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GIULIANO PAOLETTI:
LE COOP SI RINNOVANO,
MA PUNTANDO SUI PRINCIPI

di Luigi Locatelli


Il presidente della Legacoop illustra
gli effetti che la recente
riforma del diritto societario potrà
avere in quella particolare specie
di società che sono le cooperative

roppe vicende hanno prodotto un effetto negativo diffondendo incertezza e paura. Oggi il grande problema del Paese è la mancanza di fiducia. L’economia soffre quando eventi traumatici rendono evidente l’esistenza di punti critici anche in settori nobili dell’apparato produttivo. Ed esiste un pesante effetto collaterale sul sistema finanziario e bancario». Senza esitazione Giuliano Poletti risponde alla domanda sulle conseguenze che le vicende della Parmalat e della Cirio hanno provocato nell’economia in generale e nel mondo delle cooperative di cui oggi è alla guida. Un mondo che, numeri alla mano, può essere considerato il maggiore complesso imprenditoriale nazionale.
Le stime del 2004 indicano 47.818 milioni di euro di fatturato, in crescita del 6,43 rispetto all’anno precedente; 399.396 occupati nelle circa 15 mila cooperative raccolte in 9 associazioni di settore, operanti nell’agroalimentare, nella pesca, nella produzione, nei servizi, nel turismo; un mondo complesso di consumatori che realizzano il fatturato più alto, sui 12 miliardi di euro, in crescita del 7,79 per cento. Poi il settore culturale, l’abitazione, le mutue, i consorzi artigianali, le finanziarie cooperative. Una macchina produttiva mossa da 6.706.677 soci, legati da impegno operativo, fede solidale, fermezza ideologica e culturale, tradizione ed esperienza in una storia lunga 120 anni.
Come definire Giuliano Poletti? Un manager di prima linea alla guida di un’impresa con una forte connotazione politica? Un abile uomo d’azienda i cui soci-azionisti si impegnano nel lavoro, sperano nel futuro, credono alla solidarietà, che è il loro capitale più prezioso? «Sono nato e cresciuto in una famiglia di agricoltori, prima mezzadri poi coltivatori, che avevano nella cooperativa il primo strumento per difendersi meglio sul mercato», racconta di sé.
Nato a Imola, ha due figli che gli hanno trasmesso un «morbo» incurabile: la passione per la pallamano. Li ha assecondati fino a diventare vicepresidente vicario della Federazione nazionale. «A chi lavora come me in un campo in cui il tema sociale è particolarmente vivo, e per noi emiliani è quasi un virus, è difficile sottrarsi, ci si appassiona. Ti dicono: C’è bisogno di un rappresentante nel Consiglio regionale, perché non lo fai? Poi la Federazione nazionale. Così è stato per la politica, per il lavoro e per l’hobby sportivo. Esperto di viticoltura ed enologia con primo impiego in una cooperativa, si è impegnato da quando aveva 19 anni nel Partito comunista; eletto nel 1975 consigliere comunale della sua città, successivamente assessore alle Attività produttive poi vicepresidente del Circondario imolese, è stato consigliere provinciale di Bologna e presidente dell’Esave, istituto per la ricerca e la sperimentazione nella viticoltura e nell’enologia nell’Emilia Romagna.
Per 8 anni, dal 1981, segretario della Federazione di Imola del Pci, ha ricoperto la carica di presidente regionale della Legacoop e vicepresidente nazionale, fin quando, nel 2002, è stato chiamato a sostituire Ivano Barberini alla presidenza nazionale. Mescolando bonomia emiliana e fedeltà ideologica, facondo nelle parole ma deciso nei contenuti, espone il proprio giudizio sul momento attuale caratterizzato, per il mondo cooperativo, dal grande cambiamento determinato dalla riforma del diritto societario varata nel gennaio 2004, e che entro l’anno dovrà realizzare tutte le proprie novità.
Domanda. Quali gli effetti di questo passaggio nella vita delle cooperative?
Risposta. La riforma del diritto societario ha cambiato in maniera significativa una serie di situazioni; le conseguenze potranno verificarsi solo nel tempo e dipenderanno anche dai comportamenti dei cooperatori. Una maggiore o minore apertura alle novità legislative significherà un impatto più o meno forte sul sistema imprenditoriale cooperativo.
D. Al di là del comportamento dei singoli, individui o imprese, legato all’aspetto ideologico o psicologico, quali saranno le conseguenze giuridiche, economiche, fiscali?
R. Vi sono delle incertezze perché nel settore fiscale, ad esempio, è stato introdotto un regime transitorio che si è concluso il 31 dicembre 2003. Quindi non vediamo ancora gli effetti della nuova norma. Potremo valutarne l’impatto quando sarà completato l’iter legislativo.
D. Qual’è la sua valutazione come presidente della Lega?
R. La legge ha due difetti gravi; per il resto è largamente utilizzabile anche nella prospettiva di sviluppo del mondo cooperativo. Il primo difetto è la possibilità di trasformare una cooperativa in una società di capitali; una soluzione che riteniamo sbagliata perché la forma cooperativa prevede una modalità di accumulazione della ricchezza prodotta dai soci che si presta difficilmente a una trasformazione in impresa non cooperativa. La legge prescrive che, se si vuole attuare questa trasformazione, il patrimonio accumulato nel tempo deve essere devoluto ai fondi per la mutualità cooperativa, innescando complessi meccanismi di valutazione del patrimonio, delle riserve ecc. Ma l’aspetto più grave è la lesione del principio che il patrimonio accumulato non è dei soci, ma è collettivamente utile e sarà a disposizione dei nuovi soci che, in prospettiva, potranno utilizzarlo per lo sviluppo dell’impresa. Anche se la legge delimita la concreta applicazione di questa novità, ipotizzare che la cooperativa cambi natura significa introdurre un vulnus al concetto di passaggio generazionale e di continuità nel tempo.
D. Ma la norma è vincolante?
R. No, la trasformazione è facoltativa ma gli effetti potrebbero essere gravi, si creerebbero situazioni paradossali. Per garantire la continuità di impresa il socio di una cooperativa rinuncia, a favore di generazioni future, a una parte della ricchezza prodotta. Con la nuova norma si potrebbe annullare questa motivazione d’origine. Per esempio, se nuovi soci entrano in una cooperativa che ha un patrimonio consistente e pagano una limitata quota d’accesso prevista dalla natura dell’impresa e dagli statuti, in forza del principio democratico che ognuno ha diritto a un voto essi potranno decidere di liquidare quello che gli altri hanno accumulato in tanti anni. Modificare la finalità di un’istituzione che ha più di cent’anni di storia non mi sembra un’innovazione ragionevole.
D. Il secondo difetto della legge?
R. Riguarda il criterio adottato per definire i requisiti delle cooperative che hanno diritto a trattamenti agevolati da parte dello Stato. È il cosiddetto principio di prevalenza dello scambio mutualistico tra socio e cooperativa, in base al quale per avere agevolazioni fiscali la cooperativa deve operare per il 51 per cento con lavoro dei soci e con clienti soci. Non si tiene conto di altri elementi che caratterizzano la forma cooperativa e producono effetti consistenti a vantaggio non solo del socio ma di una collettività molto più ampia. Penso alla distribuzione, al lavoro delle cooperative culturali o sociali nelle comunità locali. Attribuire il valore cooperativo al lavoro svolto solo per i soci limita la comprensione e la valorizzazione effettiva della cooperazione. Potrebbero verificarsi situazioni paradossalmente rovesciate. Cito la cooperativa che gestisce un negozio per il commercio equo e solidale: il ricavato non va ai 30 o 50 volontari che vendono il caffè o il cacao brasiliano ma a vantaggio dei destinatari finali. Come si può dire che la natura di questa cooperativa è legata alla presenza del 51 per cento di soci soltanto se gli acquirenti del caffè sono prevalentemente soci? Questo contrasta con il fatto che l’utile non è del venditore del caffè ma del lontano produttore o di un destinatario finale. Dire che non ha i requisiti di cooperativa chi vende il caffè non a 50 soci ma a 500 clienti del quartiere è come dire che non li ha neppure una cooperativa culturale che gestisce una biblioteca con il lavoro di 50 soci volontari ma serve una popolazione di 5 mila cittadini. Si può affermare che non c’è il requisito perché i 5 mila che usufruiscono dei libri della biblioteca non sono soci? Aver fissato il principio della prevalenza al 50,1 per cento per distinguere buoni e cattivi non permette di fotografare in maniera corretta la vera ragione cooperativa.
D. La norma non è diretta a frenare i tentativi di ottenere vantaggi fiscali e normativi presentandosi come cooperative e organizzazioni senza fini di lucro?
R. Qualsiasi norma deve prevedere l’ipotesi che qualcuno cerchi di usufruire illegittimamente di vantaggi concessi a particolari categorie. Sono preoccupazioni comprensibili, ma che hanno grandi limiti. Gli abusi non si combattono complicando la vita a chi non li fa, ma colpendo chi attua comportamenti scorretti e illegali.
D. Quali punti considera positivi?
R. La migliore determinazione dei contenuti statutari della singola cooperativa, la maggiore responsabilizzazione e libertà di scegliere obiettivi e modalità operative, affidate all’autoregolamentazione attraverso lo statuto. Siamo contrari a una vita iper-regolata dalla legge, preferiamo per le nostre imprese la possibilità di definire campi e modalità operative attraverso i patti tra i soci, nel rispetto dei canoni fondamentali. La nuova legge consente alla cooperativa in maniera esplicita la possibilità di scegliere. Abbiamo avviato con le cooperative degli incontri per illustrare novità, opportunità, possibilità, con un invito a non affrontare queste questioni in una logica burocratica ma con una riflessione approfondita sull’occasione offerta di ammodernare gli statuti e la struttura stessa della cooperazione in un’epoca in cui cambiano i rapporti, la società, gli strumenti.
D. Quali aspetti organizzativi prevede che saranno rinnovati?
R. Il rapporto tra socio e cooperativa, in particolare la direzione societaria, i consigli, i sistemi elettorali, la selezione dei gruppi dirigenti. Alcune modifiche sono imposte dalle nuove norme, per esempio i controlli, tema sul quale oggi c’è una maggiore sensibilità e che va affrontato con cura. Un altro aspetto è costituito dalla tipicità dello scambio mutualistico e dagli strumenti per renderlo effettivo al massimo livello. Infine la nuova possibilità di avere apporti di capitale da soggetti diversi, come i privati, che partecipano alla cooperativa in minoranza, conferendo risorse necessarie allo sviluppo dell’impresa ma senza intaccare il diritto-dovere dei soci di dirigere la propria società. L’ingresso di soci di capitale è consentito con la costituzione di riserve divisibili e quindi attribuibili ai soci al momento dell’uscita dalla cooperativa, mentre fino a ieri erano possibili solo riserve indivisibili destinate alle future generazioni. Sono possibilità che favoriscono l’attività in settori interessanti.
D. È difficile il rinnovamento per il mondo della cooperazione?
R. Il problema che ci troviamo di fronte è gestire la transizione utilizzando le opportunità per avere uno sviluppo ulteriore, senza perdere i tratti distintivi che sono la ragione della nostra esistenza e costituiscono una forma di pluralismo e di democrazia nell’economia, con una forma di impresa che ha dimostrato di saper competere sul mercato senza essere assistita.
D. È in atto una revisione dell’organizzazione della Legacoop; a che cosa punta?
R. Gli obiettivi principali sono due. Il primo è rendere più compatta ed effettiva la partecipazione delle imprese alla vita della loro organizzazione. Nei meccanismi di delega e di rappresentanza è permanente il rischio che un’organizzazione risponda più alle logiche interne che ai bisogni degli associati. Ci siamo proposti perciò di costruire meccanismi meno burocratici, più dinamici, eliminando dispersioni, sovrapposizioni, inefficienze in una macchina con 120 anni di vita. Dobbiamo definire in maniera precisa i compiti della rappresentanza generale e della sua articolazione territoriale. Queste strutture rischiano di sovrapporsi, di fare le stesse cose. Abbiamo bisogno di un’articolazione imprenditoriale più adeguata al mercato, specializzata nei problemi dell’impresa.
D. Qual’è la situazione economica della Legacoop?
R. Il sistema cooperativo ha prodotto buoni risultati come sviluppo di attività, numero di imprese, occupati; oltre un milione di italiani, lavoratori o soci, lavorano in cooperative. Registriamo un aumento del 4 o 5 per cento annuo dei posti di lavoro. Gli occupati nelle cooperative aderenti alla Legacoop sono intorno alle 450 mila unità. Un’impresa non cooperativa che nel 1951 aveva 25 addetti adesso ne ha 7,8. La cooperativa, invece, è passata da una media di 12,8 addetti ad una di 17,5 nel 2001. Circa il quadro economico, abbiamo ancora dati positivi ma nel 2004 si registrerà un rallentamento significativo anche per il mondo cooperativo, con alcuni settori che hanno serie difficoltà. La Coop, la nostra catena della grande distribuzione, e la Conad che unisce le cooperative dei dettaglianti, risentono della riduzione dei consumi.
D. L’euro ha influito sui prezzi e sui consumi?
R. Come stabilità, inflazione, capacità di competere, fuori dall’euro avremmo avuto colpi pesanti. Non so immaginare cosa avremmo dovuto subire, direttamente e come conseguenze collaterali per le grandi imprese. Per i singoli qualche difficoltà l’euro la produce, per la tendenza ad arrotondare i prezzi. Basta andare al ristorante per accorgersi che un pasto un tempo da 40 mila lire oggi costa 40 euro, quasi 80 mila vecchie lire.
D. Non ritiene che ci sia anche un forte cambiamento nelle abitudini di spesa degli italiani?
R. È cambiata la composizione della spesa. Basta guardare nella famiglia il costo dell’uso del telefono cellulare: in media 300-400 euro per 3 persone che con il telefono fisso non ne spendevano 100, un quarto di oggi. È cambiata la condizione economica di una gran parte di italiani, ma non in termini di salario. Bisogna tenere presenti gli shock subiti dal risparmio negli ultimi anni: la bolla della new economy, la crisi del mercato azionario, le vicende come Parmalat che hanno azzerato i rendimenti finanziari di chi aveva comprato azioni o fondi comuni obbligazionari. Per 6-7 anni, con 100 milioni di risparmi in banca molti si erano abituati a una rendita del 10 o 12 per cento, che faceva aumentare il risparmio e permetteva di spendere interamente stipendio o pensione. Quando gli italiani hanno scoperto che la ricchezza disponibile si era drasticamente modificata, sono cominciate l’incertezza e la paura e si è avvertita la necessità di risparmiare una quota del salario o della pensione.
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