LE RIFLESSIONI DI UN MANAGER
 
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LE RIFLESSIONI
DI UN MANAGER

ISTITUZIONI. L'OSCURO MALE
DELLA PRIMA REPUBBLICA

La maggioranza deve mantenere un dialogo continuo e aperto
con l’opposizione, purché questo non diventi
un alibi per abdicare
alle proprie responsabilità di operare quelle scelte e di assumere
quelle decisioni necessarie per attuare
il programma elettorale


di
Paolo di Damasco



oscuro male che ha afflitto la prima Repubblica si chiamava consociativismo. È stato il tacito patto tra la Democrazia Cristiana e i comunisti che, da un canto, escludeva questi ultimi dalla possibilità di ricoprire responsabilità di Governo e, dall’altro, li ricompensava con una «condivisione» del potere che si sostanziava, non infrequentemente, in un vero e proprio diritto di veto. Il frutto avvelenato del consociativismo è stato l’immobilismo della politica nell’affrontare i grandi temi delle riforme e dell’ammodernamento del Paese. Questa cultura sembrava superata con l’avvento del sistema maggioritario, avendo questo rivitalizzato il potere e la responsabilità in relazione alle scelte e alle decisioni politiche che spettano alle forze che vincono le elezioni. Purtroppo non è stato così. Troppe sono, infatti, le invocazioni che vengono da sedi istituzionali e da esponenti politici per scelte «bipartisan» in materia di riforme costituzionali e di altre riforme, quali quelle dell’ordinamento giudiziario o della cosiddetta «par condicio» in tema di propaganda elettorale. L’assurdo è anche che queste invocazioni molto spesso provengano proprio da coloro che, nel recente passato, avevano ignorato l’esigenza di ricercare un accordo con le opposizioni. Il centrosinistra non ha modificato la Costituzione alla fine della scorsa Legisatura avvalendosi di una maggioranza di appena quattro voti? E in occasione delle elezioni regionali del 2000 non ha introdotto nuove norme sulla «par condicio» quando la campagna elettorale era virtualmente aperta? (In queste occasioni, peraltro, non si è sentito alcun monito provenire al Paese dalle sedi istituzionali).
Forse stiamo assistendo a rigurgiti fastidiosi della cultura del consociativismo, cultura che, avendo inquinato molti strati della società italiana è tuttavia presente sia nel mondo politico che in quello sociale. Un esempio illuminante è dato dalla «concertazione sindacale». Tenuta a battesimo dal Governo di Giuliano Amato nel 1992, e soprattutto da quello di Carlo Azeglio Ciampi nel 1993, non è stata interpretata, come sarebbe stato logico, come una spinta verso il dialogo tra le parti sociali e il Governo, ma è stata trasformata in un impegno del Governo a nulla modificare senza il preventivo consenso dei sindacati. Essendovi inoltre conferita ai sindacati la facoltà di intervenire su tutti i temi riguardanti la politica, la «concertazione» si è tradotta, nella realtà, in una modificazione di fatto della Costituzione, poiché i cittadini, anche quelli non associati ai sindacati, venivano da questi ultimi rappresentati in una prassi che superava l’ordinamento dello Stato previsto dalla Costituzione stessa.
Questa cultura del consociativismo non si limita ad auspicare la ricerca di un dialogo con le controparti e l’impegno massimo per raggiungere un accordo, ma esige che, senza accordo, tutte le più importanti materie non siano soggette a decisioni unilaterali da parti della maggioranza. Non si accetta il principio che l’elettorato, avendo conferito la maggioranza dei voti a determinate forze politiche, possa richiedere a queste di assumersi la responsabilità di una decisione anche non condivisa dall’opposizione. È vero che talvolta esiste solo una sottile differenza tra l’effettiva buona volontà di raggiungere un’intesa condivisa e la recita di una sceneggiatura che maschera la volontà pervicace di proseguire nella propria strada senza degnare di attenzione le posizioni delle controparti. È vero anche però che, pur nell’ambiguità di determinate situazioni, non appare mai lecito dubitare del diritto-dovere di qualsiasi maggioranza di attuare le riforme - soprattutto quelle previste dal programma elettorale - evitando di farsi bloccare da un’opposizione dissenziente.
Se, poi, si osserva più da vicino la situazione italiana, si riscontra che il sindacato più forte, la Cgil, rifiuta pregiudizialmente, per motivi politici, un qualsiasi colloquio con il Governo e che l’opposizione - almeno quella parte rappresentata dalla sinistra massimalista e da correnti di minoranza dei Ds -, teorizza non solo il principio che con il Governo Berlusconi non possa raggiungersi alcun accordo, ma anche quello che debba essere comunque rifiutata una qualsiasi possibilità di dialogo. Sembra quasi che in Italia il concetto di democrazia non sia ancora sostanzialmente condiviso da importanti forze politiche e sociali, tanto che queste, senza timore di cadere in contraddizione, auspicano intese tra maggioranza e opposizione sui temi delle grandi riforme e, nello stesso tempo, rifiutano per principio un qualsiasi confronto con il Governo e con la maggioranza scelta dagli elettori.
La democrazia, almeno a parere di chi scrive, esige che la maggioranza abbia sempre la responsabilità delle decisioni assunte ed abbia soprattutto l’obbligo di assumere decisioni, senza dilazioni o tentennamenti, quando l’interesse generale del Paese lo richieda. È sicuramente una buona pratica della democrazia quella secondo cui la maggioranza deve mantenere un dialogo continuo e aperto con l’opposizione, purché questo non diventi un alibi per abdicare alle proprie responsabilità di operare quelle scelte e di assumere quelle decisioni necessarie per l’attuazione del progetto-programma politico posto alla base del consenso ottenuto dagli elettori.
Si è invece al di fuori di un concetto di democrazia quando si conferisce ad alcuni organismi privati, come i sindacati in Italia, un potere di veto di fatto e, comunque, un potere di rappresentanza al di fuori della Costituzione, oppure quando si accetta che alcune forze politiche respingano in linea di principio una possibilità di dialogo con la maggioranza regolarmente eletta. Sarebbe allora bene che le istituzioni non solo rifuggano dalla cultura del consociativismo, ma anche puntualizzino secondo quali criteri e prassi devono attuarsi nel nostro Paese i principi fondamentali della democrazia. In altri termini sarebbe bene che, al di là delle generiche invocazioni, gli inviti al dialogo tra le parti siano sempre completati dal monito che in democrazia la ricerca del dialogo non può mai divenire un alibi per sfuggire al diritto-dovere della maggioranza di assumersi tempestivamente la responsabilità delle decisioni politiche, in particolar modo di quelle riguardanti il programma votato dagli elettori.
Proprio il tema del programma sta diventando quasi un incubo per il centrosinistra. Il motivo è molto semplice: il programma implica delle scelte e queste possono essere fatte solo quando le forze politiche della coalizione condividono nel merito alcuni progetti politici. Nel centrosinistra l’unico progetto condiviso è quello di mandare a casa Silvio Berlusconi e il suo Governo. Oltre a questo, non sembra che almeno per ora sussista un accordo, neppure sui principali temi della politica nazionale e internazionale. Ne è una conferma il fatto che finora non sembra che ci sia qualche responsabile politico del centrosinistra o qualche gruppo di lavoro che stia provvedendo alla stesura di un programma. È chiaro che, prima o dopo, un qualche documento programmatico dovrà essere compilato. Probabilmente gli estensori si dovranno tenere su principi e orientamenti generici al fine di acquisire un consenso comune, evitando scrupolosamente di toccare alcuni argomenti quali il diritto di famiglia, il trattamento delle coppie omosessuali, la patrimoniale, gli scaglioni tassabili ai fini dell’imposizione diretta ecc.
La leadership di Romano Prodi, pur non essendo formalmente contrastata, non appare così forte da imporre alla coalizione una rotta verso un programma effettivamente condiviso nel merito. Ed è proprio per questo che Prodi si è per ora dedicato alla ricerca di soluzioni consensuali, piuttosto che in tema di programma, in tema di organigramma, di organizzazione dei raggruppamenti politici e di cartelli elettorali. Su questi temi, ancora prima di verificare se le intese raggiunte siano di sostanza oppure di mera facciata, l’opinione pubblica, anche quella più devota al centrosinistra, ha avuto modo di capire molto poco, non riuscendo a seguire quella confusione prodotta dalle varie formule: Grande Alleanza, Federazioni, Uniti nell’Ulivo ecc. L’opinione pubblica, infatti, è rimasta gelida di fronte alle piccole e grandi risse che hanno punteggiato, nel centrosinistra, la discussione su questi temi perché non è stata mai messa in grado di rendersi conto del contenuto vero delle soluzioni proposte, al di là degli interessi particolari rappresentate da determinate forze politiche. L’unica cosa che forse si è capita chiaramente è che, per ora, il centrosinistra non è in grado di puntare su un leader diverso da Romano Prodi. Lo aspetta al vaglio delle elezioni regionali ed è pronto a insorgere se i risultati non saranno quelli desiderati. Nei prossimi mesi, pertanto, Romano Prodi dovrà continuare a sostenere gli esami; i buoni voti che dovesse riportare alle prossime elezioni regionali gli faranno avere la promozione per partecipare alla battaglia elettorale del 2006; in caso contrario, dovrà cedere il passo a un altro leader che, sotto il profilo politico, potrebbe essere Walter Veltroni o Piero Fassino, oppure, sotto il profilo «tecnico», nominativi vari, ivi inclusi quelli di Mario Monti e Luca Cordero di Montezemolo.
Nel centrodestra Silvio Berlusconi ha già dato l’avvio alla campagna elettorale, attaccando pesantemente la sinistra e cercando di distogliere così l’attenzione dell’opinione pubblica dalle controversie interne in merito alle elezioni regionali. Non è ancora chiaro se Berlusconi si sia reso conto che l’elettorato italiano si va sempre più distaccando dal mondo della politica, almeno fino a che questa resta povera di contenuti e ricca solo di risse e scontri verbali. Per poter risvegliare qualche interesse, all’attuale maggioranza non resta che attuare un concreto programma di riforme e dare esecuzione ai progettati lavori pubblici. La gente ne ha abbastanza di slogan, di insulti agli avversari politici o di alchimie organizzative in chiave elettorale. È disponibile a rivolgere la propria attenzione solo a problemi concreti, in particolare a quelli che in qualche modo possano aprire uno spiraglio positivo per l’economia delle famiglie. La lotta delle forze del bene contro quelle del male non appassiona più di tanto, almeno in Italia.
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