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Antonio Saladino:
come la Need crea occupazione nel Sud

Antonio Saladino, amministratore unico della società di consulenza Need & partners

a chi è veramente Antonio Saladino? È la domanda che viene subito in mente leggendo il curriculum vitae di questo dottore veterinario, nato a Nicastro, vissuto a Milano negli anni dell’università, transitato per molti lavori, oggi «prestato» al mondo della formazione professionale e amministratore unico della Società di consulenza Need & Partners. Tre pagine fitte di iniziative, idee, aziende, società, cooperative. Tutte con un unico comune denominatore: la voglia di far emergere le potenzialità di un Sud che è ancora capace di creare sviluppo. Anzi, come dice lui, «è sempre stato capace, se non fosse per un problema antropologico che nessuno ha mai affrontato». Un problema antropologico? Di che cosa si tratta? Una storia che va cominciata dall’inizio.

Domanda. Allora, chi è veramente Antonio Saladino?
Risposta. Dopo varie esperienze come dirigente sia nell’Istituto zooprofilattico che nella Asl di Catanzaro, divenni veterinario-capo nella Regione Calabria. Ma a un certo punto decisi di licenziarmi e questo provocò un po’ di sorpresa anche perché dalle nostre parti non è normale che un dirigente si licenzi. Ricordo ancora il capo del personale quando gli comunicai la decisione. Mi disse: «Dottore, pensateci bene». Gli risposi: «Non si preoccupi, non sono impazzito». E lui replicò: «Sono 25 anni che lavoro qui e non ho mai visto un dirigente licenziarsi».

D
. Perché questa drastica scelta?
R. La verità è che da tanti anni ormai svolgevo un doppio, triplo, lavoro. Da una parte, infatti, vivevo con lo stipendio che guadagnavo facendo il veterinario e dall’altra avevo avviato una serie di nuove esperienze. La prima fu nella produzione di caramelle. Nel 1989 alcuni amici del Nord Italia, dove avevo studiato e mi ero laureato, mi fecero presente che stavano nascendo opportunità di sviluppo nel Sud. Era appena stata approvata la legge De Vito, per cui mi dissero: «Smettila di curare le mucche e lavora su questo nuovo progetto». La prima cosa cui pensai fu il futuro dei miei figli. Avrei potuto condurre la classica vita del professionista meridionale che diventa ricco e poi va a cavallo o a giocare a golf con gli amici. Decisi, invece, di impiegare il mio tempo libero nel creare sviluppo. Quindi cominciai la nuova esperienza con alcuni giovani disoccupati, tutti laureati nell’Università di Cosenza. Nel 1989, insieme a un mio compagno di università, il dottor Antonio Agostoni di Lecco, socio della fabbrica di cioccolato Icam, creai la Silagum, un’azienda produttrice di caramelle gommose. Fu la mia prima iniziativa industriale. Dopo si sono fatte tante chiacchiere, ma l’unica azienda che è rimasta in piedi è la Silagum, che esporta in 25 Paesi e fattura 5 milioni di euro: tutto il resto sono bellissimi capannoni.

D
. Successivamente a questa iniziativa che cosa ha fatto?
R. Dalla Silagum sono partite una serie di esperienze parallele. Ho favorito, ad esempio, l’avvio di un centinaio di aziende. Nel 1995 sono diventato responsabile della Compagnia delle Opere per l’Italia meridionale. Tra il 1997 e il 1999 sono stato nominato, dall’allora ministro del Tesoro Carlo Azeglio Ciampi, consigliere di amministrazione della Società per l’imprenditorialità giovanile. E nel 1998 è cominciata la vicenda del lavoro interinale, introdotto in Italia dal cosiddetto «pacchetto Treu» sulla riforma del mercato del lavoro. Non sapevo neanche cosa si intendesse per lavoro interinale. Presto appresi da internet la costituzione di società quotate in Borsa e ritenni veramente interessanti le prospettive. E così cominciai.

D. In quale modo avviò l’attività?
R. Mi chiesero di trovare un gruppo di imprenditori del Sud disposti ad investire in questo progetto. Realizzammo una cooperativa, dalla quale nacque Obiettivo Lavoro, alla cui costituzione pertanto partecipai sin dalle prime mosse. Poi Obiettivo Lavoro è cresciuta ed è diventata la prima società a capitale interamente italiano operante nel campo del lavoro interinale. Ho ampliato quella mia esperienza operando come manager per il Sud, quindi mi sono occupato dei grandi clienti, successivamente dei progetti speciali, e alla fine ho deciso di mettermi in proprio dando vita alla Need. Si tratta in pratica di una «piccola Accenture» che, nata al Sud, cosa unica in Italia, ha risalito lo Stivale, tanto che oggi abbiamo sedi a Roma e Milano. In realtà trasferisco lavoro nelle aree povere invece di spostare persone da queste nelle aree ricche. Oggi questo si può fare con l’aiuto della telematica. Il nome deriva dal termine inglese «bisogno», perché essa vuole costituire una vera risposta al bisogno avvalendosi delle numerose esperienze che ho acquisito nel corso degli anni. La Need ha un Comitato tecnico-scientifico composto da giuristi e docenti universitari come Cesare Pozzoli, Alberto Sciumé, Francesco Gambardella e Antonio Pileggi.

D. La Need rappresenta un nuovo modello di sviluppo per il Sud?
R. Ritenevo sbagliato, e ne sono ancora convinto, l’iter seguito in tutti questi anni per stimolare lo sviluppo del Sud. I più recenti dati del Censis indicano che negli ultimi 20 anni tutto l’intervento straordinario nel Mezzogiorno ha prodotto un aumento dello 0,1 per cento del prodotto interno. Questo significa che abbiamo veramente fallito. Ciò è avvenuto perché nessuno ha mai voluto capire che quello del Sud - io lo riduco a uno slogan - non è un problema di progetto, ma di soggetto. Se non nasce una mentalità nuova non può esservi sviluppo. Il Sud deve superare un gap antropologico non indifferente. Il mio lavoro, ad esempio, è più educativo che imprenditoriale, perché aiuto i giovani neolaureati a creare aziende; è delicato, perché nell’esperienza educativa esiste sempre qualche rischio nel rapporto con gli altri, ma è anche l’unico lavoro che alla lunga fornisce dei risultati. È naturale che in questo compito lo Stato sia in difficoltà, perché è improbabile che esso possa diventare un soggetto educatore. Ma organizzazioni intermedie come i sindacati, la stessa Confindustria, la Compagnia delle Opere possono svolgere questo ruolo.

D. Perché è un lavoro difficile?
R. Perché è più facile regalare soldi che educare le persone. Questo, secondo me, è il dramma del Mezzogiorno. Recentemente ho partecipato a un seminario dell’Unioncamere a Roma nel quale ho così esordito: «Jean Guitton diceva ”L’uomo ragionevole è colui che sottomette la ragione all’esperienza”, perché di analisi sui temi dello sviluppo e del sottosviluppo del Sud sono piene le biblioteche universitarie». Giuseppe Roma, direttore del Censis, ha allora pronunciato una battuta: «Ha ragione Saladino, perché siamo passati da Pasquale Saraceno a Carlo Borgomeo».

D
. Cosa voleva dire?
R. Che per tanti anni è prevalsa l’idea di Saraceno secondo il quale il Sud era debole e il suo sviluppo era compito dello Stato. È stata una grande iattura per il Sud, perché ha impedito la crescita di un soggetto adulto, maturo. Il risultato è un Mezzogiorno rimasto sempre bambino, al quale il papà Stato forniva tutto. Questo gli ha impedito di progredire e assumere responsabilità; è il problema centrale, che lo Stato non ha mai affrontato. Dalle nostre parti giungevano i soldi e i ragazzi si trasformavano in piccoli JR, il popolare personaggio di uno sceneggiato televisivo. Per evitarlo occorre educarli. E chi li educa? Chi si mette accanto a loro? Quando mi occupavo di finanziamenti per le nuove imprese, invitavo i giovani a visitare la Silagum e gli dicevo: «Avete visto? Ora cominciano i vostri problemi; avete ottenuto i fondi, tocca a voi operare, perché vi succederà questo». Allora rimanevano spaventati perché, nell’«ubriacatura» del finanziamento, perdevano di vista la realtà.

D
. Apprendono la lezione i giovani meridionali?
R. Racconto spesso un episodio verificatosi alla Silagum. Per realizzare le rondelle di liquirizia i miei amici acquistarono la macchina migliore esistente in commercio, prodotta da un’azienda francese. Il montaggio fu effettuato da tecnici francesi, ma le rondelle non uscivano. Allora se ne andarono scoraggiati. Vi si dedicarono i giovani dell’azienda, tutti laureati. Dopo un paio di giorni riuscirono a produrre le rondelle. I francesi tornarono per capire dove avevano sbagliato. Un esempio che dimostra che nel Sud la gente non è tarata, anzi possiede grandi capacità. Ma l’esperienza non s’improvvisa, non si può far nascere un imprenditore per decreto.

D
. Che cosa occorre per imparare?
R. Un lavoro di anni, che io ho fatto con i miei amici della Compagnia delle Opere, e attraverso i quali ho imparato un metodo. Un metodo che nasce dall’incontro che personalmente ho avuto con don Luigi Giussani. È stato lui ad insegnarci che il «metodo è imposto dall’oggetto». Bisogna osservare molto. Ci ripeteva sempre una frase di Alexis Carrel: «Molta osservazione e poco ragionamento conducono alla verità, molto ragionamento e poca osservazione conducono all’errore». Questo rapporto educativo non cessa mai nella vita, infatti io ho avuto la fortuna di averlo con un personaggio geniale, magari spesso ruvido, perché educare è introdurre la persona alla vita tutta. Questo è il difetto dei meridionali che ci sentiamo sempre un po’ «filosofi della Magna Grecia». Invece se uno guarda, impara meglio dalla realtà. Per questo mi sono impegnato nell’esperienza del lavoro interinale che ci ha permesso di fare molti progetti. Abbiamo cominciato proponendo alla Pubblica Amministrazione di affidarci lo svolgimento di servizi gestiti da essa, secondo una formula che in Italia trova molte resistenze legate all’ignoranza.

D
. Perché c’è una prevenzione verso il lavoro interinale?
R. C’è molta ipocrisia. Quando si accusa il lavoro interinale di costituire una forma di precariato, nessuno dice che gli addetti a tale lavoro in Italia sono 120 mila di fronte a milioni di lavoratori; nessuno spiega che il nostro Paese ha il più alto tasso di lavoratori a tempo indeterminato e il più basso tasso di occupati. Se si esaminano i dati dell’Ocse si rileva subito che Spagna, Inghilterra e Finlandia hanno un trend positivo, mentre in Francia, Germania e Italia esso è negativo; ma nessuno aggiunge che in quei Paesi sono state compiute riforme radicali del mercato del lavoro. Oggi non si può più continuare senza una flessibilità vera e tutelata.

D
. Quali vantaggi ne derivano?
R. Innanzitutto va ricordato che il lavoro interinale nel Mezzogiorno significa lotta dura al lavoro nero. Noi in questi anni abbiamo lanciato nuovi strumenti come la «Piazza del lavoro», che aiuta a cercare un’occupazione. Dai dati dei Centri per l’impiego risulta che i 700-800 addetti operanti in essi riescono ad avviare al lavoro, in un anno, solo 18 persone. Io con appena 18 persone ho avviato al lavoro interinale, solo l’anno scorso, 15 mila lavoratori. Viviamo in un sistema autoreferenziale che tutela se stesso e lavora per se stesso. E questo è veramente inconcepibile.

D
. Ma allora quali sono le prospettive del mercato del lavoro, e in particolare dei giovani disoccupati?
R. Oggi viviamo in un mondo complesso. Il lavoro non può più essere concepito come una torta da spartire. Invece troppo spesso la gente pensa ad esso come a qualcosa che deve arrivare dall’alto o che, peggio ancora, deve essere fornita dal politico di turno. Io, al contrario, ritengo il lavoro frutto dell’iniziativa personale. Se sono convinto di questo, non ho paura di affrontare la realtà, compio una scelta consapevole, rischio sì, ma fino a un certo punto. È quanto è capitato a me: vedevo nascere iniziative ogni giorno, per questo ho lasciato il posto di veterinario, essendo esso diventato incompatibile con i miei hobbies.

D
. Con la sua esperienza quale consiglio darebbe allora ai giovani che intraprendono questa strada?
R. Solitamente fornisco loro un consiglio: se uno svolge un lavoro, qualunque esso sia, deve farlo bene, con grande passione. Se si segue questa strada, non sai mai quello che può avvenire. Racconto sempre la storia di un mio amico che lavava i cani, ma così bene che era diventato amico dei propri clienti. Un giorno un personaggio politico gli disse: «Sei proprio bravo, ma tu che cosa hai studiato?». E lui: «Sono geometra». Il politico gli offrì un posto di geometra alla Regione. Questo dimostra che non si può concepire il lavoro come attesa del lavoro. Bisogna costruire una cultura basata sulla capacità di agire in un contesto che è sempre più imprevedibile. Io sono stato formato a questa cultura, per cui ho compreso che nel Sud il problema è antropologico.

D
. Che significa di preciso?
R. Che manca questo tipo di mentalità, manca l’abitudine a coniugare educazione e formazione e questa mancanza crea un danno antropologico. Bisogna ripartire dalla scuola e dall’università. Io dedico del tempo a spiegare ai ragazzi come è cambiato il mercato del lavoro. Numerose scuole mi chiamano ogni anno a far lezione e accetto volentieri i loro inviti perché mi forniscono l’occasione di comunicare ai giovani alcuni concetti chiari. Mi colpisce come essi siano attenti a questi argomenti; gli stessi presidi se ne stupiscono. Quando capiscono che l’interlocutore racconta esperienze vissute, raddoppiano l’interesse perché desiderano comprendere quale sarà il loro futuro.

D
. Sembra tornare una certa attenzione verso il Sud; è stato creato anche un dicastero. È la strada giusta?
R. Non lo è affatto. Troppo spesso ho l’impressione che del Sud non interessi niente a nessuno. Anzi più il tempo passa, più si rafforza l’impressione che qualcuno pensi seriamente di dargli una spallata definitiva. Credo che dedicherò i prossimi anni alla formazione dei giovani, perché una pessima realtà sociale produce una pessima classe politica, e ognuno ha il governo che si merita. Vedo due priorità. Occorre che il Nord cominci a recitare un «mea culpa» perché ha sempre considerato il Sud come un’area in cui pescare manovalanza. E occorre che il Sud ripensi se stesso in modo serio, riconoscendo che ha un problema di mentalità. Un problema serio, che va affrontato e non con le solite chiacchiere da bar. Io ringrazio moltissimo chi mi ha dato la possibilità di studiare a Milano e di conoscere l’esperienza di Comunione e Liberazione, che mi ha formato e mi ha fatto tornare a casa con una visione positiva. Finora il meridionale non è partito mai da una visione positiva, si è sempre lamentato, è capace solo di ciò.

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