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CLAUDIO PETRUCCIOLI:
LA RAI E' DA RIFORMARE
MA CON L'ACCORDO DI TUTTI




Il presidente della Commissione
parlamentare di Vigilanza
sui servizi radiotelevisivi
illustra i punti principali
della riforma in itinere sui quali
ritiene necessario un accordo
tra maggioranza e opposizione

´Viva la Raiª, inneggiava una canzone qualche anno fa. Oggi si potrebbe a ragione gridare: ´Basta la Rai!ª. La colpa Ë di un atteggiamento che sembra interessare un poí tutti i settori della societý: un inarrestabile desiderio di scontrarsi su tutto. In questa situazione di guerra perenne la Rai e la televisione in generale sono come la punta dellíiceberg. Tutti, dentro e fuori infatti, non perdono occasione per litigare. Come mai? Il sen. Claudio Petruccioli, presidente della Commissione di vigilanza sui servizi radiotelevisivi, ha una propria opinione che illustra in questa intervista. Domanda. Nelle scorse settimane lei ha sollevato una polemica sul ruolo del direttore generale della Rai, che, secondo lei, gode di eccessiva autonomia. PerchÈ? Risposta. Non ho sollevato alcuna polemica. Mi sono limitato a sottolineare come, dopo la decisione del presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi di avvalersi dellíart. 74 della Costituzione per rinviare la legge Gasparri al Parlamento, ci venga offerta una grande occasione per riesaminare líintero impianto della legge. Nei regolamenti della Camera e del Senato Ë previsto che il Parlamento puÚ decidere se limitare il riesame ai punti oggetto del messaggio del Capo dello Stato o se estenderlo ad altri punti. Per questo motivo ho deciso di inviare una lettera ai presidenti dei Gruppi parlamentari in cui auspicavo che si mettesse mano al problema della Rai che, pur non essendo oggetto del messaggio, va affrontato. Ho espresso questo auspicio perchÈ credo che la soluzione indicata dalla Gasparri abbia giý mostrato i propri limiti. La legge ricalca líesperienza che stiamo vivendo in questo periodo con un presidente di garanzia la cui elezione Ë subordinata allíaccordo dei due terzi della Commissione di Vigilanza - quindi un presidente bipartisan - e un direttore generale che ha nelle proprie mani quasi tutti i poteri. Partendo dallíesperienza attuale, Ë evidente che il meccanismo non funziona. Non solo la garanzia che dovrebbe assicurare il presidente non si esercita perchÈ egli non ha alcun potere, ma si crea una situazione di assoluto disordine nellíazienda con scontri continui tra i vertici. Lo dico a prescindere dalle valutazioni di merito su chi abbia ragione o torto. Sono convinto, e sfido chiunque a dire il contrario, che uníazienda cosÏ non puÚ andare. Non esiste impresa in grado di sopravvivere in uno stato di perenne e istituzionalizzata guerra interna. Persino líesercizio delle funzioni che la legge attribuisce a questa Commissione di Vigilanza diventa difficile in una situazione del genere. D. Come si Ë arrivati a questo? R. La storia Ë lunga. I poteri del direttore generale sono stati definiti, formalizzati e allargati in misura cosÏ straordinaria dalla legge del í93 che doveva essere ed era assolutamente transitoria. Infatti fu approvata insieme al famoso decreto ´salva Raiª che stanziÚ varie centinaia di miliardi per risanare le finanze dellíazienda. Il servizio pubblico era in condizioni catastrofiche e si decise di fronteggiare líemergenza stanziando fondi e nominando un Consiglio di amministrazione di cinque persone, con il compito di risanare il bilancio. Presidente fu nominato Claudio DemattË, un esperto di economia aziendale, e tutti i consiglieri erano competenti pi˜ in materia economica che televisiva: era la famosa ´Rai dei professoriª. Contemporaneamente si decise di affidare tutto il potere di gestione editoriale al direttore generale che doveva portare avanti il lavoro dellíazienda. Nella legge, era esplicitamente indicato che le norme dovessero valere in maniera transitoria fino allíapprovazione di una nuova legge generale. Siamo andati avanti per oltre 10 anni, in Italia le cose transitorie durano per sempre, finalmente abbiamo la nuova legge. D. Cosa Ë successo nel frattempo? R. Il testo originario della Gasparri - a dimostrazione che non sono io a fare polemiche - eliminava tutta la legge del í93, compreso líarticolo riguardante il direttore generale. Anzi ne eliminava la figura stessa, introducendo le norme del Codice civile. Alla Rai, come in tutte le societý, ci sarebbe stato un amministratore delegato cui il Consiglio di amministrazione avrebbe affidato le deleghe. Non ci sarebbe pi˜ stata, come accade di fatto oggi, uníautonomia istituzionale ma uníautonomia funzionale dellíamministratore delegato. D. Che cosa Ë accaduto poi? R. Nel complesso iter legislativo della legge si Ë modificata la norma secondo cui per eleggere il presidente occorrono i due terzi dei componenti della Commissione di Vigilanza; al suo posto si stabiliva che tale maggioranza era necessaria solo nelle prime due votazioni, dopo sarebbe bastata la maggioranza semplice. In questo modo si vanificava il principio secondo il quale il presidente doveva essere nominato in base a un accordo bipartisan. Questo rischio non Ë sfuggito al Governo che, al Senato, ha restaurato la formula originale. Contemporaneamente perÚ, come per magia, veniva recuperato líart. 3 della legge 1993 sui poteri del direttore generale. Come dire: fate tutto quello che volete, tanto noi ci teniamo il direttore generale che ha tutti i poteri. Per questo motivo ho scritto esponendo le mie preoccupazioni. Dopotutto Ë evidente come stanno le cose: tutto quello che il direttore fa non Ë condiviso dal presidente e viceversa. Questa situazione puÚ essere sopportata per alcuni mesi ma, approvando il testo della Gasparri cosÏ comíË, rischiamo che il conflitto diventi permanente. PuÚ andare avanti uníazienda cosÏ? D. Ha sollevato altre osservazioni sul testo della legge? R. Ho inviato, lí8 gennaio scorso, una lettera ai presidenti delle tre Commissioni competenti che stanno discutendo il contenuto del messaggio del presidente della Repubblica: le Commissioni Cultura e Telecomunicazioni della Camera presiedute dagli on. Ferdinando Adornato e Paolo Romani, e la Commissione Comunicazioni del Senato presieduta dal sen. Luigi Grillo. Nella lettera ho fatto presente líopportunitý di non limitare líesame della Gasparri ai punti toccati dal messaggio del presidente. Non per ragioni di carattere politico, ma per due delicate questioni formali. La legge, infatti, abroga anche líart. 1 della legge 103 del 1975 che ha istituito la Commissione parlamentare di Vigilanza. Questo non significa che viene abrogata la Commissione, ma ci troviamo di fronte a uníassurditý. Oltre a questa ´distrazione legislativaª cíË uníaltra carenza. La Gasparri prevede che sette consiglieri della Rai siano eletti, con voto limitato a un candidato, dai componenti della Commissione di Vigilanza; nulla viene detto sullíipotesi che due o pi˜ candidati ricevano gli stessi voti. D. Che rilievo ha il problema? R. Sembra una questione marginale, ma ritengo importante che non ci si limiti ai punti sollevati da Ciampi. Non ho intenti polemici ma, visto che líoccasione si presta, mi limito a dire di non farcela sfuggire. Tra líaltro ho visto dei colleghi dissociarsi e precisare che si tratta di opinioni personali da me espresse. » vero che sono opinioni personali, ma pi˜ che limitarsi a puntualizzare, i miei colleghi farebbero meglio a dire cosa pensano dei problemi. Esistono o no? Come vanno risolti? Diteci cosa dobbiamo, fare altrimenti ci troveremo in una paralisi. D. Lei ha promosso un emendamento per evitare la chiusura di Rete 4 di Silvio Berlusconi. Non Ë strano per un esponente dellíopposizione? R. Ho proposto, come senatore, una soluzione per la vicenda di Rete 4. Non si trattava di una proroga come alcuni hanno detto, ma di una soluzione che rispondeva alla sentenza della Corte costituzionale fissando un termine entro il quale líemittente doveva passare alla trasmissione digitale. Il dibattito in corso Ë errato, perchÈ il problema non Ë se Rete 4 deve trasmettere via satellite o meno. Il problema Ë che Mediaset dispone di tre concessioni per trasmissioni con sistema analogico, quando la legge prescrive che non se ne possono avere pi˜ di due. CíË un limite cui la Corte ha pi˜ volte fatto riferimento, il 20 per cento del totale. Le frequenze analogiche concesse e disponibili sono 12; il 20 per cento sono 2,4, ossia 2 e non 3. Secondo le leggi vigenti, Mediaset, occupa arbitrariamente una frequenza analogica che deve liberare. D. Cosa prevede la legge Gasparri? R. Aveva creato un pasticcio stabilendo che dal primo gennaio 2004 i canali non fossero pi˜ 12 ma 15-18, conteggiando anche quelli digitali. Non era una soluzione possibile sia perchÈ i canali digitali non ci sono, sia perchÈ non ha senso parificare líanalogico al digitale. Per questo ho avanzato una proposta che mi sembrava ragionevole ma che Ë stata contrastata non solo dalla maggioranza ma da buona parte dellíopposizione. D. Per quale motivo? R. Quando si parla di televisione si preferisce fare a pugni piuttosto che risolvere i problemi. In base al mio emendamento, visto che ha una concessione analogica in pi˜, Mediaset avrebbe avuto 6 mesi per mettersi a trasmettere Rete 4 con il sistema digitale terrestre; al termine líAutoritý garante delle Comunicazioni avrebbe accertato se aveva fatto gli investimenti; in caso positivo essa avrebbe avuto altri 12 mesi per trasmettere sia in digitale che in analogico. Contemporaneamente avrebbe lanciato una campagna promozionale e, al termine, avrebbe rilasciato la terza frequenza analogica. In questo modo Rete 4 non sarebbe scomparsa dallíoggi al domani e si sarebbe rispettata la sentenza della Corte che chiedeva un termine preciso e non una nuova fase transitoria. Ma si Ë deciso di approvare un decreto-legge il cui testo Ë pieno di falle e non risolve il problema ma lo rimanda. D. Cosa crede sia meglio fare? R. Auspico che il decreto vada avanti perchÈ, se si vuole fare una buona riforma del settore, bisogna separarla dalle vicende di Rete 4. Il problema di Rete 4 Ë uníemergenza, e non si puÚ subordinare líintera legge alla sua soluzione. Al contrario, credo sia necessaria una riflessione pacata sullíintera riforma. D. Una riflessione pacata Ë possibile su una tv che Ë spesso motivo di scontro? R. Questa Ë la conseguenza dellíintreccio tra televisione e politica, che non esiste in nessun Paese democratico. Líintreccio, anzi la coincidenza tra politica e televisione esistente in Italia, Ë uguale a quella che si riscontra nei Paesi dittatoriali. Un sistema democratico non puÚ accettare questa commistione tra politica e televisione. Per lungo tempo il servizio pubblico Ë stato emanazione del Governo, poi la Rai ha aperto i confini allíopposizione, infine il proprietario della metý privata della televisione Ë diventato capo del Governo. Mi sembra evidente che in Italia politica e televisione sono la stessa cosa. FinchÈ non si separeranno, non si risolverý il problema. » uno dei punti su cui ho opinioni purtroppo non largamente condivise, neanche dalla mia parte politica. Se vogliamo separare la politica dalla televisione dobbiamo cominciare da quella parte che dipende direttamente dalla volontý politica. Se avessimo avviato questo processo in passato e la televisione fosse meno controllata dalla politica, il problema Berlusconi non esisterebbe. Separare la politica dalla tv significa rispettare le regole. Se esiste un limite di due concessioni analogiche, anche il servizio pubblico deve rispettarlo. Il modello deve essere secondo me quello inglese di un servizio pubblico forte e autonomo dalle pressioni politiche, che concorre a paritý di condizioni con il servizio privato. D. Privatizzare la Rai potrebbe essere la soluzione? R. Dobbiamo chiarire cosa significa. La Gasparri prevede questa ipotesi, ma la subordina alla quotazione dellíazienda in Borsa e la limita alla vendita di qualche azione ai privati: il Ministero dellíEconomia venderebbe quote entro il limite dellí1 per cento. » una privatizzazione? Ritengo prioritario superare il duopolio liberalizzando il settore, favorendo la nascita di un terzo soggetto, applicando la direttiva dellíUnione europea che impone la separazione tra le attivitý finanziate dal settore pubblico e quelle finanziate dai privati. La Rai dovrebbe scindersi in due societý: da un lato due reti analogiche finanziate completamente dal canone e senza pubblicitý, dallíaltro la terza, di proprietý completamente privata, senza canone, aperta al mercato e a partecipazioni esterne. Si rispetterebbe in tal modo il limite del 20 per cento e si libererebbero risorse pubblicitarie per altri soggetti. D. Le trasmissioni digitali terrestri hanno possibilitý di sviluppo? R. Possono costituire una grande opportunitý, se Ë chiaro líobiettivo. Siamo giý passati alla tecnologia digitale con la telefonia mobile, con internet ecc.; ora dobbiamo decidere se vale la pena investire anche nel settore televisivo. Non siamo di fronte a un passaggio tecnologico vero e proprio, come fu líavvento del colore. Della nuova tecnologia líutente puÚ anche non accorgersi, a meno che non vengano forniti, attraverso il canale televisivo, servizi interattivi. In questo caso il digitale potrý coinvolgere tutti, comprese le fasce pi˜ deboli della popolazione.
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