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OGNI GIORNO LA FAME
NEL MONDO FA TANTE VITTIME QUANTO IL RECENTE MAREMOTO

di Ivano Barberini


presidente dell’Alleanza
Cooperativa Internazionale
e dell’Archivio Disarmo

penti i riflettori sulla terribile catastrofe naturale che ha colpito il Sud-Est asiatico, è auspicabile che le Istituzioni nazionali e internazionali assumano finalmente la responsabilità di dare risposte politiche appropriate all’interazione tra i problemi locali e quelli planetari e agli assetti del «governo» globale: insomma all’insieme di questioni che sono state sin qui sacrificate agli interessi particolari.
In quei lunghi giorni del dopo tsunami è avvenuto qualcosa di molto importante e per certi versi inedito. La continua informazione televisiva, direttamente dai luoghi colpiti, e la presenza tra le vittime di turisti provenienti da ogni parte hanno annullato le distanze: ai più, il mondo è apparso davvero piccolo e senza frontiere. Ovunque la gente si è «sentita» emotivamente coinvolta negli stessi rischi. Alla vista di quei corpi senza vita e senza nome, allineati tra le macerie, è scattata la solidarietà in ogni parte del mondo.
Nonostante l’individualismo e la competizione economica indotti dai processi di modernizzazione, sono riemersi ovunque i valori umani di compassione, di solidarietà, di considerazione del valore della vita, anche di quella dei dannati della terra. Molte organizzazioni sociali si sono adoperate nella raccolta di fondi da destinare all’emergenza e alla ristrutturazione, con generosità ed efficacia. Per parte sua, l’Alleanza Cooperativa Internazionale, che associa le organizzazioni cooperative di 100 Paesi, comprese quelle del Sud-Est asiatico, ha lanciato una raccolta di fondi finalizzata a soccorrere le popolazioni colpite e a concorrere al ripristino delle loro condizioni di lavoro e di reddito.
La risposta delle cooperative, dei cooperatori e dei cittadini è stata superiore ad ogni aspettativa. Significativo e rilevante è apparso anche l’atteggiamento delle Istituzioni pubbliche. Alla pochezza dei contributi destinati dai Paesi più ricchi nella fase iniziale, è seguita un’azione più sostanziosa e impegnativa, sia pure per ragioni geopolitiche più che umanitarie. La Cina tende ad esercitare un ruolo importante nel Sud asiatico e ad affermarsi come potenza economica mondiale; il rifiuto di aiuti da parte dell’India e la sua disponibilità a soccorrere i Paesi limitrofi sono stati letti come una manifestazione identica a quella cinese; per quanto riguarda gli Stati Uniti d’America, è apparsa esplicita la volontà di affidare all’intervento solidale il recupero di simpatie e consensi, cercando di presentarsi come artefici di sviluppo e di benessere.
Non è affatto certo che, se lo tsunami avesse colpito l’Africa, la risposta del mondo economicamente più evoluto sarebbe stata la stessa. La nuova centralità dell’Asia nello scenario globale ha certamente pesato nelle scelte. Vi è da aggiungere che proprio quelle motivazioni fanno temere che i fondi destinati alle aree colpite siano tolti dagli aiuti stanziati per altri Paesi poveri, soprattutto quelli meno strategici. Sarebbe una conclusione gravissima.
Il terribile tributo di vite umane pagato alla violenza della natura nel giorno di Santo Stefano dello scorso anno impallidisce al confronto con quanto avviene nelle realtà più povere del mondo. Ogni giorno sulla terra circa 100 mila persone muoiono di fame o delle sue conseguenze immediate. 826 milioni di persone sono cronicamente e gravemente sottoalimentate; il rapporto del Worldwath Institute stima in 2 miliardi le persone che soffrono per la penuria di cibo e in 434 milioni quelle colpite da penuria di acqua. Questi dati sono in tendenziale, grave peggioramento: si prevede che nel 2025 la scarsità di acqua interesserà oltre 3 miliardi di persone.
È una realtà nota, di proporzioni spaventose. Forse per questo non ha la stessa forza emotiva degli eventi improvvisi e in qualche modo misurabili: 50 milioni di persone, tra le quali molti bambini, che ogni anno muoiono per fame o malattie infettive non hanno volto e, in più, sono una realtà troppo vasta perché la solidarietà rappresenti una strada efficacemente risolutiva. I Paesi donatori privilegiano gli interventi a breve, pur consapevoli che la loro efficacia si esaurisce altrettanto rapidamente.
Tuttavia, per quanto grave, la situazione non è oggettivamente irrisolvibile. Ha scritto Jean Ziegler, sociologo e relatore speciale all’Onu per il diritto all’alimentazione, che «per la prima volta nella propria storia l’umanità gode di una grande abbondanza di beni e il pianeta è schiacciato dal peso della ricchezza. I beni disponibili superano di molte migliaia di volte i bisogni incoercibili degli esseri umani». Sono la disuguaglianza nella partecipazione ai benefici della globalizzazione, l’impossibilità di accedere alla conoscenza da parte dei più poveri, la mancanza di potere di acquisto, che creano le maggiori distanze sociali e sono alla base del disagio e dei conflitti in diverse aree del mondo.
È l’azione politica, responsabilmente esercitata, che è chiamata ad imprimere una svolta a questa situazione. Servono cambiamenti profondi e di lungo periodo; occorre passare dagli aiuti umanitari a rapporti economici e sociali nuovi, finalizzati a costruire dei «sistemi» che siano in grado di auto-rigenerarsi e di stimolare l’autodeterminazione. Solo dal reale riconoscimento del diritto al cibo, alla salute, al lavoro dignitoso, come diritti universali, possono derivarne azioni efficaci e coerenti.
La proposta avanzata dal sindaco di Roma Walter Veltroni di «convertire» il debito estero dei Paesi in via di sviluppo in investimenti strutturali, determinati negli obiettivi e nel tempo e perciò misurabili, appare interessante perché si muove in una direzione nuova e praticabile. I Paesi ricchi devono superare un atteggiamento egoistico di respiro corto e assumere un ruolo più sistematico e impegnativo. Ciò appare altresì una via efficace per superare i tanti conflitti legati alla povertà estrema, costruire una pace stabile, combattere la corruzione, dare spinta e vigore alla democrazia. Le organizzazioni sociali, tra le quali il movimento cooperativo con i suoi 800 milioni di soci, possono dare un serio contributo a perseguire questi obiettivi. Valorizzare i loro apporti è anch’esso parte della responsabilità - e della convenienza - delle Istituzioni e della Politica.
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