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FISCO. L'INCONSISTENZA
DELLE CRITICHE
ALLA FINANZIARIA

del sen. Riccardo Pedrizzi


presidente della Commissione
Finanze e Tesoro del Senato

l secondo modulo di riforma fiscale varato con la legge finanziaria per il 2005 prosegue una politica di riduzioni avviata dal Governo con il primo modulo del 2003. I contribuenti favoriti da quest’ultimo sono stati 28,6 milioni, pari al 74,7 per cento di tutti i soggetti; quelli favoriti dal secondo modulo sono circa 15,6 milioni, pari al 40,7 per cento di tutti i soggetti. I contribuenti che sarebbero sfavoriti sono circa 13 mila; tuttavia, per effetto della clausola di salvaguardia, nessuno di essi avrà aggravi d’imposta di alcun tipo. Il secondo modulo di riforma fa aumentare di 280 mila unità il numero dei soggetti totalmente esenti da imposta per l’aumento della «no tax area». L’attuazione delle misure fiscali tiene conto degli obiettivi di bilancio concordati in sede europea. La corretta copertura finanziaria viene assicurata, essenzialmente, attraverso una riduzione delle spese, senza incidere sulla spesa di carattere sociale.
Com’era prevedibile, le novità sul fronte fiscale hanno scatenato una reazione piuttosto scomposta da parte delle opposizioni. Vediamo perché. Una prima critica riguarda la presunta invarianza della pressione fiscale: il gettito aggiuntivo derivante dagli altri provvedimenti fiscali contenuti nella Finanziaria compenserebbe le riduzioni che vengono ora operate in sede Ire. In realtà, non si possono confondere le due cose. Per molto tempo, anche da parte di esponenti di sinistra, si è invocata la necessità di una riforma fiscale che ampliasse la base imponibile, anche attraverso una migliore efficacia degli strumenti di accertamento, e riducesse nello stesso tempo le aliquote d’imposta, rimuovendo un sicuro disincentivo all’attività economica.
L’operazione di «manutenzione» della base imponibile non equivale all’istituzione di nuove forme di imposizione; essa mira, essenzialmente, ad adeguare gli strumenti di accertamento al mutato contesto economico, che risulta enormemente modificato, peraltro, dagli effetti dell’introduzione dell’euro. Anche l’adeguamento delle imposte e delle tasse in misura fissa (bollo, concessioni governative ecc.) risponde, nella sostanza, alla medesima esigenza.
Un’ulteriore filone di critica ha ripreso temi già ascoltati nel corso dell’esame della legge delega di riforma del sistema fiscale statale. In particolare, si è tornati ad evocare attentati contro il sacro principio della progressività. Come in occasione di quel dibattito, chiedo: di quale progressività si sta parlando? Per impostare correttamente il problema della progressività forse sarebbe opportuno partire dalla constatazione che l’Irpef è in sostanza già da tempo un’imposta speciale progressiva e personale solo sul reddito da lavoro. Essa è stata gradualmente trasformata, soprattutto in seguito alle riforme introdotte dai Governi di centrosinistra, in un’imposta specifica sul lavoro (e sulle pensioni), «l’esatto opposto del suo modello morale, ideale e politico».
In particolare, proprio i Governi di centrosinistra hanno perseguito una sistematica esclusione dalla base imponibile dell’imposta personale di tutti gli altri tipi di reddito: dei redditi di capitale, soprattutto delle forme più sofisticate di impiego del risparmio, soggetti ad aliquota proporzionale del 12,5 per cento; dei redditi d’impresa, via Dit a regime, applicata in ragione di un’aliquota proporzionale del 19 per cento. Se poi si guarda al sistema impositivo nel suo complesso, il colpo finale alla progressività è venuto con l’introduzione dell’Irap, un’imposta sostanzialmente regressiva perché colpisce relativamente di più le attività produttive con minore capacità contributiva, perché piccole o perché non evolute.
Per le ragioni sopra esposte non può che essere ben accolto - secondo criteri sia di efficienza, sia di equità distributiva - qualsiasi intervento teso a ridurre sia la personalizzazione che la progressività dell’imposizione sul reddito. Occorre, poi, assicurare una progressività reale del sistema fiscale, che è funzione anche dell’ampiezza del fenomeno dell’evasione fiscale. Un contributo al corretto adempimento degli obblighi fiscali verrà dall’ulteriore affinamento degli studi di settore, uno strumento con il quale, anche attraverso il consenso degli operatori interessati, si va definendo un sistema di adeguamento alle mutate condizioni economiche.
Quanto agli effetti degli sgravi sui singoli contribuenti, essi devono essere valutati alla luce dell’azione complessiva del Governo nel corso di questi anni. Secondo i risultati di una simulazione condotta da alcuni ricercatori di Econpubblica (Centro di ricerca sull’economia del settore pubblico) dell’Università Bocconi, l’esame combinato delle modifiche introdotte nel primo e nel secondo modulo di riforma fa emergere benefici consistenti proprio per i redditi bassi, mostrando che la consistenza degli sgravi operata con il secondo modulo di riforma supera quella del primo modulo, varato a partire dal 2003, pari a 5,5 miliardi di euro.
Supera altresì di molto quella del primo avvio di riduzione dell’Ipef-Ire - il milione di lire a figlio varato a partire dal 2002 -, il cui costo fiscale si aggirava su 1,2 miliardi di euro. Complessivamente, gli sgravi Ire in questa legislatura ammontano finora a quasi 13 miliardi di euro, pari a circa un punto del prodotto interno lordo. Si tratta di risultati fondamentali che testimoniano la coerenza dell’azione di Governo e della sua maggioranza parlamentare nella realizzazione degli aspetti qualificanti del programma politico della Casa delle Libertà.
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