sulla sicurezza?
R. Una diffusa crisi economico-finanziaria crea, tra i Paesi, forti problemi in fatto di distribuzione delle risorse e di necessità per le popolazioni di ridurre i consumi. La Nato non ha il compito di affrontare questi problemi, ma di assicurare la sicurezza politica e militare. Tuttavia, è fuori di dubbio che le difficoltà finanziarie abbiano ed avranno un impatto non favorevole anche sulle risorse destinate a sicurezza e difesa. Sarà necessario uno sforzo sempre maggiore e responsabile al fine di usare nel modo migliore i fondi disponibili.
D. A cosa sono dovute le difficoltà operative in Afghanistan?
R. Anzitutto al fatto che i talebani hanno dimostrato maggiori capacità di resilienza di quanto si fosse potuto valutare. Inoltre, la missione in quel Paese è stata sottoalimentata sia in fatto di risorse militari, sia nell’impegno economico e politico complessivo della comunità internazionale. I «pilastri civili», cioè le istituzioni locali, non hanno risposto adeguatamente alla complessità delle situazioni incontrate e alla reale dimensione dei problemi. Si è sottovalutato, quindi, l’impegno globale necessario, ma molto ha influito la fragilità del Governo afghano. Occorre tempo per crearne uno efficiente e robusto. Dopo il recente appuntamento elettorale conclusosi con la rielezione alla presidenza di Hamid Karzai, la comunità internazionale si aspetta ora di avere nel nuovo Governo afghano un referente efficace; poco si potrà fare senza una direzione credibile, responsabile, che combatta la corruzione e che sia in grado di gestire prima possibile la propria sicurezza. In altre parole, è necessario che il nuovo Governo diventi una reale controparte della comunità internazionale. E questo perché l’Afghanistan è degli afghani, non è della Nato, dell’Europa o degli Stati Uniti. Questo è, tra l’altro, il senso della Conferenza che Gordon Brown, Angela Merkel e Nicolas Sarkozy hanno proposto per individuare il cammino che dovrà portare l’Afghanistan ad autosostenersi. La data non è ancora certa, ma dovrebbe svolgersi nei primi mesi del nuovo anno.
D. Si parla di un aumento delle forze militari in Afghanistan da parte di vari Paesi. Sarà affrontato il problema?
R. Lo stiamo già facendo. I Comandi operativi hanno espresso le loro richieste, l’esame da parte dei vertici militari è stato portato a termine, ora i leader politici dell’Alleanza dovranno compiere le valutazioni complessive e decidere. È un processo in corso al massimo livello politico dei Paesi membri e partner.
D. Quali sono le sue previsioni per la soluzione del problema afghano?
R. Attendiamo la valutazione politica della nuova impostazione operativa basata sulla protezione della popolazione, sul rafforzamento delle forze armate e di polizia afghane, sull’aiuto al Paese perché abbia un Governo efficace e sulle risorse adeguate allo sviluppo economico. Ritengo tuttavia che la situazione afghana possa volgere in senso positivo. I miglioramenti sul terreno, del resto, sono già visibili: l’Afghanistan del 2009 non è quello che abbiamo trovato nel 2001, e di questo gli afghani sono consapevoli e grati alla comunità internazionale. In un tempo non lunghissimo, poi, si potrà avviare un progressivo trasferimento alle istituzioni locali delle responsabilità nella gestione del Paese e della sicurezza. Quello è il nostro target, la cosiddetta «Transit Strategy» basata sul trasferimento progressivo della sicurezza del Paese alle forze di sicurezza afghane.
D. A che cosa è dovuto l’aumento degli attentati messi in atto dai talebani?
R. Sicuramente al maggior impegno e alla maggiore esposizione delle forze Nato e quindi all’accresciuta possibilità di «incontri-scontri» tra le parti. I talebani che si oppongono al legittimo Governo afghano non sono stati ancora del tutto neutralizzati e cercano di opporsi con tutti i mezzi. La loro arma preferita è di gran lunga quella degli attentati, la principale di cui dispongono, per terrorizzare la popolazione locale, convincerla che i vincenti saranno loro, e per indurre i Paesi occidentali a ritirarsi. È fondamentale ottenere il sostegno della popolazione afghana, perché il successo deriva da essa; occorre conquistarne la fiducia non solo attraverso la sicurezza militare ma anche e soprattutto attraverso un buon governo, condizione tra l’altro necessaria perché gli aiuti della comunità internazionale arrivino e consentano una ricostruzione efficace.
D. Il popolo afghano apprezza l’aiuto internazionale?
R. L’Afghanistan non è un territorio uniforme, come non lo è l’Italia e come non lo sono molte altre Nazioni; nelle aree più sicure e con un’Amministrazione pubblica più efficiente, la popolazione è a favore; dove le istituzioni locali sono meno efficienti, è incerta. I talebani non danno sicurezza né migliori condizioni di vita; possono terrorizzare gli afgani con l’arma del terrorismo. Per diffondere l’insicurezza basta, infatti, realizzare un attentato suicida con decine di vittime. Non è facile contrastare queste aggressioni condotte attraverso suicidi individuali, bombe, veicoli carichi di esplosivi. Colpiscono indiscriminatamente la popolazione afghana comprese donne e bambini. Sono i veri nemici dell’Afghanistan.

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